A parer di molti viviamo in una sorta di età d’oro per i videogiochi: tutti, ma proprio tutti, possono infatti attingere da una quantità enorme di produzioni, e ognuno ha modo di trovare sempre e comunque il titolo più adatto alle proprie preferenze. Alcuni amano la narrazione e le storie ben raccontate, altri sono appassionati di sparatutto mentre altri ancora non vedono l’ora di mettere le mani sulla simulazione calcistica di turno. Insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti!
Nonostante la mole sempre notevole di prodotti e idee nuove e talvolta addirittura rivoluzionarie, negli ultimi anni si è affermata una tendenza che sin da subito ha fatto discutere migliaia di giocatori in tutto il mondo: il riproporre, a diversi anni dall’uscita originale, alcuni classici che hanno fatto la storia di questo medium, spesso sotto una veste rinnovata e più appetibile per l’utenza di oggi. Quello che vogliamo fare con questo articolo è analizzare attraverso esempi pratici motivazioni, conseguenze e pensieri relativi ad operazioni del genere, per giungere alla risposta ad un quesito oggetto di non poco dibattito: esiste veramente il cosiddetto effetto nostalgia?
Questione di alternative?
Iniziamo con una doverosa premessa tesa a mettere in chiaro sin da subito che la riproposizione di un videogioco esiste pressochè da sempre: i remake, reboot o remaster non sono una novità dell’ultimo decennio, anzi. Uno dei primi esempi, se non addirittura il primo, lo troviamo nel lontano 1975 quando Midway decise di riprogrammare l’arcade Western Gun sfruttando le nuove tecnologie disponibili. Nacque così Gun Fight: il medesimo gioco fondamentalmente, ma con l’utilizzo di un microprocessore e dunque con delle migliorie tecniche davvero notevoli. Un esempio un po’ più noto è l’operazione svolta all’inizio degli anni ’90 da Nintendo la quale, con la pubblicazione di Super Mario All-Stars, diede vita ad una raccolta per SNES che comprendeva tre titoli di successo della precedente generazione: nello specifico, i primi tre Super Mario Bros.
Ciò nonostante è evidente come negli ultimi anni la tendenza a dar vita ad un numero sempre più crescente di ricostruzioni del genere si sia affermata sempre di più, con tutte le polemiche del caso. Molti infatti sono gli argomenti di discussione in proposito, a partire dall’accusa mossa da molti utenti che parlano di mancanza di idee. Perché, ad esempio, pubblicare una raccolta con i primi tre Crash Bandicoot quando si potrebbe spingere un nuovo platform che diventi il “Crash” della propria generazione? La questione, che spesso troviamo sollevata da una discreta fetta di utenza, è legittima ma allo stesso tempo non tiene conto di tutta una serie di fattori.
In primis infatti ripetiamo un punto che abbiamo già toccato in precedenza, ovvero che l’industria di oggi produce sempre e comunque prodotti per tutti. Rimanendo sull’esempio di Crash N. Sane Trilogy possiamo dunque rispondere affermando che, tornando al momento della sua uscita, il mercato offriva comunque un numero non indifferente di produzioni del genere o simili. Senza scomodare un capolavoro come Super Mario Odyssey, troviamo infatti Hollow Knight, Cuphead, Little Nightmares, Sundered, Yooka-Laylee e molti altri. Tutti con sfumature diverse e dunque (ci torniamo nuovamente) in grado di soddisfare diversi tipi di gamer.
Le alternative esistono eccome insomma, e la riproposizione di classici come Crash dev’essere vista semplicemente per quello che è: offrire a chi non ha avuto modo di farlo venti anni fa, per motivi anagrafici o di altro genere, la possibilià di scoprire un classico della storia dei videogiochi. O, in alternativa, di mettere chi tanto ha amato un determinato titolo in condizione di riviverlo diversi anni dopo la prima volta. È esattamente qui che entrerebbe in gioco il cosiddetto effetto nostalgia: quel qualcosa che spinge un utente ad acquistare un prodotto in virtù dei bei ricordi che esso riesce ancora a evocare nella sua mente.
Abbiamo usato il condizionale perché a onor del vero si tratta di un processo che agisce soltanto in parte. Più del ricordo infatti è importante l’effettiva bontà del prodotto come testimonia Shenmue, l’opera magna con cui Yu Suzuki ha definito una console come il leggendario Sega Dreamcast. Come molti di voi sapranno a fine agosto è uscita su console e PC una collection comprendente i primi due capitoli della saga, anche in vista del terzo in arrivo il prossimo anno dopo un’attesa che sembrava non dovesse finire mai. Diciamolo chiaro: un’operazione del genere era necessaria ormai da anni, soprattutto alla luce di quanto Shenmue sia diventato con gli anni un prodotto di sempre più difficile reperibilità.
