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a cura di Michele Pintaudi

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Accanto ai media più tradizionali quali la radio, la carta stampata e la televisione ne troviamo diversi più recenti, più innovativi. Tra questi spicca il videogioco che, sebbene sia da sempre oggetto di dibattito, si è affermato negli ultimi anni non solo come forma di intrattenimento ma anche come un vero e proprio mezzo per diffondere e condividere. In primis dobbiamo però fare un passo indietro e rispondere a una semplice domanda: che cos’è un videogioco? Da un lato abbiamo il termine “video” che implica l’utilizzo di una componente hardware, dall’altro il termine “gioco” inteso non solo come attività di svago, ma anche come strumento utilizzato in questioni meccaniche, linguistiche e percettive [1].

Il videogioco nella storia

I primi esempi concreti li troviamo tra gli anni 50 e i 60 negli Stati Uniti e sono, prevalentemente, progetti sviluppati nelle università e molto lontani dalla concezione che abbiamo oggi di videogioco. Spacewar! è da considerarsi con tutta probabilità il primo vero esempio, seguito dal Golf Game Computing System e da Space Travel. Nel 1971, in quel di Stanford troviamo il primo gioco arcade (Galaxy Game) seguito, l’anno successivo, dalla nascita dell’Atari: la prima grande multinazionale in campo videoludico. Nello stesso anno arrivano la Magnavox Odyssey, la prima console della storia, e PONG: uno dei primi titoli commercializzati (cfr. Egenfeldt-Nielsen, Smith, Tosca, 2007).

L’evoluzione continuerà trasformando il tutto in una vera e propria industria: Pac-Man (1980) è uno dei primi esempi di come i videogames stavano entrando nell’immaginario collettivo come media, e non più come semplice divertimento. Il personaggio di Pac-Man è il primo di una serie di figure che spiccano per riconoscibilità: chi non conosce, ad esempio, Super Mario o Lara Croft? Magari soltanto di vista, ma possono affermare “Sì, io l’ho già visto” parlando di uno di questi personaggi. Il successo del media videoludico si riflette, nella storia, anche sotto l’aspetto delle vendite.

Prendiamo ad esempio il picco più alto raggiunto dall’industria: PlayStation 2, console che può vantare la bellezza di 160 milioni di unità vendute in tutto il mondo. Un dato questo che ci aiuta a comprendere quanto i videogiochi siano effettivamente entrati a far parte della vita di tutti noi e che porta alla luce un altro aspetto molto importante: l’utenza. Nel corso dei decenni essa è senza dubbio cambiata soprattutto grazie all’ampia offerta proposta dalle aziende del settore, mirata a diverse fasce di consumatori. Troviamo infatti prodotti pensati per giocatori di determinate età, così come titoli ideati per il gioco singolo o di gruppo, o altri ancora dedicati alle famiglie piuttosto che ad un pubblico femminile.

Un’ampia offerta che rende in tal modo il media videoludico un prodotto alla portata di tutti, riuscendo inoltre a ricoprire diverse funzioni oltre a quella puramente ludica. Basti pensare a giochi educativi mirati a bambini, che possono così unire il divertimento con la didattica. Un altro uso dei giochi elettronici può essere l’ambito atletico-sportivo: esempio emblematico in tal senso è Wii Fit Plus, che permette ai giocatori di seguire un vero e proprio programma di esercizio fisico e di valutare i propri progressi passo passo.

Passiamo ora all’analisi vera e propria del videogioco visto come media. Come già detto, parliamo di qualcosa che ha raggiunto negli anni dei grandissimi risultati in termini di vendita e diffusione a livello globale. Il videogioco è entrato a far parte della cultura popolare sostanzialmente in ogni parte del mondo, sia per la sempre maggiore accessibilità (negli ultimi anni è sufficiente uno smartphone per giocare) sia per la mole e la portata degli argomenti trattati. Il continente asiatico è quello dove si registra la maggiore diffusione e i maggiori guadagni: al 2013 si stimano infatti ricavi per la bellezza di 49 miliardi e mezzo di dollari, di cui 22 soltanto in Giappone. Al secondo posto troviamo l’Europa con 20 miliardi di dollari, il cui 10% arriva dal mercato italiano. [2]

La diffusione del videogioco non è dunque argomento di discussione, ma è giusto considerarlo un media? Anche se spesso non considerato all’altezza di quelli più tradizionali il videogioco è a tutti gli effetti un medium, che il Denis McQuail, nel volume “Sociologia dei Media”, definisce come “mezzi progettati per attuare forme di comunicazione aperte, a distanza, con tante persone in un breve lasso di tempo[3] Scomponendo ora tale enunciato e mettendolo in relazione ad un gioco elettronico, siamo in grado di evidenziarne quattro caratteristiche. Si parla dunque di avviare comunicazioni che siano:

  • “aperte”, in quanto caratterizzate da libertà e dall’assenza o dalla scarsità di filtri tesi a limitarne l’efficacia;
  • “a distanza”, perché in grado di connettere una persona ad un’altra indipendentemente dai chilometri che separano i due individui;
  • “con tante persone”, perché non esistono virtualmente limiti alla grandezza che una comunità può raggiungere;
  • “in un breve lasso di tempo”, dato che una volta stabilite tali connessioni sono sufficienti davvero poche risorse, a livello temporale, per comunicare.

