Perché la gente gioca a videogiochi difficili che portano frustrazione?

In quest'intervista a Elena Del Fante, la "psicologa del gaming", parliamo dei motivi per cui alcune persone amano giocare a giochi difficili.

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a cura di Andrea Ferrario

Editor in Chief

C’è chi gioca per rilassarsi, per passare del tempo immergendosi in qualche mondo di fantasia, alleviando le difficoltà che la vita ci propone ogni giorno. Ma se il videogioco è così tanto difficile da creare frustrazione e nervosismo, non è controproducente? Perché esistono giochi come Dark Souls, Elder Ring, Sekiro, Celeste o Cuphead? Non sarebbe il caso che gli sviluppatori implementassero anche in questi giochi dei livelli di difficoltà più bassi così da renderli accessibili a chiunque?

Ho fatto quattro chiacchiere insieme a Elena Del Fante, psicologa del gaming, per capire i motivi per cui questi videogiochi hanno così tanto seguito.

Andrea Ferrario
Quali sono gli effetti psicologici dei videogiochi sulle persone?
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Il videogioco è un mondo virtuale in cui mi immergo. Quando esploro dinamiche, situazioni, ed eventi, so che ogni gioco è diverso dall'altro; ci sono diversi gradi di libertà che posso sperimentare, diverse azioni e dinamiche che posso mettere in atto. Ogni gioco, forse, richiederebbe quasi un'intervista a sé stante. Il gioco, offrendo la possibilità di provare diverse situazioni, mi permette prima di tutto di fare esperienza. Mi mette di fronte a delle sfide in modo ludico, e mi dà l'opportunità di vedere se sono in grado di superarle.

Il gioco ha questa "magia" — che in realtà è scienza — che mi permette d’imparare a risolvere queste sfide e problemi. Bene o male, a livello di game design, tutti i giochi sono strutturati in modo da darmi dei feedback, delle ricompense; ci sono magari dei tutorial o delle guide che mi permettono di apprendere rispetto al mio livello. E dall'altra parte c'è questa fantastica struttura in cui il gioco non rimane sempre uguale: progredisce insieme a me. Si potrebbe dire che c'è una crescita sia da parte mia come videogiocatore, sia da parte del gioco stesso.

Ed è qui che entriamo in questo sistema di equilibrio tra sfide e abilità, che è alla base del motivo per cui gioco. Entro in un flusso, uno stato di piacere intrinseco, in cui gioco non tanto per ottenere ricompense o per ricevere una pacca sulla spalla, ma perché mi piace davvero; soddisfa i miei bisogni psicologici innati, come sentirmi abile, competente, libero di scegliere, quindi autonomo, e anche instaurare una connessione relazionale.

Anche se non gioco necessariamente in multiplayer online, il semplice fatto di interagire con NPC strutturati in un certo modo mette in gioco una serie di abilità relazionali ed empatiche, soddisfacendo così il bisogno umano di relazione in un modo divertente e ludico. In questo senso, io imparo in modo implicito.

Quando si parla di effetti, prima di tutto mi occupo del potenziamento cognitivo e dei benefici del gaming in questo ambito. Però, uno degli aspetti che spesso viene sottovalutato è il divertimento. C'è questa soddisfazione intrinseca che mi porta a giocare. Quando bisogna giustificare perché un adulto può giocare ai videogiochi, si parla spesso di benefici cognitivi legati all'attenzione, al problem-solving, alla memoria, e al decision-making, che sicuramente ci sono. E oggi, infatti, il gaming si sta spostando anche negli ospedali, nelle aziende e nelle scuole.

Però, prima di tutto, giocare è un diritto per l'essere umano. Io gioco per piacere, per soddisfare quel benessere psicologico che è la base di tutto: se sto bene, posso fare tutto nella vita.
Elena Del Fante
Andrea Ferrario
Ma se l’obiettivo è proprio quello di ricompensare il giocatore per farlo sentire bene, perché esistono giochi così difficili da avere l’effetto opposto, innervosire e rendere frustrati perché non abili abbastanza per battere il gioco?
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Quando si parla di frustrazione, che è un'emozione negativa legata al percepire un'ingiustizia, come se le mie azioni non fossero ripagate come dovrebbero, si può arrivare a provare risentimento o rabbia. Questa frustrazione può anche portare a una certa sfiducia verso me stessa. In questo senso, il gioco si configura come una palestra mentale ottimale per lavorare su queste emozioni. 

