Ci risiamo. Ancora una volta, a causa di vicende di cronaca nera, troviamo il solito accostamento tra videogiochi e violenza. Nello specifico, stiamo parlando di quanto avvenuto poco tempo fa nella cittadina texana di Odessa: un uomo di trentasei anni, Seath Ator, ha aperto il fuoco provocando sette morti e ventuno feriti.
Una tragedia, l’ennesima a cui ci troviamo ad assistere, che sta scuotendo non poco l’opinione pubblica statunitense e a cui sono seguite le poco pensate parole del sindaco della cittadina stessa: “Penso che il problema sia nel cuore delle persone, a essere onesto. Abbiamo in circolazione alcuni dei videogiochi più violenti mai visti.”. Come detto, ci risiamo.
Già più volte, anche sulle pagine di Game Division, abbiamo riflettuto in lungo e in largo su quello che può realmente essere il legame tra videogiochi e violenza appurando - alla luce di dati concreti e di studi scientifici provenienti da contesti ben più competenti di noi e di chi accusa – quanto questa relazione sia assolutamente nulla.
Quello che vogliamo fare oggi è ribadire questa posizione mostrando, sempre attraverso l’analisi ponderata di tutti gli elementi a nostra disposizione, tre casi mediatici diversi tra loro ma che hanno in comune il ritornello della colpa ai videogiochi. Sperando di riuscire, almeno in parte, a spingere i più scettici verso una riflessione quantomai necessaria.
Videogiochi e violenza: la situazione americana.
“Dobbiamo fermare la glorificazione della violenza nella nostra società. Questo include i videogiochi violenti che sono ora molto comuni. È molto facile per i giovani problematici circondarsi con una cultura che celebra la violenza. Dobbiamo fermare la cosa, e deve essere fatto immediatamente.”. Così parlava un mese fa il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, riportando nuovamente in auge la tematica del collegamento tra videogiochi e violenza.
Affermazioni che arrivarono, in maniera precisa e puntuale, dopo due sparatorie avvenute a poca distanza di tempo prima a Dayton (Ohio) e in seguito nella città di El Paso (Texas). Ma dove risiederebbe esattamente il legame tra videogiochi e violenza? Ad una prima occhiata ma anche informandosi a dovere sui singoli avvenimenti – cosa che chiunque può fare, grazie all’incredibile molteplicità di fonti disponibili oggi – è possibile notare come esso in effetti non esista.
La strage avvenuta lo scorso sabato tra Odessa e Midland presenta un modus operandi che, purtroppo, abbiamo già visto e rivisto più volte nel corso degli ultimi anni. L’assalitore ha imbracciato un fucile e, sceso in strada, ha iniziato a sparare in maniera indistinta verso passanti, automobilisti e poliziotti. Non disponendo di alcuna perizia psicologica, le forze dell’ordine hanno valutato la possibilità – non la certezza, almeno per il momento – che il motivo scatenante la furia dell’uomo sia stato il licenziamento dal suo lavoro di autotrasportatore, avvenuto poche ore prima della tragedia.
Nessuna connessione diretta e nemmeno un’informazione sull’interesse o meno del trentaseienne nei confronti dei videogiochi. Scagliarsi contro di essi, però, è spesso la strada più semplice da seguire e il sindaco ha dunque deciso di fare eco alle parole del Presidente Trump. In questo specifico caso va dunque affrontato un tema che appare sempre come costante in eventi del genere: la possibilità, perlomeno negli Stati Uniti, di reperire un’arma senza particolari difficoltà.
Non serve infatti un occhio particolarmente allenato per notare come siano le armi a uccidere le persone, non i videogiochi. Videogiochi e violenza possono sì essere collegati in un certo modo, ma la presenza del suffisso “giochi” indica una componente esclusivamente ludica: non si tratta mai di violenza reale, ma al massimo della ricostruzione di essa all’interno di un’opera di finzione. L’esempio più comune è rappresentato ovviamente dalla serie Grand Theft Auto, forse quella più bersagliata da polemiche del genere nell’intera storia dei videogiochi.
Semplificando all’estremo la natura del gioco possiamo identificarlo come un simulatore di vita criminale: cosa che non è realmente, dato che viene offerta un’esperienza talmente ricca e varia da rendere il crimine un elemento non primario. GTA può dunque essere considerato un videogioco violento, ma si tratta di una violenza tesa ad intrattenere esattamente nello stesso modo in cui può fare un film o una serie TV.
