L’horror nei videogiochi è un genere che è sempre stato esaltato in maniere tanto diverse quanto impossibili da replicare sul grande schermo. L’interattività è l’elemento chiave per fornire un’esperienza terrorizzante ancora più intima e coinvolgente, dando il compito al giocatore di dover affrontare in prima persona ciò che si cela nelle tenebre ed evitando quel distaccamento di chi guarda uno schermo dove un gruppo di sbandati tenta di fuggire da un serial killer.
Eppure è altrettanto vero che l’horror che tanto ci piace nasce nella cinematografia, oltre che nella letteratura, e in essa ha avuto i suoi momenti di massima espressione grazie ad autori e film che hanno segnato intere generazioni. Non è quindi strano osservare come le due tipologie di intrattenimento cerchino sempre di più di avvicinarsi all’esperienza dell’altro, creando ibridi e idee che riescono a trovare la giusta quadra e proporre un’opera innovativa, capace di spaventare senza appoggiarsi eccessivamente al classico effetto jump-scare.
Nelle prossime settimane, metteremo mano a due titoli che rappresentano proprio l’unione del videogioco al cinema e che si prefiggono di portarci nuovamente ad affrontare la paura: The Dark Pictures Anthology Man of Medan e Blair Witch. Il primo è il primo capitolo di una nuova antologia horror creata dal team di sviluppo di Supermassive Games, il quale ci ha regalato una vacanza del terrore con Until Dawn. Il secondo è invece un nuovo progetto di Bloober Team (Layers of Fear) e Lionsgate presentato all’E3 2019 e basato sull’omonima pellicola che non solo ha creato il filone dell’horror “amatoriale”, ma ha anche lasciato un indelebile marchio all’interno dei cult dell’horror.
Entrambi riflettono la voglia di unire due mondi che, come avrete capito, hanno confini estremamente labili e lo saranno sempre di più se pensiamo all’arrivo di Death Stranding e Cyberpunk 2077. Allo stesso tempo però presentano due approcci molto interessanti nel panorama dell’horror come videogioco e che vale la pena esaminare per capire come sia possibile avvicinarci alle emozioni del grande schermo.
Man of Medan e il bisogno della cinematografia
Nei scorsi mesi e durante l’E3 2019, abbiamo avuto modo di vedere molto da vicino come Supermassive abbia deciso di approcciarsi a questa nuova dimensione horror instillata nella Dark Pictures Anthology. La filosofia alla base è chiaramente un’evoluzione di quanto visto in Until Dawn e d’altronde non è una mossa sbagliata: il è stato molto amato dal pubblico ed è riuscito a ritagliarsi una buona fetta di mercato soprattutto perché possedeva un’impostazione così “filmica” da essere un materiale prezioso per i creatori di contenuti su YouTube.
Una delle migliori qualità del gioco era infatti quella di rappresentare un’esperienza che poteva essere vissuta comodamente sul divano insieme ai propri amici, come se fosse un film horror a tutti gli effetti. Ci si sedeva lì, si guardavano i vari filmati e insieme si effettuavano le scelte necessarie per portare avanti la trama, scambiandosi opinioni o facendosi venire l’ansia nelle scene clou. Bastava sostituire i pop corn al joystick per poter pensare di essere davanti a un film, anche perché Until Dawn ha adottato un approccio realistico affidandosi a un cast di attori come Rami Malek, sfruttando appieno il motion capture facciale e la resa grafica d’eccellenza.
La presenza degli attori è stata fondamentale per sedimentare il successo di Until Dawn, soprattutto perché le performance erano esattamente quelle che ci si aspetterebbero da un film del genere in questione, con la differenza che lo spettatore/giocatore si sente molto più vicino a tutte le persone sullo schermo grazie alla forte interazione con esse. Le nostre scelte, in questi titoli, hanno conseguenze reali e determinano chi vive e chi muore, amplificando la sensazione di “spavento” proprio perché spesso una delle paure inconsce più grandi è quella di dover affrontare le gravi ripercussioni dei nostri errori o decisioni.