Così facendo Sega ha permesso ad una nuova generazione di videogiocatori di mettere le mani su un caposaldo della storia del gaming, unendo ad una comprensibile operazione commerciale – “preparare” nuovi e vecchi utenti all’arrivo di Shenmue III – anche il dovuto restauro di un’opera del genere. Le accuse mosse a operazioni come questa riguardano anche un altro fattore, ovvero come il reale valore un determinato prodotto possa essere superato proprio dal ricordo che chi gioca ha di esso. Un titolo insomma può essere ricordato, a livello qualitativo, migliore di quel che effettivamente era al tempo della sua uscita.
Anche questo punto, però, può essere smentito. Esso rappresenterebbe una sorta di conseguenza collaterale del precitato effetto nostalgia, ma si basa su un bias valutativo che il giocatore più navigato può facilmente aggirare. Nel momento in cui un amante di Shenmue viene a conoscenza dell’imminente approdo dei primi due capitoli su console di nuova generazione, è inevitabile che concorrano sin da subito fattori differenti: la voglia di riscoperta, il desiderio di tornare indietro di vent’anni ma soprattutto il confronto. Confronto che si basa a sua volta sulle tante sfumature che caratterizzano un gioco e l’esperienza che ne consegue, la quale va necessariamente contestualizzata.
Una delle critiche giunte ai “nuovi” Shenmue da parte alcuni utenti è stata quella di sentire, e non poco, il peso degli anni. Per quanto legittimo, tale ragionamento non tiene appunto conto del contesto socioculturale odierno, ben diverso da quello di fine millennio. Nel 1999 l’opera di Yu Suzuki fu una rivoluzione senza precedenti mentre oggi il mondo dei videogiochi è ovviamente molto differente, peraltro anche per merito dell’influenza di titoli come Shenmue.
Bisogna appunto tener conto di come si sia attraversato un processo di evoluzione, che continua ancora oggi, che rende invalide la maggior parte delle affermazioni legate a quanto un gioco possa essere invecchiato bene o male: se un titolo riesce a colpire al suo arrivo sul mercato, fornisce dunque ai giocatori le motivazioni necessarie per essere considerato anche con gli anni a venire un prodotto degno di essere ricordato.
Un passo indietro, due passi avanti...
L’effetto nostalgia insomma può anche esistere e concorrere nella decisione di chi acquista, ma non è certamente l’aspetto predominante. Chi vi scrive, ad esempio, si è ritrovato negli ultimi anni a scoprire tanti grandi classici che magari con il tempo rischiavano di finire nel dimenticatoio ed è proprio questo il punto: operazioni come remake, reboot e rimasterizzazioni devono essere viste non come un modo per tornare al passato, ma per riscoprirlo anche in ottica futura. Per vedere da dove veniamo e dove possiamo arrivare.
Parlando di reboot l’esempio forse più rappresentativo è, soprattutto negli ultimi anni, Tomb Raider: una serie storica, iniziata nel 1996 con il mitico primo capitolo uscito sulla prima PlayStation e capace di monopolizzare per anni un certo genere di videogiochi. Dopo dei primi capitoli iconici seguiti da una serie di alti e bassi, le avventure di Lara Croft necessitavano assolutamente di una nuova veste tesa anche e soprattutto a riaccendere l’interesse del pubblico verso una saga con ancora molto da raccontare.
Nel 2013 esce dunque il primo capitolo di quella che sarà più di una semplice trilogia reboot, un progetto con cui Crystal Dynamics ha deciso di riportare in vita uno dei personaggi che hanno definito gli ultimi vent’anni di gaming con un’incarnazione totalmente rinnovata. Si azzera tutto il passato, si riparte da capo raccontando la storia sin dal principio, sin dalle origini di Lara Croft con una mossa emblematica e di grandissimo impatto: la serie non soltanto ha riportato in auge un’eroina mai dimenticata, ma è riuscita sia nell’impresa di soddisfare buona parte degli affezionati che in quella di attirare un pubblico completamente nuovo. Una sorta di ricambio generazionale, che si è tradotto in una spettacolare seconda giovinezza per l’archeologa più famosa al mondo.
Il passato dunque non è necessariamente legato alla nostalgia: il nuovo corso di Tomb Raider taglia completamente i ponti con ciò che è stato, mostrando così di essere perfettamente in grado di camminare con le sue gambe. Guardare indietro può rappresentare l’occasione giusta per ripartire, sfruttando appieno ciò che già esiste per dare vita ad una creazione a suo modo innovativa.
Il passato è, in una parola, uno strumento. Una parola che prima di essere collegata al concetto di nostalgia va analizzata in tutte le sue parti, per realizzare infine come la (ri)scoperta sia in primis uno strumento per guardare avanti. Vi lasciamo invitandovi a dirci la vostra: esiste davvero il cosiddetto effetto nostalgia? E qual è la vostra opinione in proposito?
Shadow of the Tomb Raider, ultimo capitolo della trilogia reboot, è disponibile su Amazon, così come Shenmue I & II HD.