In settimana ho pubblicato un editoriale sul perché io mi sia pian piano disinnamorato di PlayStation la qual cosa, come intuirete, mi ha portato ad ignorare la nuova console Sony, lasciandola in un limbo di “prima o poi la comprerò”. Sono felice di constatarlo, è stato un articolo con un buon numero di letture, la qual cosa fa sempre piacere perché, diciamocelo, pur vero che uno come me scrive per il piacere di farlo, ma sapere che quello che scrivi ha anche riscontro in termini di interesse è comunque un qualcosa che ti risolleva l'umore.
Eppure, come dice il detto: “non è tutto oro quello che luccica”, ed assieme ai tanti complimenti, arrivati anche da luoghi impensabili della rete (tipo LinkedIn, per dire...), sono arrivati anche tanti commenti poco carini, tra inviti a cambiare mestiere ed insulti più o meno coloriti, tanto in pubblico quanto in privato. Ora, pensereste che questa cosa mi abbia calato in uno status di profonda depressione, ma la verità è che non me ne frega davvero nulla e anzi, come rispondevo a qualcuno su Facebook, se un giornalista dovesse fermarsi ogni qualvolta teme di scontentare il parere di qualcuno, allora non sarebbe un giornalista. Sarebbe, semmai, un mercenario qualunque, pronto a scrivere a comando in cambio di qualche moneta, che tanto basta solo mettere online un articolo con un titolo clickbait nella vana speranza che finisca nei feed di Google. Scusate, ma anche no, facciamo che nonostante tutto le idee contino ancora qualcosa.
Però, devo dirlo, da quegli insulti e quel certo grado di pochezza, ne è venuto fuori qualcosa di buono e quel qualcosa di buono è questo pensiero che state leggendo che, chiariamolo, è un editoriale e, dunque, si tratta di un pensiero strettamente personale, che deriva dalla mia esperienza, e solo da quella, qui proposto in formato di chiacchiera, qualora per qualcuno sia interessante come lo era stato il precedente.
Che cosa ho capito da questa faccenda? Che se c'è un problema di comunicazione nel mondo dei videogame, questo non è nelle aziende (che forse, al più, peccano di una certa pigrizia), ma negli utenti e, per la precisione, nei fanboy. Fa ridere che ormai in un 2021 inoltrato e, per certi versi piegato, da una miriade di problemi sociali e non, noi si abbia ancora tra i piedi i fanboy: ovvero una piaga che non è frutto dei tempi più recenti, né è nata con le prime console su disco. I fanboy sono una roba che esiste dai tempi della diatriba Atari 400 Vs Commodore 64, e si sono trasformati, finanche “evoluti” fino ai giorni nostri in quella che è ormai una battaglia manichea tra le fazioni “PlayStation” e “Xbox”.
Sostanzialmente abbiamo due gruppi, accomunati dalla passione per il videogioco, ma che per una mera questione di bandiera si scontrano nel decidere, a colpi di insulti e altre carinerie, quale sia la migliore tra due macchine quasi identiche. E badate, sono due macchine che sono state quasi identiche da sempre, anche se molto prevedibilmente tra i commenti di questo articolo spunterà qualcuno che dirà che non è vero perché, insomma: fanboy, you know.
Se ci pensate è una roba di una stranezza e di una stupidità rara, che non si configura in nessun altro campo dell'intrattenimento, della cultura o dell'arte. È una concezione prettamente consumistica che, non a caso, è emulata solo in settori che riguardano il connubio tra tecnologia e prodotto: Apple Vs Microsoft, Apple Vs Samsung Vs Huawei. Il perché è anche abbastanza ovvio: chi spende una certa cifra per un certo prodotto vuole sentirsi dire che ha fatto la scelta migliore e più logica e che, tutto il resto, è solo paccottiglia. Non è importante che sia vero o meno, l'importante è che te, TIZIO TALDETALI, che hai speso 500€ per il tuo smartphone, vuoi che ti si dica che è il miglior smartphone del mondo. Non è importante che sia vero o meno, per Tizio Taldetali è così.
