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a cura di Michele Pintaudi

Editor

L’odierna industria dei videogiochi è in grado, grazie ad anni e anni di continua e incessante evoluzione, di offrire agli utenti di tutto il mondo il prodotto perfetto per le proprie esigenze. Ognuno insomma può trovare, senza troppa fatica, il titolo adatto ai propri gusti: che sia un’avventura grafica vecchio stile o il più moderno dei Battle Royale, ce n’è davvero per tutti. Tante sono, ovviamente, le variabili che guidano chi gioca all’interno del processo decisionale: si può scegliere di provare un determinato titolo, oltre che per il genere, per la trama che propone o per l’attaccamento ad un particolare autore o a una software house. Un altro elemento concorrente in tal senso è, inoltre, quello rappresentato dalla difficoltà nei videogiochi.

Quante volte, soprattutto negli ultimi anni, l’uscita di un gioco è stata prontamente accompagnata da migliaia e migliaia di commenti – positivi o negativi – sulla difficoltà di esso? Noi di Game Division non le abbiamo contate, ma oggi vogliamo analizzare insieme a voi quella che, nel corso degli anni, è diventata una costante sempre più ricorrente all’interno del ricco panorama videoludico.

La difficoltà nei videogiochi? Una questione di… Tradizione!

Il dibattito su quale sia il gioco più difficile di sempre è uno di quelli che da anni infiamma i forum di tutto il web. Trattandosi di qualcosa legato alle abilità del singolo giocatore e dunque di soggettivo, non esiste chiaramente una risposta: quello che possiamo fare è scavare nella storia dei videogiochi, alla ricerca del momento in cui si è passati dalla ricerca dell’intrattenimento a quella della sfida.

Un primo esempio di commistione tra i due caratteri lo possiamo trovare all’inizio degli anni Ottanta, con un titolo capace a modo suo di scrivere una pagina molto importante della storia del gaming: Rogue, sviluppato da Michael Toy, Glenn Wichman e Ken Arnold. Il titolo – la cui grafica è composta esclusivamente da caratteri ASCII – darà vita al genere “roguelike”, che ancora oggi regala agli appassionati di tutto il mondo alcune perle davvero molto interessanti.

Il gioco ci mette nei panni di un avventuriero che, partendo dal livello più elevato, deve raggiungere il 26º livello sotterraneo per recuperare un preziosissimo amuleto. Malgrado la struttura semplice, Rogue costituisce una sfida come poche se ne erano viste fino a quel momento in ambito videoludico: con ogni dungeon e ogni elemento in esso contenuto è infatti generato in maniera procedurale, il giocatore non poteva mai sapere che pericoli avrebbe incontrato né come affrontarli a dovere.

Gli anni Ottanta porteranno ai giocatori decine di titoli che, in maniera sempre più marcata, faranno della difficoltà la loro caratteristica principale. Pensiamo a prodotti come Takeshi’s Challenge, Ghosts ‘n Goblins e Narc: tutti videogiochi che ancora oggi costituiscono sfide di altissimo livello.

L’evoluzione del concetto di difficoltà nei videogiochi – che porta dunque i consumatori a poter contare su un ulteriore elemento nello scegliere cosa acquistare – contribuirà alla nascita di nuovi generi e filoni delle più diverse tipologie. Uno di questi, con tutta probabilità il più importante degli ultimi anni, è rappresentato dai cosiddetti “soulslike”.

È FromSoftware a dare il via al genere, con la pubblicazione di Demon’s Souls nel 2009: ad esso seguiranno la trilogia di Dark Souls, Bloodborne e, seppur non propriamente un “soulslike”, il recentissimo Sekiro. Ciò che caratterizza questi titoli è la loro capacità di fondere, senza compromessi, un elevato livello di sfida ad un comparto narrativo egualmente solido. Le storie raccontate in giochi del genere, insomma, vengono da molti annoverate tra le migliori dell’intero panorama videoludico. E spesso con ragione, aggiungeremmo.

Dark Souls è forse il prodotto che più di tutti risulta emblematico nel rappresentare questo filone, anche a fronte della traccia che è riuscito a imprimere all’interno dell’immaginario collettivo odierno. È qui che ci vogliamo ricollegare al discorso iniziato nelle prime righe di questo articolo, riflettendo sulla reale importanza della difficoltà nei videogiochi e in esperienze di questo tipo.

Livello di sfida e coralità

Quante volte abbiamo sentito dire che un titolo è “il Dark Souls del suo genere”? Oltre a testimoniare la grande influenza della serie di FromSoftware in tutto il mondo dei videogiochi, una domanda del genere riassume a dovere il crescente interesse del pubblico nei confronti della difficoltà nei videogiochi. La ricerca della sfida e dell’opportunità di dimostrare le proprie abilità è qualcosa che, soprattutto con l’avvento delle piattaforme social, si è ritagliato uno spazio sempre più rilevante.

Tutte queste piattaforme consentono infatti a chiunque di condividere i traguardi che si è in grado di raggiungere, confrontandosi in tal modo con una platea composta da milioni e milioni di persone. Si vanno così a sviluppare ulteriormente pratiche presenti già da diversi decenni come lo speedrunning, ovvero quella sfida che ha come obiettivo il completamento di un gioco nel minor tempo possibile: in una community così corale mostrare di essere più abile degli altri è, senza ombra di dubbio, un elemento che porta a distinguersi dalla massa.

Non dimentichiamo in ogni caso che si parla di videogiochi: la componente ludica è e resta dunque al centro dell’intero processo, e colui che vuole cimentarsi in determinate sfide deve farlo in primis per divertirsi e divertire chi lo guarda. Ed è questo il vero concetto alla base della condivisione.

Volendo analizzare più da vicino e in maniera più approfondita i vari fenomeni, notiamo però come esista anche un rovescio della medaglia. Se da una parte troviamo infatti questa forte componente legata alla socializzazione e alla promozione di un certo tipo di contenuti, con moltissima attenzione alla difficoltà nei videogiochi di tal genere, dall’altra si rischia di sottovalutare altri elementi che rendono speciali i vari titoli citati.

Prendiamo ad esempio Cuphead, uno dei titoli più sorprendenti di questa generazione. Il run ‘n’ gun di Studio MDHR, uscito su Xbox One e PC nel 2017, è stato sin da subito accolto in maniera entusiastica da pubblico e critica di tutto il mondo: un comparto artistico curato nei minimi particolari, una colonna sonora originale capace di creare la giusta atmosfera e una divertente storyline di fondo lo hanno fatto entrare di diritto tra i migliori videogiochi dell’anno.

Ciò nonostante il gioco, sin dalla sua uscita, è stato al centro dell’attenzione più per l’elevata difficoltà di fondo che per tutti gli elementi citati in precedenza. Si tratta di qualcosa di sbagliato? Assolutamente no, ma resta il fatto che gran parte dell’utenza è venuta a conoscenza del titolo esclusivamente per l’alto livello di sfida in esso contenuto. Questo pone inevitabilmente in secondo piano tanti altri aspetti per i quali invece va fatto un grosso, scrosciante applauso a tutti i componenti dello studio di sviluppo canadese.

Quanto detto vale per Cuphead come per moltissimi altri titoli, Dark Souls in testa: in risposta alla domanda che dà il titolo a questo articolo ci sentiamo dunque di sottolineare come questi giochi insomma non sono soltanto sfide, ed è importante preservarli prestando la corretta attenzione anche a tutte le altre componenti che li caratterizzano. Ci sono tanti modi diversi di approcciare il media videoludico, e provarne il più possibile è il modo migliore per apprezzarne ogni minima sfumatura. Proviamoci.

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