Man of Medan prende queste caratteristiche e le espande verso nuove acque. Innanzitutto adesso sarà presente la possibilità di vivere effettivamente il gioco in cooperativa, permettendo ai giocatori di osservare da più occhi contemporaneamente lo svolgersi degli eventi. Se da un lato questa divisione dell’azione nega un po’ quell’effetto da divano, dall’altro strizza l’occhio all’interattività, lasciando che il gioco sia più attivo rispetto al passato. E così noi e i nostri amici potremo partire per la volta dell’oceano del Sud Pacifico alla ricerca di una vacanza da sogno tra le onde, finendo però a dover sopravvivere a bordo di una nave maledetta. Un’impostazione vicina a quella di Until Dawn e a una delle premesse più utilizzate dalla filmografia horror americana. Perché, del resto, non c’è niente di meglio di un gruppo di adolescenti votati allo sballo per affrontare i terrori del nostro mondo.
A Supermassive questa tecnica serve per creare quella narrazione corale dall’ampio respiro, dando modo al giocatore di sentirsi in carico della vita di ognuno dei membri del cast, specialmente se si considera l’effetto che il fotorealismo è in grado di provocare a livello psicologico. Aiuta anche il fatto che ci sono volti noti del grande e piccolo schermo come Shawn Ashmore e Pip Torrens, oltre ad essere veramente ispirato alla leggenda della SS Ourang Medan: una nave fantasma presumibilmente affondata nel 1940. La ricerca ai miti e alla vicinanza con il mondo reale sarà un po’ il motivo della nuova Dark Pictures Anthology, ponendosi come scheletro della direzione che SuperMassive prenderà per le sue storie interattive.
Ed è proprio questo fascino del fumoso confine tra finzione, realtà e metafinzione che rende affascinante il modo in cui Supermassive si approccia all’horror, lasciando che esso non sia un semplice mezzo per farci prendere un colpo, piuttosto una subdola e infida sensazione di inquietudine che piano piano si fa largo nella nostra mente, cibandosi del nostro coinvolgimento e della responsabilità che sentiamo nei confronti anche delle più piccole delle scelte. Poi però, alla fine del giro, c’è sempre un altro messaggio, una riflessione di una realtà che va ben oltre la storia dell’orrore e che, in fin dei conti, rappresenta la vera forza narrativa che questo team di sviluppo riesce a imprimere nei suoi lavori.
Blair Witch e l'horror nel videogioco
Miti e storie dell’orrore vanno spesso a braccetto e una delle tattiche migliori è far sì che il girato sembra proprio provenire da una fonte reale e credibile. Ad oggi li chiamiamo “Lost Footage” e ogni volta vengono trattati come se fossero le visioni più pericolose al mondo. “Quello che state per vedere è una ripresa reale trovata dalla polizia” o “Potrebbe disturbare la vostra sensibilità” sono solo alcune delle frasi che, fintamente, vengono utilizzate per creare l’effetto di essere davanti a una qualche collezione di filmati amatoriali e, quindi, rendere assolutamente plausibile il paranormale allo spettatore. Ciò annulla la nostra unica speranza di non dover mai subire quanto sta accadendo sullo schermo perché tanto è solo un film, il riparo della finzione che tanto ci permette di non farci venire gli incubi.
Il più noto film (o franchise) horror di questo genere è The Blair Witch Project del 1999, il quale ci ha fatto vedere i filmati di una telecamera di alcuni ragazzi persi per sempre nella foresta delle Black Hills, inghiottiti dalla leggenda della strega di Blair. Il film è entrato nella storia per il suo modo unico di raccontare l’orrore, confondendo e spaventando attraverso pochi semplici frame rubati. Un risultato che è stato poi trasformato in un franchise che ha visto i suoi momenti alti e bassi. A un certo punto si tentò di costruire una trilogia di videogiochi che effettivamente fece la sua pubblicazione, riscuotendo un successo mediocre con l’unica eccezione del primo capitolo.
