Dopo una lunga assenza dettata dalle grandi novità arrivate dall’E3 di Los Angeles, noi di Game Division siamo lieti di presentarvi una nuova puntata della rubrica dove vogliamo raccontare, riflettere e discutere di tutti quei giochi che forse avrebbero meritato più fortuna. Dopo avervi parlato di Broken Age oggi cambiamo totalmente genere ricordando insieme a voi DmC: Devil May Cry, reboot di una delle saghe più celebri della storia dei videogiochi che però non tutti hanno apprezzato a dovere.
Il titolo targato Ninja Theory è infatti visto da molti quasi come una macchia, altri lo ritengono un capolavoro mancato e altri ancora lo ritengono comunque un prodotto più che valido. Chi ha ragione? Analizziamo insieme il tutto, facendo un rapido salto indietro fino al 2008…
Devil May Cry, all’inferno e ritorno.
Era il lontano 31 gennaio 2008 quando in Giappone, pochi giorni prima della release globale, usciva finalmente l’attesissimo Devil May Cry 4: nuovo capitolo di una serie che era riuscita, da inizio decennio, a ritagliarsi una nicchia di appassionati non indifferente. Certo, altre proprietà intellettuali di casa Capcom – come Resident Evil, Street Fighter o Monster Hunter – potevano e possono tuttora vantare numeri molto più importanti: Devil May Cry tuttavia si è da sempre distinta come una saga in grado di differenziarsi da tutti i giochi del suo genere, risultando sempre e comunque un hack and slash che nessuno è mai riuscito ad imitare.
Il quarto capitolo, nonostante presentasse diverse novità sia a livello di gameplay che di storia – con l’introduzione di Nero, nuovo e misterioso personaggio giocabile – non ottenne il successo del tanto acclamato Dante’s Awakening. Il responso di pubblico e critica racconta certo di ottimi risultati, ma Capcom mirava a raggiungere vette più alte e decise, risultati alla mano, di mettere in pausa la saga a tempo indeterminato. Un ottimo modo per riflettere e lavorare, lontano dai riflettori, per restituire il giusto lustro a un prodotto così importante per l’industria videoludica.
All’inizio del nuovo decennio, il colosso giapponese decise di affidare lo sviluppo di un nuovo capitolo a Ninja Theory: software house britannica nota al pubblico per titoli come Kung Fu Chaos, Heavenly e Enslaved. Inizialmente l’obiettivo era di dar vita ad un prequel del tanto amato Devil May Cry 3 ma in seguito, con comune accordo tra le due parti, si decise di dare vita a qualcosa di completamente nuovo: DmC sarebbe stato un reboot, completamente slegato dagli avvenimenti della serie principale.
Annunciato in via ufficiale durante il Tokyo Game Show del 2010 il gioco raccolse sin da subito molto interesse da parte del pubblico, fiducioso di poter mettere le mani su un nuovo quanto entusiasmante capitolo delle saga. Nei mesi seguenti si susseguirono tutta una serie di annunci: dalla conferma del motore di gioco Unreal Engine 3, ad un netto cambio di direzione anche per la colonna sonora, affidata a Noisia e Combichrist.
Il gioco, dopo uno sviluppo durato poco più di due anni e mezzo, uscì su Xbox 360, PlayStation 3 e PC nel gennaio 2013: il momento della verità era finalmente giunto. A livello di esperienza di gioco, DmC va a discostarsi in maniera decisa dalla serie classica per quanto riguarda una moltitudine di elementi: il gameplay rimane comunque molto simile, e non poteva essere altrimenti. Una formula così ben rodata non poteva e non doveva infatti essere stravolta, e tutto ciò si traduce in un’avventura veloce, dinamica e capace di offrire sempre e comunque un buon livello di sfida.
Il design del mondo di gioco, pur non essendo forse all’altezza dei predecessori, appare curato nei minimi particolari per immergere il giocatore in un viaggio tra mondo terreno e inferno senza esclusione di colpi. La trama va a rappresentare poi un’ulteriore distacco con il passato: troviamo qui un giovanissimo Dante – dall’età di 23 anni – completamente ignaro delle sue origini e della sua vera identità in un mondo praticamente controllato dal perfido magnate Kyle Ryder. L’unica via di uscita è rappresentata dall’Ordine: il misterioso gruppo che lotta per rovesciare il regime di Ryder capeggiato dal fratello di Dante, il misterioso Vergil.
Gli ingredienti per un titolo memorabile, insomma, c’erano tutti. Le vendite furono discrete e la critica promosse questo reboot di Devil May Cry con poche riserve ma, ciò nonostante, una parte dei fan storici della saga non apprezzò completamente il lavoro di Ninja Theory…
Questione di… Stile!
Trovarsi tra le mani un prodotto completamente rinnovato rispetto a quanto visto fino a quel momento è stato, per molti appassionati, un colpo non da poco. Non che non dovessero aspettarselo, data la natura dichiarata del progetto: un reboot è infatti, per definizione, l’abbandono della continuity di una serie al fine di ricrearne dall’inizio l’impianto narrativo, conservando soltanto alcuni degli elementi che ne fanno parte.
A far storcere il naso ai fan ci ha pensato, in primis, il design del personaggio principale: il nuovo Dante è infatti completamente diverso dal classico cacciatore di demoni che si era potuto ammirare nei primi quattro capitoli della saga. Cambia il carattere, cambiano le movenze e soprattutto l’aspetto fisico: il look troppo “giovanile” del nuovo protagonista non è infatti andato giù a molti che hanno ritenuto snaturata la vera essenza del personaggio stesso, plasmato e segnato da un passato turbolento e dalle vicende dei suoi antenati.
Per un’opera come DmC: Devil May Cry il confronto con il passato era inevitabile: per quanto possibile, però, esso va evitato in quanto il gioco mira a costruire qualcosa di totalmente nuovo. Novità che vanno talvolta a stravolgere quanto visto in passato, ma ciò non deve necessariamente essere visto come un punto a sfavore. Il distacco con il passato, infatti, è un’occasione: un’opportunità per ripartire dando vita al nuovo utilizzando il “vecchio” come fonte di ispirazione.
In molti hanno poi criticato la colonna sonora: un accompagnamento musicale che si va a discostare dalle melodie del passato anche qui in maniera netta e decisa. Da un genere come l’heavy metal si è infatti passati ad un sound più moderno, caratterizzato da tinte a tratti industrial e a tratti dubstep/drum and bass: uno stravolgimento che non è piaciuto a tutti ma che, riascoltandolo oggi, si sposa perfettamente con il progetto e con lo stile che esso vuole evocare.
La sensazione, spesso e volentieri, è che DmC: Devil May Cry sia nato sotto una cattiva luce e non poteva essere altrimenti: l’eredità che Ninja Theory si è trovata a sopportare era troppo grande, persino per un team della loro esperienza e con le loro capacità. A sei anni dall’uscita sentiamo però che, nonostante non si tratti di un prodotto perfetto, il titolo meriti una seconda chance e forse anche di più: il feeling e l’esperienza di gioco che può offire lo rende infatti uno dei migliori action della sua generazione.
In conclusione non possiamo dunque che consigliarvi di provare a dargli un’altra possibilità, magari mettendo mano all’ulteriormente rifinita Definitive Edition uscita nel 2015: con tutta probabilità il modo migliore per approcciare un titolo che, siamo certi, non vi pentirete di (ri)vivere in tutte le sue parti.
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