Questo comunicare può essere tradotto in termini grossolani seppur efficaci come il diffondere informazioni, messaggi. Il messaggio trasmesso da un videogioco è diventato sempre più importante nel corso degli anni (come vedremo in seguito) riuscendo a impattare sulla società in modi diversi: tanti sono infatti gli ambiti che hanno subito l’influenza del medium in questione, basti pensare ad esempio al giornalismo. Sì, perché con il diffondersi del videogioco è nata anche una vera e propria stampa di settore incaricata di fornire notizie, approfondimenti e consigli alla sempre più ricca community di videogiocatori. Il giornalismo videoludico è, inoltre, un mezzo utilizzato proprio dai produttori di giochi al fine di promuovere e rendere famose al pubblico le proprie creazioni.

Un altro merito che possiamo attribuire al videogioco è quello di aver dato ulteriore risonanza alle cosidette “fanbase”. Già presenti in altri media (pensiamo ad esempio ai fan di Star Trek o dei Rolling Stones) questi gruppi hanno generato delle vere e proprie sottoculture che, a loro volta, hanno dato vita a eventi di massa quali raduni e fiere capaci di catalizzare l’attenzione a livello globale.

 Il videogioco nella società

«laddove la televisione degli anni Cinquanta e Sessanta […] aveva trasformato i ragazzini in un popolo di spettatori, i videogiochi hanno creato oggi un popolo di manipolatori di schermi» [ibid.][4]

E’ forse proprio la componente interattiva il grande punto di forza del media videoludico. I fruitori non sono più semplici spettatori passivi, ma partecipano attivamente, con la trama del videogioco che si dipana di fronte al giocatore in base alle sue scelte e ai suoi input. Un ottimo esempio in tal senso possono essere le cosiddette “avventure grafiche”, divenute famose grazie a LucasArts verso la fine degli anni 80 e tornate in voga negli ultimi anni grazie a software house come Telltale e Quantic Dream.

Il fruitore del videogioco è molto più coinvolto nell’azione e nella storia rispetto al fruitore di un film o di un prodotto televisivo. Prendiamo ad esempio Resident Evil, celebre saga horror di cui esistono sia giochi che film: vedere uno scontro tra umani e zombie in un film non è come prendere parte attivamente ad esso, fattore che contraddistingue il videogioco e lo pone, almeno sotto questo aspetto, un gradino sopra.

Come accennato nell’episodio “Playtest” della serie Black Mirror, il videogioco è un media che punta sull’interattività e l’esperienza sensoriale. Entrambi questi obiettivi sono ottenibili tramite il gameplay e l’intreccio narrativo. La tecnologia sta aiutando ad accrescere e a rendere ancor più immersiva e realistica l’esperienza sensoriale: con in mano un controller essa ha i suoi limiti, è quindi nata l’idea di sviluppare la realtà virtuale dove il giocatore vive in prima persona gli eventi del gioco, quasi come se fosse parte integrante del gioco stesso e dell’universo creato dagli sviluppatori. Commercializzata con scarso successo a metà degli anni 90 da Nintendo (con il famigerato Virtual Boy), la realtà virtuale ha oggi fatto passi da gigante grazie a dispositivi come Oculus Rift, HTC Vive e il più recente PlayStation VR.

Tutto questo mostra però una medaglia a due facce. Senza dubbio la realtà virtuale ha un appeal fortissimo dal punto di vista tecnico e dal punto di vista di puro gameplay, ma l’altra faccia della medaglia mostra che con determinati giochi e soprattutto determinati generi, la realtà virtuale ed un’esperienza così immersiva possono sfociare in un territorio che descrivere con l’aggettivo “pericoloso” non sarebbe del tutto sbagliato. Ricreando la realtà, sarà difficile distinguere la realtà “reale” dalla realtà “virtuale”. Restando però in tema di “ricreare la realtà”, un fattore positivo del videogioco (in senso più tradizionale, escludendo quindi i sistemi di realtà virtuale) è quello di sperimentare con la realtà, cioè fare tutte quelle azioni o poter reagire in determinate modi evitando le conseguenze che ci sarebbero nella vita vera, a partire dall’usare risposte taglienti con il nemico di turno nei giochi di avventura “story driven” a guidare in maniera scellerata dilettandosi in acrobazie da piloti provetti.