Ai tempi era difficile creare un gioco horror che riuscisse a dare la stessa sensazione della pellicola, soprattutto perché era necessario riuscire a mantenere la prima persona e dare quel tocco di realismo necessario per non perdere la magia. Limitati dalla tecnologia dei loro tempi, gli sviluppatori hanno infine passato la torcia del marchio fino a quando non è stato stretto l’accordo tra Lionsgate e Bloober Team, uno studio che ha già dimostrato il suo valore con l’eccellente Layers of Fear.
Blair Witch, in uscita in concomitanza con Man of Medan, ci porta nei panni di un poliziotto del 1998 intento a investigare il mistero dietro la scomparsa di un bambino in una foresta maledetta. Naturalmente si tratta di un luogo lugubre e dal passato indicibile, dove il protagonista dovrà affrontare orrori e demoni nel tentativo di riportare a casa la presunta vittima o quello che ne rimane.
La buona notizia è che il giocatore non sarà solo, infatti il gioco prevede un fidato cane poliziotto che potremo utilizzare per andare avanti con la nostra esplorazione e per scoprire nuovi indizi e piste. Prendendo un po’ dalla tradizione degli horror più recenti nel contesto videoludico, Blair Witch usa la tecnologia del ’98 per farci immergere nella sensazione “amatoriale credibile” grazie a stratagemmi come l’utilizzo della telecamera vecchia scuola per riprendere i fenomeni, del telefono per tentare invano di chiamare i rinforzi e altre interazioni utili al coinvolgimento.
Rispetto a Man of Medan e al lavoro di Supermassive in generale, l’esperienza di Blair Witch è più inquadrabile nel videogioco e nella visione classica di quello che abbiamo potuto finora giocare, che sia Outlast, Amnesia o altri titoli di questo stampo. Allo stesso tempo è paradossalmente più vicina al cinema, considerando lo stretto contatto con Lionsgate e il fatto che questo gioco sia una vera e propria espansione di un franchise filmico piuttosto che un progetto a sé. Un tie-in che sfrutta la storia più per scopi d’ambientazione che per raccontare una vera e propria storia coinvolgente, mirando a far vivere al giocatore un’esperienza simile alla pellicola senza osare troppo.
Ed è qui che troviamo lo spavento più classico, quello dove la visuale in prima persona è la prima causa dei sobbalzi dalla nostra sedia e il buio improvviso è il luogo perfetto per far saltare fuori mostri e megere demoniache dal segno inequivocabile. Chiaro che molto ruota attorno alla religiosità dietro al culto delle streghe, se così vogliamo chiamarlo, e all’efferatezza dei delitti dedicati a esse. Quello delle sette e del fanatismo distorto è uno stratagemma spesso utilizzato nel genere horror, specialmente quando si deve trovare il contrasto tra la civiltà (rappresentata dal protagonista armato di telefono e telecamera) e l’amenità dei luoghi come foreste sperdute o villaggi tribali.
Blair Witch calca quindi sul simbolismo e sulla backstory del suo universo e utilizza il videogioco per approfondire queste tematiche per aumentare l’effetto che si ha vedendo le pellicole, magari cogliendone dettagli e citazioni interne che prima passavano inosservate. È chiaro che un impianto simile può essere creato solamente quando si fa un lavoro strettamente legato a un marchio cinematografico e Blair Witch, se tutto rispetterà le premesse, potrebbe essere uno degli esperimenti più riusciti in questa particolare fusione.
A prescindere da quale dei due preferiate, la chiusura di agosto si preannuncia un viaggio all’interno del freddo terrore in concezioni sia tradizionali che innovative. Da un lato Man of Medan porta avanti un’idea di interactive drama originale e dall’alto impatto qualitativo, proponendo al pubblico un horror al limite tra il psicologico e l’ignoto del soprannaturale. Dall’altro Blair Witch si ancora saldamente al passato per espandere le idee di un nome iconico del cinema horror, utilizzando il videogioco più come mezzo aggiuntivo che una vera e propria tela dove poter creare qualcosa di nuovo. Un approccio più familiare e vicino agli amanti del cult dei lost footage, i quali troveranno diversi motivi per affrontare le maledizioni di una foresta dannata.