Il problema vero è lo scarso controllo in termini di vendita e diffusione di armi, fin troppo liberalizzate negli Stati Uniti d’America al punto da divenire una vera e propria cultura. In un tweet seguente alle dichiarazioni di Trump, l’ex presidente di Nintendo America Reggie Fils-Aime ha sintetizzato con pochi e semplici dati la situazione: “I fatti sono fatti” è il solo commento che accompagna questo grafico.
Facts are facts. pic.twitter.com/sSEbdYZcgE
— Reggie Fils-Aime (@Reggie) August 6, 2019
Va inoltre posta attenzione sulla quantità impressionante di minori o di ragazzi molto giovani coinvolti, come carnefici, in queste tragedie. Come e soprattutto perché viene a mancare, in questi casi, l’attenzione dei genitori? Forse il problema è molto più profondo, e non va ad impattare direttamente con il medium videoludico e con tutti gli elementi ad esso correlato. Il videogioco è infatti soprattutto un mezzo di inclusione e integrazione, non uno strumento in grado di spingere alla violenza.
Questo processo di demonizzazione dei media non è però qualcosa di nuovo, tantomeno parlando di eventi simili alla strage di Odessa. Il 20 aprile 1999, giorno che molti di voi ricorderanno, è ancora oggi ricordato come una delle peggiori pagine della storia americana: stiamo parlando del massacro alla Columbine High School. Quindici morti – compresi i due assassini – e ventiquattro feriti il drammatico bilancio finale, con tutto iniziato appunto da due ragazzi di cui uno solo appena maggiorenne.
Parte dell’opinione pubblica si scagliò quindi contro Marilyn Manson, controverso cantante allora molto in voga soprattutto negli Stati Uniti. Il motivo? Egli avrebbe spinto i due giovani, con la sua musica, a commettere gli atti di violenza di cui tutto il mondo è stato testimone. Ne seguì una forte campagna mediatica, che si andò ad affievolire soltanto nel momento in cui emerse che i due ragazzi non erano affatto interessati al personaggio e alla musica di Manson, anzi disprezzandolo perché appartenente alla scena mainstream. Tutto ciò è esempio di come, al fine di trovare necessariamente un colpevole, la stampa sia andata a creare quella che sostanzialmente possiamo definire disinformazione.
Le parole del diretto interessato, in un’intervista rilasciata all’autore Chuck Palahniuk, suonano ancora oggi quantomai emblematiche andando a collegarsi direttamente al discorso citato in precedenza.
CP: “Avendone avuto la possibilità, cosa avresti detto ai due assassini?”
MM: “Non gli avrei detto niente... Avrei ascoltato cosa avevano da dire, cosa che nessuno ha fatto.”
Il quadro generale ci restituisce dunque una situazione esattamente uguale a quella di oggi: nel momento in cui un medium può risultare controverso o uscire dalle righe, è molto facile seguire la strada che porta a colpevolizzarlo esentandosi, in tal modo, da quelle che sono le vere responsabilità del caso. Videogiochi e violenza insomma sono legati come lo sono musica e violenza: in nessun modo. Il nuovo spaventa sempre e, nonostante esistano ormai da più di mezzo secolo, i videogiochi sono ancora troppo spesso visti come “il nuovo”.
Italia tra videogames e disinformazione.
Passiamo ora a uno scenario diverso ma non per questo esente da polemiche: la situazione dei videogiochi in Italia, sempre da un punto di vista mediatico. Anche nella nostra penisola si è infatti sentito più volte parlare di come il gaming avrebbe effetti negativi sui giovani e non solo, e in tal senso i maggiori organi di informazione hanno spesso dato un grosso contributo a costruire un’immagine quantomai errata del videogioco stesso.
Tra le varie vicende degli ultimi anni prenderemo ad esempio una delle più recenti, ovvero un chiacchieratissimo fatto di cronaca risalente al mese di ottobre 2018 quando, tra le province sarde di Oristano e Nuoro, cinque ragazzi tra i diciassette e i vent’anni hanno ucciso un coetaneo per motivazioni legate allo spaccio di droga.