Parlando di quella che è la visione generale del videogioco all’interno dei media troviamo un prima e un dopo. Inizialmente si tendeva a vedere il videogame come una pura e semplice forma di intrattenimento, destinata ad un pubblico appartenente alla fascia medio-alta della società (i dispositivi erano infatti molto costosi) o ai cosiddetti “smanettoni”. Negli ultimi anni, anche grazie alla crescente diffusione dei videogame, ci siamo però tristemente trovati di fronte ad articoli e reportage che collegano i videogiochi a fatti di cronaca nera. Non è raro che vengano associati casi di delinquenza e criminalità con giochi come Grand Theft Auto oppure Call of Duty, insinuando dunque che i videogiochi influenzino negativamente la psiche (soprattutto degli adolescenti) fino a spingerli ad emulare le azioni dei personaggi presenti sullo schermo.

Non è raro che i media tradizionali associno i videogiochi alla propensione al crimine e la risposta dei videogiocatori a questa “congiura mediatica” non si è fatta attendere, smontando punto per punto tutti i cliché negativi che la società va ad affibbiare ingiustamente ai videogiochi e definendo inaccettabile il legame videogames-cronaca nera. [5]

Si potrebbe parlare di storia che si ripete: anche quando radio e televisione hanno fatto ingresso nella società nel XX secolo, queste venivano definite come pericolose e con un’influenza negativa. L’attività del gaming è stata (e per certi versi lo è tuttora) spesso discussa e altrettanto spesso demonizzata. Soprattutto in passato, il media videoludico era visto come mero intrattenimento e con accezioni infantili, oltre che definito “dannoso per la salute”. Recentemente, però, la visione della società a riguardo è più frammentata:

Se infatti per decenni non abbiamo fatto che leggere dell'impatto negativo che i videogiochi potevano avere sulla crescita, sullo sviluppo, sulla concentrazione, sulla propensione alla violenza dei bambini, da un po' di tempo non è difficile trovare studi e ricerche sui benefici e sui vantaggi che possono offrire[6]

Gradualmente quindi la società comincia ad attribuire qualità positive al videogioco: Studi della Radboud University affermano che i videogame permettono al giocatore di sviluppare capacità cognitive come il ragionamento, la memoria e il problem solving, tutte capacità fondamentali nella vita quotidiana.

Non solo, ma il videogioco può essere considerato una vera e propria forma d’arte al pari dei prodotti cinematografici. Nei videogame è infatti possibile operare su più livelli: analogamente ai film si può lavorare su immagini, trama, caratterizzazione dei personaggi e comparto sonoro, ma  i videogiochi consentono di operare anche a livello di gameplay. Ognuna di queste caratteristiche sopracitate può dare unicità al videogioco e garantire al prodotto videoludico un’atmosfera memorabile, e spesso in grado di generare empatia con il giocatore garantendo un forte impatto emotivo.

Conclusioni

Alla luce di quanto detto finora siamo dunque in grado di fare qualche riflessione. Abbiamo infatti potuto notare come il ruolo ricoperto dai videogiochi sia sempre più importante e, allo stesso tempo, vario. Un ruolo che vede questo medium come un modo per socializzare, comunicare e intrattenere, senza dimenticare tutti gli effettivi benefici che ne derivano. Un gioco può infatti unire elementi ludici ad altri come la didattica, ma può anche risultare determinante nella socialità creando gruppi di persone unite da una stessa passione.

Un’ulteriore applicazione del videogame la possiamo trovare, in tempi più recenti, anche in campo medico: diversi studiosi hanno infatti notato come giocare possa aiutare nella cura di patologie a livello psicologico. Come? Alcuni videogiochi riescono a stimolare determinate parti del cervello, consentendo così ai dottori un’analisi più approfondita consentita proprio da tale stimolo (A. Bluestein, 2014, Will Doctors Soon Prescribe Videogames?).[7] Non vi è dunque alcun dubbio sulla bontà del videogioco, uno strumento che è riuscito ad affermarsi come media e a ricoprire un ruolo sempre più importante all’interno della società. Le future implementazioni e questa crescente diffusione ci pongono davanti a un quesito: dove può arrivare tutto questo? Vivendo attualmente in una sorta di età d’oro dei videogiochi, la risposta ci porta probabilmente a vedere un coinvolgimento sempre maggiore da parte dell’utente e una progressiva integrazione con altri media: un progresso che va accolto e studiato, non criticato e demonizzato.

A cura di Michele Pintaudi e Luca Golfrè.

Fonti:

[1] Il Videogioco, M.Salvador, 2013[2] vgsales.wikia.com[3] Sociologia dei Media, McQuail 2005, p.25[4] AESVI[5] Tom's Hardware[6] Il Sole 24 Ore[7] Fast Company

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