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a cura di Michele Pintaudi

Editor

Sin dal loro definitivo ingresso nel mercato mainstream e nella cultura pop, i videogiochi si sono affermati sempre di più come un prodotto oltre il semplice intrattenimento. Un videogioco dà l’accesso a nuovi mondi, a nuove realtà da conoscere e scoprire in tutte le loro parti: ecco perché è riuscito senza troppe difficoltà a divenire uno dei media più influenti degli ultimi decenni, nel bene e nel male.

In quanto parte dell’immaginario popolare, un prodotto di questo genere può contare su una schiera pressoché infinita di appassionati che, anche con l’avvento di internet e dei social network, hanno reso i videogiochi un elemento di per sé definibile come “cultura”. Già, la presenza del medium nella società e il suo ruolo all’interno di essa hanno fatto sì che si formasse una visione quasi istituzionale dello stesso, un po’ come successo del resto anche con musica, cinema e arte in generale.

Oltre all’aspetto mediatico/ludico del videogioco va però posto un occhio di riguardo su un altro fattore più concreto, che le nuove generazione forse percepiscono meno rispetto al passato. Stiamo parlando, molto banalmente, del supporto fisico. Stiamo parlando delle confezioni vere e proprie, del poter toccare e stringere tra le mani qualcosa che sappiamo saprà regalarci ore e ore di divertimento. Quello che vogliamo fare oggi è una semplice riflessione su come - alla luce della sempre più marcata affermazione del digitale – il supporto fisico possa ancora oggi ritagliarsi uno spazio o se, come sostengono in molti, si stia avviando verso una fine ormai segnata da tempo.

Videogiochi da collezionare… Ma non solo!

La storia dei videogiochi è un racconto ricco e interessante che tutti dovrebbero conoscere, anche e soprattutto per apprezzare al meglio quanto nel corso degli anni l’industria di settore sia riuscita a realizzare. Sin dall’avvento delle prime console domestiche in grado di riprodurre giochi da supporti come le cartucce, si è sviluppato un mercato sempre più fiorente che arriverà, nel 2020, a superare i 90 miliardi di dollari di valore.

Numeri da capogiro che un tempo nessuno si sarebbe immaginato, anche per l’iniziale difficile reperibilità dei videogiochi e dei suoi costi molto elevati per la maggior parte della popolazione. I primi giochi infatti erano venduti a cifre che – tenendo conto dell’inflazione – superavano sempre e comunque il centinaio di dollari: considerando l’enorme spesa da sostenere anche soltanto per una console, è evidente come il gaming fosse cosa per pochi.

Nonostante il prezzo molto elevato, ogni singolo gioco era sostanzialmente ricoperto da qualcosa di non tangibile, da qualcosa che con un po’ di licenza poetica definiremmo “privo di un qualunque prezzo”: il fascino. Ebbene sì, perché l’idea di stringere tra le mani un minuscolo quadrato di plastica con un contenuto che – chissà come – poteva regalare ore e ore di puro divertimento era un’esperienza non solo nuova, ma fino ad allora completamente impensabile.

Ecco dunque come, da semplice oggetto, il videogioco è riuscito a giustificare la spesa richiesta: comprarlo significava acquistare un’esperienza, per poterla toccare con mano e viverla in ogni momento. Nascono dunque i primi collezionisti anche in questo settore, affascinati dall’aura che questa nuova forma di intrattenimento riusciva a portare con sé: se all’inizio questa pratica era riservata a pochi fortunati, con il progressivo abbassamento dei prezzi possiamo quasi affermare che oggi tutti siamo un po’ collezionisti di videogiochi.

Tutti noi infatti abbiamo dedicato un ripiano, uno scaffale o magari un’intera stanza soltanto al riporre i nostri preziosi cimeli videoludici: segnale di come, in maniera sempre più marcata, essi sono diventato man mano parte fondamentale della nostra vita. Pensiamo a quanto fosse bello poter vantare il possesso di titoli con copertine indimenticabili, piuttosto che vere e proprie edizioni limitate o da collezione capaci di valorizzare ancor di più il prodotto stesso. Tutto questo, però, andrà ad incrociare la propria strada con un’alternativa più veloce e spesso più economica: il supporto digitale.