Sì, è vero, gioco principalmente per il piacere di scoprire cose nuove e divertirmi, ma il gioco è anche una traslazione ludica delle situazioni che posso trovare nella vita quotidiana. Questo significa che ci possono essere momenti in cui mi sento frustrata, e questo non va contro la definizione di gioco. Voglio precisare che, anche se provo rabbia o frustrazione, sto comunque giocando. La maggior parte dei giochi, se non tutti, sono caratterizzati almeno dall'idea del fallimento, come un game over. 

Il game over è un feedback negativo rispetto alla mia azione, ma rappresenta anche un'opportunità per ripeterla. Nella vita quotidiana, questa possibilità non è sempre presente, mentre il gioco me la offre, mettendomi in un ambiente sempre ludico e accogliente, dove posso riscoprire me stessa, migliorarmi, e chiedermi: "Sono pronta a farlo?". Questo approccio è alla base della Videogame Therapy, un metodo che utilizzo nella mia attività clinica.

In questa terapia, lavoriamo molto sul concetto di game over e fallimento per capire come una persona reagisce alle frustrazioni della vita quotidiana. Se reagisco male a un game over, potrebbe essere un campanello d'allarme sulla mia capacità di gestire le frustrazioni nella vita reale. Nel gioco, infatti, sono me stessa, senza i filtri e i controlli che metto in atto nella vita di tutti i giorni. 

Per questo motivo, penso che un po' di frustrazione nel gioco sia benvenuta, è come un pizzico di sale che dà quel senso di sfida e mi stimola a migliorarmi e raggiungere i risultati. Senza questa sfida, il gioco diventerebbe noioso e probabilmente lo accantonerei. 

La vera sfida per un designer, o meglio, per tutto il team che progetta un videogioco, è mantenere un equilibrio tra le sfide del gioco, affinché non siano né troppo facili né troppo difficili, alternandole in modo da mantenere il mio interesse. 

Infine, voglio dire che non è necessario giocare a tutto. Ogni gamer è una persona unica, e quando gioco, torno bambina, nel senso più buono del termine: mi lascio andare e abbandono tutti i miei controlli.
Elena Del Fante
Andrea Ferrario
Ma nel caso dei Souls-like io non vedo quel “giusto equilibro”, ma proprio l’opposto, tutto è fatto per offrire l’esperienza più dura possibile, per punire l’errore di un centesimo di secondo di ritardo. Mi sembra eccessivo, che senso ha?
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Quando parlo dei Souls-like, potrei definirli come un esempio di "frustrazione costruttiva". Anche se tutte le emozioni sono in qualche modo costruttive e funzionali, in questo caso i Souls-like sono progettati in modo consapevole per innescare un certo tipo di frustrazione nel giocatore, una frustrazione calibrata, anche se per qualcuno può risultare eccessiva.

Questa frustrazione è sufficiente per spingermi a mettere in atto una serie di pattern comportamentali molto specifici. È vero che i Souls-like sono giochi notoriamente difficili e che possono generare un'intensa frustrazione. Tuttavia, i boss seguono schemi logici, quasi matematici, quindi sconfiggerli diventa un po' come giocare a scacchi.

Capisco perfettamente ciò che dici, che la frustrazione spesso non deriva tanto dal non trovare il pattern giusto, ma dall'essere punito per un piccolo errore di tempistica, come premere un pulsante o muovere la levetta un microsecondo troppo presto o troppo tardi. Questo tipo di errore ti costringe a ricominciare da capo, e capisco quanto questo possa essere frustrante.

Quello che voglio sottolineare, però, è che in questo caso, quando non rispetto lo schema matematico che il gioco mi chiede, ecco che entra in gioco un sistema punitivo che può sembrare esagerato rispetto allo sforzo che ho investito. Anche se la mia azione non è stata perfetta, mi è costata comunque un notevole dispendio di energie, ma non rispetta le regole che il gioco mi impone.