L’ennesimo, gravissimo episodio di cronaca nera di quelli che non vorremmo mai sentire. L’ennesima occasione, per la stampa generalista, di incolpare i videogiochi. Senza poter dimostrare in alcun modo una qualsiasi connessione tra l’atrocità commessa e il medium, ci si è prontamente fiondati a bollare l’accaduto come “un omicidio come se ne vedono nei videogames”. Utilizzando frasi come “ogni giorno giocavano con la PlayStation e che hanno studiato il delitto come fossero in un videogame”, si è automaticamente dato il via alla consueta macchina del fango che spesso e volentieri ha macchiato, nel corso della storia, forme d’arte d’ogni genere.
Una strumentalizzazione che - analogamente a quella vista negli USA - non tiene conto di fattori sociali ben più rilevanti del semplice interesse per i videogiochi, sempre con l’ulteriore aggravante di non poter dimostrare quanto affermato con così tanta fretta e sicurezza. Non ci si è domandati, piuttosto, perché i soggetti coinvolti avessero a che fare con delle droghe? E qual era la posizione dei genitori e di istituzioni come le scuole in tal senso? Spesso e volentieri, infatti, l’atteggiamento accusatorio non tiene conto dell’educazione data e ricevuta su tematiche di fondamentale importanza quali sesso, droga e volendo anche armi.
I comportamenti sbagliati nascono sempre da una carenza in termini di educazione, che però difficilmente trova risonanza in quanto altrettanto difficilmente non si trova qualcuno capace di assumersi le proprie responsabilità. Volendo essere del tutto trasparenti è importante sottolineare quanto i videogiochi possano, con le dovute misure, diventare essi stessi strumenti di educazione.
Magari in futuro qualcosa in tal senso si muoverà, e questa è una speranza che non smetteremo mai di nutrire per affacciarci a un domani sempre migliore. Il progresso tecnologico, insomma, può e deve essere utilizzato in casi simili per due motivi:
- La tecnologia può diventare uno strumento per monitorare e quindi prevenire situazioni più o meno gravi a livello sociale;
- Con gli accorgimenti necessari il progresso può essere tramutato in un aiuto concreto e tangibile nel processo di educazione di un individuo, spingendolo verso un apprendimento sempre più attivo e coinvolgente.
A rincarare la dose incidendo ancora di più sull’immagine del videogioco non è però solo la stampa. Importanti, e non in senso positivo, sono state le affermazioni riportare sul proprio account Twitter dall’ex Ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda: “Considero i giochi elettronici una delle cause dell’incapacità di leggere, giocare e sviluppare il ragionamento. In casa mia non entrano.”.
Dichiarando poi che “I videogiochi sono droga, atrofizzano il cervello.” il quadro è completo: anziché puntare al progresso e promuovere un’industria che anche nel nostro paese si sta ritagliando un ruolo importante, la classe politica decide di pronunciarsi in tal modo creando, in sostanza, disinformazione. La risposta dalle varie associazioni e dalle testate di settore non si è fatta attendere, ma forse quello che serve davvero è evitare di dare ad affermazioni del genere la risonanza che certamente non meritano.
Nel momento in cui una persona è realmente appassionata di videogiochi, il meglio che può fare è probabilmente godersi questa sua passione in modo da poter essere sempre un passo avanti rispetto a chi critica. Questi ultimi hanno infatti dimostrato a più riprese di non conoscere affatto storia, fenomenologia e cultura del videogioco: la conoscenza, anche in questo caso, è l’arma migliore per sconfiggere coloro che ignorano quella che è a tutti gli effetti realtà.
Simulatori di attentati made in Ubisoft? Forse no.
Il binomio videogiochi e violenza è stato a più riprese smentito anche da studi accademici che possono, dunque, fare leva su strumenti di analisi ben più adatti di quelli della stampa (di qualunque genere essa sia). Appena sei mesi fa ad esempio il Professor Andrew Przybylski dell’Università di Oxford ha terminato uno studio su 2008 soggetti, dimostrando l’assenza di un legame tra l’aggressività di una persona e il suo interesse per il medium videoludico.
