Voice of Cards: The Beasts of Burden | Recensione del card game di Yoko Taro

Voice of Cards: The Beasts of Burden, recensione del card game di Yoko Taro, arrivato alla sua terza iterazione in meno di due anni

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a cura di Mario Petillo

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Tre iterazioni in meno di due anni: questa è la storia in breve di Voice of Cards, la nuova serie lanciata da Yoko Taro, il visionario autore della saga di NieR e di Drakengard. Dopo i primi due capitoli, a distanza di pochissimo tempo arriva The Beasts of Burden, mettendo in risalto un periodo di stanca che sembra star vivendo l'autore giapponese, che dopo aver provato a sovvertire la formula dei jRPG utilizzando le meccaniche tipiche dei trading card game, continua ad aggiungere poche novità alla sua proposta videoludica. Abbiamo provato Voice of Cards: The Beasts of Burden su PC e questo è quello che pensiamo, tenendo conto di quanto accaduto con The Isle Dragon Roars e The Forsaken Maiden.

La donzelletta del villaggio

Avere quattordici anni nei videogiochi non è facile e lo sa bene la protagonista della nostra vicenda. Capitolo stand alone e per questo giocabile e godibile senza aver dovuto necessariamente giocare ai precedenti due capitoli, The Beasts of Burden ci conduce subito in un villaggio costruito e abitato nelle profondità di una caverna, con l'unico obiettivo, grazie a cancelli e palizzate disseminati di piano in piano, di difendersi dall'assalto dei mostri.

Difese vane, perché il villaggio viene improvvisamente attaccato e la madre della ragazza trucidata da un troll, riuscito a farsi strada all'interno delle abitazioni. Un pretesto narrativo molto scialbo, non da Yoko Taro che con NieR Automata ci aveva conturbato con le sue idee sull'umanità. Un aspetto che non possiamo non sottolineare con la penna blu, perché era lecito aspettarsi di meglio.

La distruzione del villaggio spinge la ragazza a un viaggio dell'eroina, chiamata a uscire dalla sua comfort zone oramai messa a ferro e fuoco e recarsi nei villaggi vicini, supportata dall'avvento di una squadra che la vedrà affiancarsi prima a un guerriero misterioso, poi a uno studioso e infine a una ragazza più giovane della protagonista, che però non vorrà svelare molto del suo passato.

Non siamo dinanzi a niente di epocale dal punto di vista narrativo, tant'è che col passare delle ore si finirà per apprezzare Voice of Cards esclusivamente per la sua componente gameplay e nulla più, arrivando ad apprezzare sì il character design, ma nulla di più. L'aspetto che ha sicuramente aumentato il valore di tutta la nostra storia è da ritrovare nella voce narrante, che ho selezionato in inglese, così da poterne apprezzare il doppiaggio e la recitazione.

Credi nel cuore delle carte

Voice of Cards, per chi dovesse avvicinarsi per la prima volta al franchise, basa tutto il proprio gameplay sulle carte, sia in fase esplorativa che nel combat system. Il nostro movimento sulla mappa è rappresentato da una pedina che, in maniera molto compassata e lenta, salta di carta in carta per raggiungere l'obiettivo prefissato: uno spostamento che ci mette dinanzi a quell'anacronistica scelta di incappare in incontri casuali o eventi che ci permettono di ottenere tesori o monete d'oro da utilizzare presso gli shop. Gli stessi villaggi sono realizzati a mo' di carte, facendoci spostare da una parte all'altra di una cittadina sempre con la medesima pedina.

Il sistema di combattimento si inerpica in maniera molto semplice e immediata in quella che è una difficoltà molto tarata verso il basso. Non ho mai avuto una particolare difficoltà nei combattimenti, se non una sensazione di noia all'ennesimo incontro casuale generato dalla mappa durante l'esplorazione, soprattutto quando la direzione non era sempre chiara e semplice da interpretare. L'assenza di una difficoltà alta o comunque tarata per essere superiore a quella offerta, non mi ha mai spinto a modificare il set di carte usate oppure ad approfondire la meccanica di tramutare i mob avversari in carte da usare durante i combattimenti.

Gotta catch'em all

Un vero peccato, perché questa era la grande novità che The Beasts of Burden proponeva rispetto ai precedenti due capitoli, spingendoci a poter avere 54 mostri collezionabili e utilizzabili durante le battaglie. Tutti, poi, da collegare a un membro del party, che possono equipaggiare fino a un massimo di cinque carte mostro a testa. La feature, però, risulta spuria, poco ispirata, ma soprattutto eccessivamente casuale, perché al termine di una battaglia dovremo scegliere quale dei tre scrigni aprire, sperando di poter trovare la carta del mostro appena sconfitto. Una slot machine che, a essere onesto, non mi ha entusiasmato e che mi ha quasi subito fatto passare l'interesse nei confronti di questa meccanica.

Pur restando affascinato dinanzi a un'opera del genere, al tentativo di produrre un jRPG diverso, sui generis, il fatto che Voice of Cards sia arrivato alla sua terza iterazione e abbia visto una regressione per quanto riguarda la narrativa, non all'altezza del nome di Yoko Taro, e un'aggiunta davvero troppo insignificante dal punto di vista del gameplay, posso dire di essermi trovato dinanzi a un lavoro quasi dozzinale. Tante occasioni sprecate, insomma, perché dinanzi a un'idea del genere si sarebbe potuto e dovuto fare molto di più, approfittando della possibilità di creare un gameplay più stratificato, una difficoltà più alta e permetterci di vivere un'esperienza più completa.

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