Detto questo, non tutti sono obbligati a confrontarsi con questo tipo di contenuto. Ci sono persone che cercano proprio quella frustrazione costruttiva di cui parlavo prima, per soddisfare un bisogno di ordine e precisione. Una volta che tutto è perfetto e l'obiettivo è raggiunto, la soddisfazione che ne deriva è enorme, tanto più intensa proprio perché compensa la frustrazione accumulata.

Anche se nei Souls-like il game over può farmi perdere tutto il mio loot o altri progressi, il gioco è comunque costruito in modo da darmi l'opportunità di recuperare ciò che ho perso, magari tornando nel punto in cui sono morto. È un gioco che si avvicina molto al limite della frustrazione e della giocabilità, ma rientra ancora in quel cerchio che lo rende, a tutti gli effetti, un'esperienza di gioco valida.
Elena Del Fante
Andrea Ferrario
A questo punto vorrei che tu possa darci la definizione di “gioco”, perché sono certo che può avere molte sfumature differenti in base alla persona.
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Il concetto di gioco è stato oggetto di molte discussioni, sia a livello filosofico che psicologico, e potrebbe essere definito come un atto finzionale e improduttivo.

Il gioco si svolge all'interno di un sistema di regole che vengono accettate e condivise nel momento in cui entriamo in questo cerchio. Molti studiosi parlano di "cerchio magico" quando si riferiscono al gioco: una dimensione separata dalla vita quotidiana, ma in cui agiamo "come se" fosse reale. Vestiamo i panni richiesti dal gioco, accettiamo le regole imposte dal cerchio, e ci comportiamo come se ciò che accade fosse vero, anche se, in realtà, è improduttivo.

Questo concetto si ricollega a quanto abbiamo detto prima. Quando parlo di videogiochi e dei loro benefici, spesso ci si sente in dovere di giustificare l'atto del gioco attraverso i suoi vantaggi cognitivi. Tuttavia, il motivo principale per cui giochiamo è semplicemente perché vogliamo farlo. Non lo facciamo per ottenere qualcosa di produttivo, ma per il puro piacere di giocare. Quindi, anche se il gioco è un atto finzionale, lo viviamo come se fosse reale, pur sapendo che è un’attività fine a sé stessa.
Elena Del Fante
Andrea Ferrario
Perché alcune persone si trovano a proprio agio con i Souls-like mentre altre li odiano? Cosa porta una persona a voler ripetere continuamente e immergersi in un ambiente così stressante?
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Perché dovrei gestire tutta questa frustrazione per un gioco, quando cerco altro? Alcune persone percepiscono la frustrazione a un livello molto più basso rispetto ad altre, e per questo sono più inclini a giocare un titolo che, di fatto, è progettato per creare difficoltà. 

Si può quasi parlare di "Rage Game" da questo punto di vista, giochi fatti per mettere il giocatore al limite delle sue capacità e spingerlo a superare se stesso, un po' come un eroe. C'è una sorta di "lore" dietro i Souls-like, tanto che molti giocatori non vogliono renderli più accessibili o introdurre la possibilità di regolare la difficoltà, perché è quasi una filosofia di gioco per loro.
Elena Del Fante
Andrea Ferrario
Lo stesso tipo di frustrazione può essere vissuta quando si gioca online a titoli competitivi. Ma in quel caso, quando perdiamo, sappiamo di essere stati battuti da un’altra persona reale. Cosa cambia in questo caso?
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Anche qui c'è da dire che non tutti sono interessati o disposti a mettersi in competizione con gli altri. Ci sono persone che evitano questo tipo di situazioni, e potremmo discuterne per ore. Solo perché qualcuno lo fa, non significa che tutti lo debbano fare. Sicuramente, alcuni temi sono condivisi con quelli legati ai Souls-like.

Per esempio, io personalmente sono più incline a cercare un ambiente competitivo. Sono stata un'ex-esport player, ho partecipato a tornei di Halo e altro, ma sono meno interessata al lato Souls-like. Per molte persone, me compresa, l'ambiente competitivo può essere visto come più sfidante ma anche più equilibrato. Dall'altra parte c'è un essere umano, non un computer programmato in modo esagerato.