E voglio dire, magari è anche giusto e sensato, basta semplicemente non avere la pretesa che la propria sia la ragione assoluta. Nel senso: comprati pure quello che vuoi, in base a quello che puoi permetterti o ti piace e, in uno sforzo (pare che di questo si tratti) di assoluta onestà intellettuale, smettila di dire che tutto il resto è feccia. Al più, se hai davvero la passione, cerca di creare un dialogo o una discussione.
Si tratta, insomma, di una mera esigenza di mercato, che possiamo percepire solo perché non c'è una reale distanza tra noi ed il mercato stesso e ne facciamo parte, o meglio: possiamo permetterci di farne parte, perché rientra nelle nostre possibilità economiche e, dunque, fa parte dei nostri interessi e della nostra bolla. Allo stesso modo, però, ci sono altri interessi che fanno parte della nostra bolla ma che, se notate, non si comportano alla stessa maniera perché il modo in cui dipendono dal mercato è differente. Un film, per dire, pur chiaro che può generare delle situazioni faziose (Marvel vs DC), ci vede spettatori e non acquirenti diretti della pellicola, e questo, che ci crediate o meno, cambia completamente il modo in cui si sviluppa la discussione. Certo possiamo acquistare una copia in DVD o Blue-Ray, ma non possiamo comprare il cinema, né la produzione, né pagare perché gli attori ci si presentino a casa, sicché la percezione della discussione muta e, non a caso, certe uscite da fanboy sono molto più contenute e comunque inerenti solo a determinati momenti dell'anno (tipo uscite che si avvicinano o accavallano).
È una situazione molto strana ma val la pena capirlo: sono altri i meccanismi che hanno stabilito che il cinema fosse cultura e poi arte, allo stesso modo in cui questi meccanismi si sono attestati anche in medium molto più “giovani”, come ad esempio il fumetto o certi frangenti dell'arte, come la street art. La discussione forse c'entra poco ma, al contempo, personalmente penso che se non si fosse partiti da discussioni intavolate nel modo giusto, forse non si sarebbe andati da nessuna parte.
“È arte?”, qualcuno se lo sarà chiesto, e da lì sarà partito prima un dialogo, poi un dibattito, ed infine si è partiti per la strada della consacrazione ma, ancora una volta, senza prima porsi le giuste domande, non si è andati da nessuna parte. Arrivati ad un certo punto, si è semplicemente cominciato a parlare di quei media in altro modo sicché, persino le critiche, hanno assunto connotati molto diversi, diversamente è quasi inimmaginabile ed anzi, se dovessimo configurare altre forme di arte (o aspirante tale) allo stesso modo in cui sussiste gran parte del dialogo odierno sul videogame, allora i risultati sarebbero esilaranti.
È come se doveste immaginarvi che un gruppo di appassionati dell'arte pittorica e, più nello specifico, magari del pittore francese Édouard Manet, nel mezzo di una lunga discussione con gli appassionati di Claude Monet, si siano trovati a venire alle mani perché, per loro, il pre-impressionismo è meglio dell'impressionismo e dunque, “bro spacchiamo tutto e tu va a quel paese”. Me lo vedo, questo branco di raffinatissimi buzzurri assaltare il museo dell'Orangerie dando del boomer a chi solo osa difendere l'impressionismo, cominciando a spaccare le bellissime opere di Monet, rei di essere gli unici portatori di una verità incontrovertibile: la loro.