Fisico o digitale? L’importante è giocare.

Al contrario di quanto si pensi, il supporto digitale nel mondo del gaming non è una cosa nata nei primi anni Duemila. Il primo esempio in questione lo troviamo infatti all’inizio degli anni Ottanta con GameLine, servizio offerto dalla defunta CVC (Control Video Corporation) per l’Atari 2600. Sfruttando la linea telefonica per il noleggio – per 5 o 10 giorni - di titoli da una libreria predefinita, il modulo rappresenta l’antenato di servizi come PlayStation Now: se pensiamo al periodo in cui GameLine era attivo, risulta ancora oggi stupefacente quanto già trent’anni fa l’industria del gaming era così proiettata verso il futuro.

Ciò nonostante nel 1983, anno della famigerata crisi dell’industria di settore, CVC chiuse i battenti e il servizio fu soppresso: negli anni seguenti troviamo molte proposte simili a ciò che era stato GameLine, oltre che il servizio – in esclusiva giapponese – Disk Writer Kiosk per l’acquisto di titoli per Nintendo Entertainment System a prezzo ridotto.

Ma la svolta forse definitiva arriva soltanto all’inizio degli anni 2000 quando Valve Corporation annuncia Steam, il cui client viene rilasciato il 12 settembre 2003. La decisione di pubblicare uno dei titoli più attesi dell’epoca, vale a dire Half-Life 2, con l’obbligo di utilizzare il client di Steam per l’installazione fu il reale momento in cui la piattaforma iniziò a divenire più simile a ciò che conosciamo oggi. Steam, a conti fatti, è divenuto indispensabile per chiunque decida di giocare su PC.

Fu come se il vaso di Pandora venisse scoperchiato: servizi di distribuzione digitale iniziarono a proliferare riuscendo, grazie alla promessa di offrire in maniera più immediata e conveniente lo stesso prodotto acquistabile in negozio, ad affermarsi in breve tempo. Piattaforme come GOG, Origin e Uplay hanno contribuito, in sostanza, ad una vera e propria rivoluzione digitale: un contesto in cui troviamo una massiva riduzione nelle spese di produzione e distribuzione, con conseguente riqualificazione dei modelli dell’intera industria.

E dunque, alla luce di una situazione del genere, perché un giocatore dovrebbe valutare ancora l’acquisto di un titolo su supporto fisico? Perché decidere di spendere di più, magari andando alla lunga incontro a problematiche legate allo spazio occupato da tutte quelle confezioni che un giorno non serviranno più? Ci colleghiamo qui direttamente al discorso di inizio articolo: il supporto fisico è la valorizzazione più pura del videogioco stesso.

È la rappresentazione concreta di tutto ciò che il videogioco è, l’incarnazione di ore e ore passate tra divertimento, commozione e qualunque altro possibile tipo di emozione. Il tutto, semplicemente, in una confezione di plastica contenente un disco di policarbonato trasparente. Forse quello che manca oggi è quella serie di elementi tesi ad accentuare ulteriormente la bontà del supporto fisico stesso: l’arricchire le confezioni, ad esempio, con manuali di gioco ben costruiti, mappe e contenuti extra è in effetti qualcosa che sempre più spesso è andato a perdersi (ad eccezione, ovviamente, per le sempre più ricche edizioni limitate). Un ritorno al passato, in tal senso, non potrebbe che giovare sia alle case produttrici che ai fan più affezionati.

Nonostante la distribuzione digitale si stia continuando ad affermare – con un giusto progresso in termini tecnologici – ci sentiamo dunque convinti nel constatare quanto, alla fine, le classiche confezioni avranno sempre un proprio pubblico di riferimento, affascinato da tutto ciò che può significare il possedere un videogioco.

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