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a cura di Nicholas Mercurio

Stray è stato un videogioco che, sin dal suo annuncio, ha destato l’interesse di molti appassionati. L’idea di impersonare una gattina ha risvegliato in molti di noi il desiderio di esplorare le sfaccettature e i messaggi al suo interno, dedicandoci a un reale approfondimento del fenomeno Stray e di cosa ha comportato nel panorama dei videogiochi.

Polemiche a parte, ovviamente, potremmo dire che da una settimana dalla sua pubblicazione, la produzione targata BlueTwelve Studio ci ha dato diversi spunti. Vuoi per il suo tema, vuoi per le sue tematiche e vuoi per quello di cui parla, Stray è in effetti il videogioco che tutti – o quasi – ci aspettavamo e auguravamo. È un videogioco perfetto, però? Non lo è, come nessun videogioco, d’altra parte, potrebbe considerarsi tale; è tuttavia un videogioco che, con semplicità, ci racconta un mondo e delle storie in maniera intimista, scavando nei ricordi che potremmo provare se il mondo che conosciamo cadesse su sé stesso come un colabrodo.

Perché, se non lo aveste capito, Stray è ambientato in un mondo abitato da robot e da esserini disgustosi chiamati Zurk, delle creature che non ricordiamo affatto con piacere, perché sono la rappresentazione di un pianeta che ormai non ci appartiene più. E allora il mondo diventa improvvisamente silenzioso, privo realmente di tutta l’essenza che l’umanità, invece, è stata capace di offrire al prossimo, pur facendo errori fatali. D’altronde, perché il mondo di Stray si è ridotto in questo stato? Potremmo incolpare l’umanità, dormendo in questo modo sonni sereni. O potremmo, se fossimo davvero interessati, riflettere sugli Zurk e la loro origine, che è ben più inquietante se riflettiamo sulla nostra attualità, lontana da quella virtuale, seppure al contempo spaventosa.

Sia chiaro, l’umanità ha da sempre le sue colpe e se è scoppiata un’apocalissi, c’è un’alta percentuale che il responsabile sia l’uomo. Conosciamo la sua avarizia, la sua voglia di possedere tutto e tutti, sappiamo come ragiona e si comporta. E sappiamo in che modo agisce, infischiandosene di chi ha davanti, azzerando totalmente la sua empatia. La maggiore consapevolezza, infatti, è rendersi conto di come l’umanità stia piano piano perdendo il desiderio di proteggere il prossimo, aiutandolo e dandogli sostegno. Stray ci mostra come questo accade, trattando l’isolamento di un mondo sotterraneo che sopravvive di ricordi e paure.

Nel frattempo, però, c’è una gattina che parte per un viaggio lontano, inconsapevole di cosa potrebbe trovare sul suo cammino. E no, non è una lettiera e tanto meno un gomitolo di lana, bensì un mondo che, senza tante cerimonie, è più una minaccia che un luogo ospitale. Ed è così che parte Stray, in effetti, da un salto nel vuoto con la prospettiva di riempirlo di emozioni, ricordi e sensazioni.

Tematiche delicate e narrazione: come Stray propone il suo racconto

Abbiamo parlato di recente di come dei cloni possano connettere altre forme di vita e quante altre, invece, siano capaci di replicare i sentimenti umani, contenendoli in scatole nere, e Stray non tradisce affatto questa filosofia, esaltandola in maniera intima e toccante, facendoci conoscere un mondo che si apre piano piano, presentandosi nel corso del viaggio. Non pensate di essere di fronte alla storia de “La Gabbianella e il Gatto”, perché il racconto della gattina inizia dalle rovine di una città abbandonata, in quello che rimane di acquedotto ormai in disuso.

Non sappiamo quanto tempo sia passato da quando il mondo è crollato e non siamo inevitabilmente al corrente di cosa si celi ben oltre cosa immaginiamo, sotto alle nostre… zampine. Senza fare spoiler, la nostra gattina si ritrova lì per caso dopo che un salto impreciso la conduce in un’oscurità senza fine, facendola risvegliare in un luogo che non conosce. Man mano che si avanza, prendiamo confidenza con la gattina che, a parte miagolare, non proferisce parola. Cosa che non potremmo dire dell’amico B-12, un robottino che incontra in un momento rilevante all’interno della produzione, ma non possiamo dirvi nient’altro.

La costruzione narrativa parte, insomma, dal presupposto di farci capire cosa significa sopravvivere in un mondo ormai smantellato da un’apocalissi nei panni di una gattina che spera di fare le fusa ai suoi cari, dei gatti randagi in fuga dall’orrore. Inevitabilmente, il racconto segue un ritmo già collaudato, e si concentra sulle sue tematiche e il modo di proporsi, che è convincente perché ci permette di scoprire una realtà ben più seria di quanto potremmo mai immaginare.