Ecco, se questo pensieri vi sembra una stupidaggine e vi fa sorridere ma, se allo stesso tempo, siete tra quegli invasati che riversano su internet tutto il loro livore quando si tocca, in qualche modo, la bandiera della vostra console preferita, allora sappiate che più che ridere, forse dovreste fermarvi a riflettere su quello che dite, su come lo dite, e su quanto possiate essere d'intralcio in una discussione civile, perché è così che il più delle volte si comporta un fanboy, ed è così che viene percepito. Un fanboy è un esaltato che, solo raramente, sembra voler intavolare una discussione civile. Il più delle volte no, è semplicemente preda di un impulso forsennato nello spalare feci sul pensiero altrui perché “ehi, siamo su internet e qui ognuno può dire quello che pensa”. No ragazzi, non dovrebbe mai essere così.
Ma veniamo al punto: il problema sono i fanboy, si diceva. E lo sono perché, in quanto tali, sono il principale ostacolo al dialogo e, in ultima istanza, alla consacrazione del videogame come cultura, prima, e forse come arte, poi. All'interno delle nostre bolle, specie quelle dei social, siamo certamente attorniati da persone che (per lo più) ci piacciono e con cui condividiamo una buona parte dei nostri interessi. Se uno di voi scrivesse sulla propria bacheca che il videogame è (o anche non è) cultura, certamente qualcuno, anche solo uno dei vostri contatti, vi darà una risposta atta ad avallare, o eventualmente a contraddire, la vostra tesi. Il punto è che, nella propria bolla, un dibattito è quasi sempre possibile, perché già solo l'accomunamento di passioni rende la visione delle cose condivisa e, dunque, permette lo scaturire di un dialogo.
Ma cosa succede fuori dalla bolla? Fuori dalla bolla se un giornalista di videogame viene, ad esempio, coinvolto nei programmi della tv pubblica, o in qualsiasi altro frangente che non preveda una bolla, ma un pubblico quanto più esteso e variegato possibile, questi viene trattato come un emarginato o, se vogliamo, come uno che sta sprecando la sua vita, ovvero nella stessa accezione con cui si guardava ai videogiocatori più o meno dalla fine degli anni '80, e sono passati almeno 31 anni. Il problema è che non c'è concezione comune su quello che sia il potenziale sociale, comunicativo, artistico e politico di un videogame. Non c'è perché la discussione è limitata a pochissimi frangenti (le bolle di cui sopra) e, anche in esse, spesso non si riesce ad arrivare ad un punto perché il più delle persone, o almeno un buon 40%, non riesce a fare altro che commentare concentrandosi su quale sia la macchina migliore. Non si arriva proprio a parlare di tutto il resto, perché ci si stanca prima. Come se prima che riflettere sulla qualità di un dato prodotto artistico, dovessimo disquisire per 31 anni sul fatto che la matita 2B sia meglio della 2A, o che un foglio A3 sia meglio di un foglio A4: assurdo.
Ovviamente, questo non significa che la macchina non determini in qualche modo l'arte, perché anzi da certi limiti tecnici sono scaturite intuizioni che hanno portato alla realizzazione di prodotti che, in altri tempi, sarebbero stati completamente diversi ma, allo stesso tempo, non possiamo limitarci solo a questo, a maggior ragione che non è questo il fulcro del discorso di un fanboy. Ne consegue che, almeno nella mia opinione, il fanboy è un ingranaggio fondamentale di questo procedimento di lentezza culturale, perché rema contro alla sua stessa causa, paradossalmente senza neanche rendersi conto di farlo. Non si interroga sulla qualità del videogioco, non pensa alla sua evoluzione, alle cause o conseguenze o, se vogliamo, alla passione in sé, pensa solo alla macchina, alla scatola, al pezzo di plastica, ai Teraflops o alla bandiera anche perché, realisticamente, non è neanche davvero cosciente di cosa possa o non possa fare una data macchina in termini di sviluppo ovvero, per dirla in sintesi: come i limiti di hardware possano influenzare la creazione, il design e dunque lo sviluppo dei titoli che su essa vengono pubblicati. Per lo più il fanboy parla solo di texture, FPS o affini, come se da questi dipendesse la salvezza del settore, con buona pace di gente come Nintendo. Certo.