In un ambiente competitivo, come negli eSports, ci si confronta con avversari umani, il che significa che a livello di funzioni del gioco partiamo tutti ad armi pari. Entrambi abbiamo le stesse probabilità di vincere, a differenza di quando mi trovo di fronte a un boss in un Souls-like. In questo contesto, la differenza la fa la skill, l'abilità del giocatore. Ma oltre alla skill, entrano in gioco altri fattori: quanto una persona investe nel gioco, quanto si è allenata, quanto è giovane o riposata, e così via.

In psicologia si parla di zona prossimale per indicare l'area ideale per apprendere qualcosa di nuovo. Uscire dalla zona di comfort ed entrare in una zona prossimale, che non sia troppo distante dal nostro livello attuale, ci permette di migliorare senza eccessiva frustrazione. Questo è un po' come mettersi alla prova in un ambiente competitivo, dove affrontiamo persone leggermente più brave di noi, e questo ci permette di superare gradualmente i nostri limiti.

Rispetto a un Souls-like, potremmo quasi paragonare il competitivo a una situazione in cui ti vengono dati dei braccioli e vieni guidato nell'acqua poco profonda, mentre un Souls-like è come se ti buttassero direttamente in piscina senza aiuto. La frustrazione è presente anche nel competitivo, ma in un modo diverso. Non tutti i giochi, per quanto siano idealmente progettati per garantire un equilibrio, riescono a farlo perfettamente. Problemi di connessione, come gareggiare con una connessione lenta rispetto a chi vive in una grande città, possono essere vissuti come ingiustizie e aggiungere un ulteriore livello di frustrazione.
Elena Del Fante
Andrea Ferrario
Che consigli possiamo dare a chi vuole avvicinarsi a questi giochi altamente difficili e competitivi per trarne il maggior benefico e meno stress possibile?
Andrea Ferrario
Elena Del Fante
Quello che mi sento di dire è che il gioco è un ambiente sicuro, protetto, coinvolgente e accattivante, che ci dà la possibilità di fare esperienza in modo ludico. Attraverso il gioco, possiamo vivere situazioni che nella vita quotidiana non potremmo sperimentare, ma che comunque ci possono essere utili nella vita di tutti i giorni.

Giocare, e sfidarci con gentilezza, ci permette di imparare sempre qualcosa di nuovo, gestendo tutte le emozioni legate a situazioni di incertezza in un ambiente sicuro. Per esempio, metterci alla prova in una sfida nel gioco potrebbe essere un modo per fare un "level up" in un contesto protetto, e queste abilità poi le portiamo con noi nella vita quotidiana. Nel gioco, miglioriamo le nostre abilità mentali, relazionali, emotive, e così via. Perché non sfruttare un ambiente ludico e sicuro per imparare qualcosa di nuovo?

Che sia imparare una nuova lingua o sviluppare abilità come la memoria, il videogioco ci allena sotto molti aspetti, come la memoria spaziale e la memoria procedurale, spesso chiamata erroneamente memoria muscolare. Invece di farlo in modo asettico e freddo nella vita quotidiana, possiamo imparare attraverso il gioco. La differenza sta nel modo in cui ci approcciamo al gioco. Quando mi presento, ad esempio, mi definisco come psicologa del gaming e non come psicologa dei videogiochi. Questa è una differenza sottile ma importante, perché non è tanto il gioco in sé, ma come lo affrontiamo.

Mi viene da dire che è importante sperimentare qualcosa di diverso da noi stessi. Ad esempio, nei giochi di ruolo, anziché creare un personaggio simile a noi, potremmo provare a fare scelte che mettono in dubbio il nostro sistema di valori, magari anche compiendo scelte immorali. Farlo in un contesto sicuro e protetto, come quello del gioco, ci permette di sperimentare senza rischi reali. Quindi, giocate e sperimentate.
Elena Del Fante
Ringraziamo Elena Del Fante per la sua disponibilità. Se volete seguirla, qui vi lasciamo i suoi profili social.
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