Stando però alla gattina, lei è la reale protagonista delle vicende che, al contrario dei robot e delle creature da incubo della produzione pubblicata da Annapurna Interactive, supporta da sola il peso di un mondo ormai totalmente smantellato, di cui è rimasto poco del nostro passato. Prosegue il suo viaggio lentamente, innamorandosi di cosa le ruota attorno mentre è consapevole che poco potrebbe cambiare dopo il suo passaggio, e che non tutto è predisposto perché possa coesistere con chi abita il mondo.

La gattina è una protagonista silenziosa, di cui comprendiamo la profondità soltanto grazie a B-12, il robot che diventa immediatamente suo amico, guidandola attraverso gli scenari post apocalittici che si ritrovano a vivere, come se fossero due fili conduttori uniti dallo stesso dolore. È un messaggio interessante e inaspettato, che riguarda sia l’umanità che la protagonista del viaggio che abbiamo deciso di impersonare. Ed è proprio l’amicizia tra B-12 e la gattina a diventare più forte, come se ognuno di loro provasse dei reali sentimenti l’uno per l’altra: è l’umanità che esce fuori, rimasta per fin troppo tempo sotto controllo, non mostrandosi mai.

Non rivelandovi troppo della storia principale, a rendere Stray un videogioco unico nel suo genere, seppure faccia parte di un corrente ludica ben collaudata e riconosciuta, è il suo modo di approcciarsi alle tematiche e al giocatore, che viene inevitabilmente trascinato attraverso una scrittura curata e attenta, sia degli avvenimenti che dei protagonisti. Vi domanderete, lecitamente, come una gattina possa essere al centro di questa sceneggiatura riuscita: semplicemente è inserita negli scenari in maniera azzeccata, facendo fare agli altri le dovute presentazioni.

B-12, oltre a essere la sua voce, è anche il suo amico più fidato, nonché l’unico che al momento sembra comprenderla, poiché le manca la sua famiglia, che ha lasciato subito dopo essere saltata nel vuoto. Il messaggio decisamente più rilevante, che è impossibile da non cogliere, è proprio il salto nel vuoto della gattina come se fosse sua responsabilità dare nuovamente un futuro al mondo, dandogli la luce che serve per brillare nuovamente. Potremmo per l’appunto considerarla una cosa secondaria, ma è palese quanto tutto sia strutturato per arrivare a una morale che, se compresa, potrebbe farci rivalutare tante sfumature del videogioco sviluppato da BlueTwelve Studio, che è stato capace di confezionare un’opera gradevole e intimista, seppure imperfetta (ma di questo non ci preoccuperemmo).

La domanda che dovremmo porci, giunti a questo punto, è se Stray ha raggiunto il suo obiettivo ed è stato fedele al suo scopo, se è riuscito a essere oltre “Il videogioco dove si impersona un gatto” e se abbia convinto e sorpreso. La risposta, come si potrebbe intuire, è un forte sì, perché in Stray non è tanto chi impersoniamo e perché, ma quanto chi siamo e in che modo ci approcciamo a questo mondo in rovina. Non sono presenti scelte, non ci sono opzioni secondarie e non ci sono neppure richieste da rispettare, ripetendo all’infinito le stesse missioni. C'è, però, moltissima passione.

Stray, per chi non lo conoscesse, è uno story driven che strizza gli occhi alle avventure dinamiche, e da esso non potevamo aspettarci di più; non tanto perché alle sue spalle c’è Annapurna Interactive, e neppure perché doveva essere come è stato richiesto dai giocatori. Già pensarla in questo modo uccide totalmente il messaggio che invece, se fosse giocato e compreso, permetterebbe a tutti di capire cosa significa calarsi nei panni di una gattina in un mondo simile.

Un mondo vivo e pulsante: come Stray propone l’apocalissi

Come accennavamo prima, il mondo di Stray è reduce da un’apocalissi che ha ucciso gli esseri umani e quasi tutte le forme di vita. A essere sopravvissuti sono in pochi: gli esempi sono i gattini, gli spietati Zurk e, ultimi ma non per importanza, gli Oltraggiosi, dei robot che replicano i sentimenti umani come se fossero le biomacchine di NieR: Automata.

Mentre ci interfacciamo con loro, abbiamo subito ripensato all’opera di Yoko Taro, riflettendo su certe similitudini che è stato un piacere ritrovare in Stray in una misura certamente più contenuta ma comunque impattante. Durante l’esplorazione dei Bassifondi, infatti, ci siamo trovati di fronte un mondo che sprizzava luce e gioia da tutti i pori, anche se sembrava tutto circostanziato. E quei sorrisi, che non vedevamo allungarsi in un volto ma attraverso uno schermo, non ci sembravano affatto reali.