“L'idea che i videogiochi violenti vadano ad accrescere l'aggressività delle persone nella vita reale è assai popolare, ma non è supportata da alcun test condotto nel tempo. Nonostante l'interesse per l'argomento manifestato da genitori e da personalità pubbliche e politiche, la ricerca ha mostrato come non esiste assolutamente alcuna ragione per preoccuparsi.”. Dati concreti con numeri che parlano da sé: ecco come rispondere alla disinformazione. Il paper del Professor Przybylski è peraltro disponibile per la consultazione sul sito della Royal Society Publishing, ed è un documento che vi consigliamo di leggere per approfondire la vostra conoscenza sul tema del legame tra videogiochi e violenza.
Il terzo e ultimo caso mediatico che vogliamo analizzare risale al maggio del 2017, circa tre anni dopo l’uscita di Assassin’s Creed: Unity su PC e console di nuova generazione. Per chi non lo ricordasse, il titolo fu bersaglio di innumerevoli critiche riguardanti la bassa qualità delle animazioni e il notevole quantitativo di glitch e bug che andavano a compromettere pesantemente l’intera esperienza di gioco. Il nuovo capitolo della saga targata Ubisoft, insomma, non fu molto fortunato sin dal giorno del suo debutto, ma ciò che avvenne dopo fu più esilarante di tutti gli errori presenti nel gioco messi insieme.
Il 19 maggio TG4 manda in onda un servizio sull’arresto di un presunto terrorista residente a Foggia, raccontando l’operazione con cui la polizia ha scovato e catturato il soggetto poi incriminato. Nel corso del servizio vengono poi mostrate alcune immagini di Assassin’s Creed: Unity, accompagnate dalla frase che segue: "Nel suo computer (del sospettato, ndr) c'era di tutto. Questo è il suo videogame preferito, che simula l'attacco dell'ISIS al Louvre di Parigi.".
Questo è stato, con tutta probabilità, il punto più alto (o basso, dipende dai punti di vista) raggiunto nella crociata tesa a demonizzare l’immagine del videogioco. Come rispondere ad un’affermazione tanto assurda da non sapere esattamente come catalogarla? Con la conoscenza, come sempre. Il verificarsi di qualcosa come la messa in onda di questo servizio non deve scatenare sdegno nella comunità di videogiocatori e appassionati, deve anzi spingerli a fare la cosa più sensata e intelligente del caso: rispondere elencando i fatti, senza se e senza ma.
Assassin’s Creed: Unity avrà infatti i suoi difetti, ma una velocissima ricerca in rete mostra in maniera chiara e coincisa quanto il gioco sia ben diverso dalla descrizione riportata su una televisione nazionale. Se a un primo impatto ciò può strappare un sorriso, va però assolutamente tenuto conto dei danni che la disinformazione – di qualunque genere – può portare all’interno di una società.
Se questa è stata la punta dell’iceberg, tutta la risonanza mediatica mirata a connettere necessariamente videogiochi e violenza contribuisce senza dubbio a danneggiare su più fronti:
- L’industria videoludica, che mostra una crescita pressoché esponenziale soprattutto negli ultimi anni, rischia di essere etichettata come promotrice di violenza e di valori errati, e a pagare le conseguenze sono i competenti e dediti professionisti che operano nel settore:
- I videogiocatori, che vedono il gaming come un passatempo piuttosto che come uno svago pari a molti altri, vedono la loro immagine infangata da affermazioni che possono portare anche all’esclusione di alcuni soggetti, magari identificandoli come un modello sbagliato a priori:
- I media stessi, che vedono così scendere sempre di più il loro livello di credibilità, in un mondo dove ormai tutti hanno la possibilità di produrre e condividere informazione.
La disinformazione è pericolosa, più di quanto potranno mai esserlo i videogiochi. Alla luce di tutto questo va comunque, per correttezza, ricordato come ogni tipo di eccesso può risultare dannoso: i videogiochi sono sì uno strumento di integrazione e di educazione nonché forma d’arte tra le più moderne, ma come ogni divertimento va goduto senza eccedere.
In conclusione ci teniamo dunque ad invitare chiunque sia sostenitore dell’esistenza di un legame tra videogiochi e violenza ad informarsi e, grazie alle risorse che oggi tutti abbiamo a disposizione, a dare una possibilità ad un mondo di cui evidentemente non è ancora a conoscenza. Non è mai troppo tardi per imparare, e se questo può portare qualcosa di buono nel mondo è bene che tutti ci impegniamo in tal senso. A partire da ora.
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