È un fanatismo che non mi sento di condividere e che, badate bene, non va confuso con quella che è la preferenza che ognuno di noi – giustamente – ha verso determinai prodotti. Se vi piace il cinema, è comprensibile che amiate un genere specifico più di un altro e che, addirittura, ci siano generi che non vi piacciono affatto: il fatto che non vi piacciano gli horror, per dire, significa che non amate il cinema? Non credo.
Personalmente amo PlayStation, come buona parte dell'Europa. È una questione culturale, data da tre fattori fondamentali: il primo è l'arrivo della macchina, di molto precedente alla prima Xbox, tale che ha permesso un radicamento culturale. In seconda istanza, PlayStation, con la sua comunicazione fuori dagli schemi, per certi versi quasi “violenta” nei confronti del mercato, creò una percezione completamente diversa rispetto a qualsiasi altro prodotto precedente, specie quelli Nintendo che, fino ad allora, erano stati i videogame per antonomasia, pur essendo considerati un qualcosa ad appannaggio dei bambini, più che dei teenager o dei giovani adulti. La console Sony fece quindi presa su di una fetta di consumatori più smaliziata e con un potenziale, in termini di mera passione, molto diverso rispetto a quelli di un bambino. Infine, PlayStation è stata una delle console più piratate della storia, il che ne ha favorito la diffusione in termini esponenziali, specie considerando che i giochi non richiedevano chissà quale investimento ed anzi, i più furbi potevano persino farseli in casa al costo di una pila di CD.
Amandola dalle sue origini è ovvio che mi venga difficile utilizzare una console Microsoft, se non per questioni strettamente lavorative. Non è che ne neghi le caratteristiche tecniche o la lineup, ed anzi mi sono divertito come un matto con certi giochi arrivati in esclusiva (anche solo temporale), come fu per il primo ed intramontabile Splinter Cell, per Conker: Live & Reloaded o per Fable. Semplicemente preferisco PlayStation e basta, ma ciò non deve significare per me (e non dovrebbe significare per voi) che tutto il resto sia inutile o stupido. Questo perché, secondo la mia personale opinione, se si ama un videogame o, se vogliamo, se si ama l'arte del videogame, è sciocco o quanto meno da ciechi precludersi di guardare in ogni direzione. Certo, magari se entri al Louvre vuoi subito vedere la Gioconda, o qualsiasi altra opera che per te valga il prezzo del biglietto, ma negare che il resto sia arte non è un atteggiamento culturalmente onesto, semmai è fazioso.
Il videogame non è religione, non è basato su dogmi precisi ed incontrovertibili che dobbiamo abbracciare per motivi di fede. Non lo è neanche capendo che un amore, come quello comunemente diviso per PlayStation, può essere – come vi ho raccontato – figlio del suo tempo e di un certo imprinting culturale. Un imprinting così potente che a distanza di anni dall'uscita della prima console Sony ha trascinato con sé anche quei giocatori che non hanno mai avuto una PlayStation o che, se l'hanno avuta, non ne hanno vissuto l'arrivo sul mercato. Il videogame va considerato come cultura, come arte, come dialogo ed in tal senso non abbiamo bisogno di chi non sa esprimere altro concerto che non sia: “allora se non ti piace tornatene a giocare alla console XYZ”, perché dopo 30 anni e passa di diffusione popolare è forse arrivato il momento di spingere tutti per un passo in avanti nella consacrazione del medium, sia per amore che per onestà intellettuale, ma anche per comune soddisfazione del sentirsi parte di qualcosa che non sia solo un circolo di collezionisti di giocattoli. Altrimenti tutta questa passione, questo amore, ed anche questa rabbia o queste lacrime che i videogiochi ci generano saranno inutili e noi resteremo per sempre quelli che si scannano per decidere se una plastica da 399€ sia meglio di una da 499€. Pathetic.
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