Non scendendo in troppi particolari, la costruzione del mondo di gioco è la parte più riuscita della produzione grazie alle sue atmosfere, curate con attenzione e con la speranza di esaltare totalmente ogni momento e dialogo. Gli Oltraggiosi, costretti ad abitare in luoghi confinati, sono robot che un tempo appartenevano agli umani, facendo per loro i lavori più faticosi, come se nessun essere umano avesse più voglia di alzare un muscolo. Ora sono loro ad essere la forma di vita intelligente, presentandoci come un popolo robotico che vive alla giornata, seguendo dei ritmi che potrebbero ricordarci gli stessi che, oggi, utilizziamo nella stessa maniera.

Già questo, se non altro, ci è utile per capire a fondo cosa stanno vivendo questi sintetici, confinati in luoghi dove ricordano una luce e il verde, riferendosi al mondo e a cosa è rimasto di esso dopo l’apocalissi. Ci siamo abituati a vivere quello che arriva dopo la fine del mondo scendendo nei particolari più angoscianti mentre ricordavamo di essere vivi, e che valeva la pena sopravvivere, nonostante tutto. È questo che si legge dagli occhi degli Oltraggiosi, un popolo che, un tempo, ne serviva un altro e che ora, replicando quegli stessi comportamenti, lo ricorda come se potesse farlo rivivere, compiendo gli stessi errori ma limitando la medesima distruzione.

Gli agglomerati urbani degli Oltraggiosi, luoghi adibiti alla vita quotidiana, ci hanno incantato profondamente, dandoci la sensazione che dopo un isolamento forzato, c’è ancora una speranza per il mondo. O almeno, per un mondo dominato dalle nuove creature sopravvissute, come le intelligenze artificiali rimaste ancora intatte, che potrebbero essere ben più di semplici IA, ma ricordi reali di una razza ormai estinta. È un tema che certi videogiochi, nello specifico quelli pubblicati da Yoko Taro e altrettante opere indipendenti, hanno utilizzato in passato ma con un taglio certamente diverso da quello che abbiamo vissuto con Stray.

Creare, scrivere e far conoscere un popolo nei videogiochi è la parte più complessa, perché ci sono da tenere in considerazione i comportamenti e il linguaggio, che rappresenta la natura stessa di una cultura. Se da una parte gli Oltraggiosi ci appaiono come delle repliche degli esseri umani, dall’altra rimangono robot, e come tali possono vivere in eterno, a meno che non vengano distrutti. L’uomo, al contrario, ha una data di scadenza; come ce l’ha, per l’appunto, la nostra gattina. Vedendo le luci dei Bassifondi, la parte sicuramente più povera di una città rimasta nel passato, la nostra protagonista potrebbe aver finalmente conosciuto com’era il mondo un tempo, e dove erano persino collocati i gatti.

Se potessimo rivelarglielo, le diremmo che avrebbe potuto tenere sotto scacco un’intera famiglia, regalando fusa, gioia e felicità a chiunque le desse attenzione. Sempre, ovviamente, per qualcosa in cambio, perché è pur sempre una gattina con delle richieste da soddisfare. Al netto di questo, però, Stray potremmo considerarla una fiaba moderna, il racconto intimista di cui avevamo bisogno.

È un’opera che non vuole stupire e sorprendere, perché non sono queste le sue intenzioni, ma intende raccontare una storia e farlo a modo suo, facendoci capire quanto sia complesso riuscire a ricordare un mondo caotico e dimenticato. Prendendosi l’onere di raccontarlo, riconosciamo l’amicizia di B-12 verso la gattina, come se, nonostante tutto, un briciolo di umanità sia rimasta in tutta quella oscurità.

La morale di una favola post apocalittica

Abbiamo parlato di un popolo, della gattina, del suo passato e in generale del team di sviluppo. Il gameplay, però, non lo abbiamo ancora toccato. Stray non ha intenzione di proporre una struttura ludica memorabile, ma di raccontare dei contesti, delle scene e dei momenti in maniera travolgente e appagante. È da tempo che ormai i videogiochi non sono più soltanto soltanto ludici, ed è giusto così, perché ogni team di sviluppo è fondamentale che si proponga al pubblico nel modo che ritiene opportuno, non facendo troppo ma limitandosi al necessario, che già di per sé è veramente complesso.

Tuttavia, la storia di Stray inizia con la dolcezza e si conclude nello stesso modo. Possiamo soltanto dirvi questo nella nostra analisi definitiva su questo gioco e quali siano i suoi innegabili punti di forza. Non è una produzione complessa o intricata, e anzi: non vuole proprio esserlo. Stray ci ricorda che alle volte, oltre la perfezione, esiste un mondo imperfetto che è impossibile riuscire a controllare, dove serve avere la sensibilità giusta per comprenderlo appieno. Attraverso una gattina alla ricerca della via di casa, Stray racconta di noi, facendoci capire che siamo perduti per sempre. E ci fa comprendere che almeno una gattina può ritrovarla, la via di casa. Al contrario nostro.

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