Detroit: Become Human
Androidi ed essere umani. La creazione che supera il creatore. La tematica affrontata da Detroit: Become Human, ultima fatica del celebre game designer David Cage sviluppata dalla storica Quantic Dream (The Nomad Soul, Fahrenheit, Heavy Rain, Beyond: Two Souls), è tra le più celebri nel campo della fantascienza, che anche in questi ultimi anni ci ha regalato esperienze come Westworld, o Blade Runner 2049.
Vivere l'evoluzione emozionale di una macchina, però, è un concetto inedito nel panorama videoludico; per questo motivo Detroit ha raccolto sin dall'inizio l'interesse del pubblico e della critica, proponendosi come una produzione in grado di mettere realmente nelle mani dei giocatori l'evolversi della vicenda, inserendolo al contempo in un mondo futuristico ricco di tematiche sociali da non sottovalutare. Nei mesi scorsi vi abbiamo raccontato le nostre impressioni in seguito a un hands-on decisamente corposo. Ora, però, abbiamo avuto l'oppurtunità di scendere davvero in profondita, scavando nella psiche dei personaggi e affrontando la maggior parte dei tantissimi finali multipli disponibili. Con freddezza e ludicità, contagiati dalla pragmaticità degli androidi, eccoci dunque arrivati al momento della verità.
Diventare Umani
Partiamo da una grande certezza: dal punto di vista tecnico, Detroit: Become Human è un vero portento. Siamo di fronte a un lavoro incredibilmente ambizioso, che sfrutta le possibilità del motion capture elevandole a un livello inedito nel panorama console. I protagonisti, i comprimari e quasi tutti gli altri personaggi con cui avremo a che fare godono di animazioni facciali e corporee che hanno dell'incredibile.
Essendo un gioco dal forte stampo narrativo, che riduce il gameplay davvero all'osso, le componenti d'immedesimazione e credibilità giocano un ruolo chiave, e l'aspetto rifinito, preciso e praticamente perfetto non solo degli interpreti princiapli ma anche dell'intero mondo di gioco ha aiutato il compiersi della missione di Quantic Dream. Come accennato poco fa, inoltre, anche la Detroit del futuro è d'impatto: la fotografia è eccellente e la regia delle varie scene esalta scenografia e setting. Insomma, il colpo d'occhio con l'opera di Quantic Dream è indubbiamente positivo e migliorerà missione dopo missione; un lavoro davvero impressionante.
L'altra aspetto su cui Detroit poggia le sue fondamenta è certamente il ventaglio di opzioni fornite al giocatore: Cage è famoso per sviluppare titoli che hanno proprio nella forza delle scelte il cuore dell'offerta, e Detroit da questo punto di vista rappresenta la sua opera magna. I diagrammi di fine livello vi metteranno di fronte a decine e decine di bivi, che modificheranno in modo drastico e tangibile la storia. Possiamo giocare scenari ignorandone altri; possiamo uccidere protagonisti o comprimari a seconda del modo in cui agiamo e seguire un percorso narrativo che si modificherà in base alla direzione intrapresa. Se i giochi precedenti di Quantic Dream non erano perfetti sotto questo punto di vista, Detroit lo è. L'elemento sacrificato in tutto questo è il gameplay, che come dicevamo poc'anzi è ridotto all'osso e limitato all'interazione con i vari oggetti, individui o scene del crimine. È bene specificarlo per non cadere in incomprensioni: Detroit Become Human è, a tutti gli effetti, un film interattivo che spinge i giocatori a operare delle scelte piuttosto che a "giocare" nel senso stretto e più classico del termine.
Cuore, ambizione, rivoluzione
Se dal punto di vista strutturale Detroit è dunque un'eccellenza, analizzandone il comparto narrativo emerge qualche problema. Non nel "come", ma nel "cosa". Si perché la storia che Cage ha scelto di raccontarci è ricca di cliché e colpi di scena mancati, a meno che voi non siate completamente all'oscuro della tematica che state per vivere. D'altronde la presa di coscienza delle macchine è stata affrontata in decine di libri, film e serie tv e, in un modo o nell'altro, i punti di convergenza sono sempre gli stessi.
Per questo motivo, ad esempio, potreste risolvere 'l'enigma" già a metà dell'avventura, o ancora potreste anticipare un paio di plot twist con qualche ora di anticipo. A fare da contorno all'anima della narrazione, poi, ci sono alcune sfumature politiche/sociali che non ci sono piaciute moltissimo. La sensazione è che i veri sforzi siano stati impiegati altrove piuttosto che nella pura scrittura della storia. Attenzione, non stiamo dicendo che Detroit è noioso; al contrario vogliamo ribadire che le vicende scorrono in modo più che godibile e che le tre figure di spicco sono più o meno tutte quanti riuscite e capaci di creare una sorta d'empatia artificiale con il giocatore. Semplicemente ci aspettavano di trovare una chiave di volta inedita, che permettesse dunque alla produzione di risultare ottima anche a livello narrativo.
A questo proposito, Kara, Markus e Connor offrono punti di vista e storie differenti, tutte però con un tema centrale verticale e ricorrente. Non stupitevi se vi affezzionerete più o uno o all'altro, è normale e, nel nostro caso, abbiamo apprezzato molto l'evoluzione di Connor e Kara, un po' meno quella di Markus, banalizzata forse troppo in fretta.
Infine, nota di merito alle colonne sonore, emozionanti e cucite perfettamente sulla "pelle" dei tre androidi protagonisti. Il gancio emotivo funziona anche grazie e soprattutto alle note di sottofondo, sempre capaci di esaltare la situazione e la scena, permettendoci così d'immergerci ancora di più nelle peripezie e nelle trasformazioni dei personaggi principali.