Nell'era post The Witcher 3 abbiamo dimenticato cosa vuol dire esplorazione. La formula degli open world, per un occhio non allenato, può sembrare rigida e stantia. In realtà, però, la stratificazione ludica di questo genere si è avvertita nel corso degli anni. Nell’instancabile dibattito generale della community, l’interrogativo che molti - giustamente - si pongono è:”Cosa rende questa tipologia di gioco così golosa e affascinante?”. La risposta si è persa nel tempo, annacquata da una valanga di titoli che hanno estremizzato molti dei punti cardine della formula.
La mano invisibile e la tenaglia creativa
Già quando si parla di open world e open map si nota qualche viso sofferente. Così come è chiaro che la parola “open” di quel mondo virtuale che tanto amiamo appaia sempre più scialba, spenta, arida e già deformata. Tracciamo insieme un percorso per comprendere cosa non funziona delle formule proposte e facciamo chiarezza sull’argomento. L’open world ha tradito se stesso ed ha cambiato forma? Caliamoci nel dibattito. L’open world è un genere che ho sempre trovato titanico in ogni sua forma e proposito. Da molti anni sono un amante del genere perché mi dà l’idea di una storia incompiuta e di un viaggio misterioso. Ognuno di noi può tracciare il proprio percorso, raccontare una sua personale esperienza di come ha vissuto quel mondo e narrare da bravo bardo quali misteri ha sfatato per primi.
L’open world è, per me, un’intensa e delicata alchimia tra costruzione del mondo di gioco e la nobile arte dell’effetto sorpresa. Devo apostrofarla con così tanta enfasi perché ormai è una rarità scovare opere che la sanno sfruttare con coraggio e ambizione. Come avrete già intuito, è proprio qui che crolla il nostro onirico castello di carte ed ideali. L’effetto sorpresa, che ci faceva sussultare ad ogni angolo per le stramberia che questo poteva celare, è stato surclassato da un’esperienza più veicolata e guidata. Ah! Quindi sono stati i colossi dell’industria cattivi a cambiare le regole? In realtà non è neanche così. La semplificazione del mondo videoludico su larga scala è lampante, solo i sognatori e i distratti non avvertono questo strano velo che inghiotte tutto.
Tanti giochi e brand famosi sono ormai molto più semplici di come li ricordiamo. Alcuni hanno giustamente provato a controbattere sottolineando che “siano prodotti di altri tempi”. Devo però precisare che l’unico tassello ad essere davvero mutato è la mano invisibile dello sviluppatore.
Una bussola che vibra, lampeggia e strilla
Il gioco oggi ti guida anche per le azioni più banali ed intuitive, evitando in tutti i modi che il fruitore sbuffi. Ci sono bussole e segnali per ogni cosa, pulsanti da attivare ogni volta per dei suggerimenti, aiuti da parte di personaggi virtuali e semplificazioni sostanziose in termini di mobilità. Ci sono utenti che comunque desiderano giocare con la mente scarica da pensieri o persone che non hanno piacere nella sola esplorazione alla cieca, però il risultato appare - ad oggi - scricchiolante. È così che muore la libertà dei videogiochi? Sotto l’inesorabile brulicare di punti di interesse già marcati? La situazione, che può apparire a tratti tragicomica, ha però mutato aspetto all’industria, è innegabile. La prima grande bugia degli open world è che, salvo eccezioni, di “open” è rimasto solo il recinto virtuale del mondo di gioco e che di “ariose” ci sono solo le aree selvagge scarne e vuote. Come se, per assurdo, il mondo virtuale eretto fosse la cornice del percorso tracciato.
Una sensazione che potreste aver provato a più riprese. L’esponenziale aumento di giocatori in tutto il mondo è stato indubbiamente un fattore che ha contribuito al soffocamento della libertà degli open world. È comprensibile che opere più semplici da digerire e concludere possano suscitare sentimenti come appagamento e gratificazione. È però altrettanto sensato ricordare che il genere open world è nato per sorprendere, non per circoscrivere. Ricordiamo, infatti, che c’è ancora della confusione sulla distinzione tra open world e open map. Mentre la prima definizione vuole sottolineare la presenza di un’esperienza senza limiti spaziali nel mondo creato, dove ognuno può andare ovunque voglia, tracciando il proprio percorso, la seconda ha dei limiti. Nell’open map ci sono mappe o livelli molto grandi che sono separati tra di loro e mantengono una struttura ben precisa.
Esploratori di mappe già tracciate
Ci sono certamente dei punti di connessione e di sgancio, ma spazialmente sono aree circoscritte. L’open world, invece, deve dare la possibilità al fruitore di scrivere la propria storia, evitando barriere o escamotage per occludere certe attività. Alcune opere dimenticano questa definizione e, sebbene offrano una mappa interamente esplorabile, lasciano comunque dei paletti virtuali opprimenti, invisibili a prima vista. Questo contraccolpo soffoca le decisioni del giocatore, che si trova costretto a seguire comunque un inter, il che rende l’esperienza manomessa dalla mano invisibile dello sviluppatore. Elden Ring, ad esempio, ha vinto il GOTY esattamente per questo motivo. In un contesto ludico in cui tanti titoli hanno deturpato l’essenza degli open world, la creazione di FromSoftware ha dimostrato che costruire un mondo senza guida, segnalini, aiuti e vincoli è ancora possibile.
Il player può affrontare l’esperienza come desidera ed è in grado di tracciare la propria storia. Ognuno di loro avrà sicuramente affrontato il viaggio in maniera diversa. La sensazione di essere spaesato e in balia del caos è piacevole, quasi difficile da rimembrare per chi mastica open world con regolarità. Proprio per questo l’effetto sorpresa della scoperta e l’arte di saper stupire dietro ogni passaggio ombroso, hanno fatto vibrare l’animo di ogni avventuriero. La semplicità della conquista è un innesto sopraffino da rendere appetibile. La seconda bugia dell’open world è che, per essere fruibile a tutti, bisogna barattare la libertà ludica con gli elementi guida. L’elemento sorpresa e le aree aperte devono essere sempre disponibili per chi vuole tracciare il proprio percorso.
La pancia piena e la mente spenta
La terza bugia parte da un’allucinazione di massa perpetuata nel tempo, ma anche voluta dagli stessi consumatori. C’è questa visione distorta, secondo la quale esista un bizzarro nesso tra tempo di gioco e contenuti erogati. Ci sono giocatori che considerano l’acquisto di un open world come se fosse la cena ad un all you can eat e poi, conto alla mano, ridono compiaciuti di quanto avrebbero speso se fosse stato alla carta. Non sono un ipocrita, anche io sono felice se un open world mi propone una carrellata di attività di contorto golose e intriganti e sono il primo a goderne se l’opera mi tiene occupato, ma ci sono modi e modi. Prima di tutto dobbiamo scrollarci di dosso l’idea che gli open world siano un contenitore in cui infilarci sempre più prelibatezze senza criterio.
Esiste un limite a quel dosaggio e ci sono controindicazioni. Le attività devono essere diluite nella mappa con razionalità e devono avere un significato, quantomeno accennato. Spesso ci sono giochi che fanno quasi a gara per inondare la mappa si punti di interesse, solo che poi ti avvicini ed era il nulla condito con il niente. Bisogna dare un significato alle scoperte fatte nel gioco, non basta aggiungere per rendere l’opera più longeva, serve qualità. Baratterei con orgoglio qualche ora in meno di esplorazione con contenuti più ragionati e ben amalgamati con l’ambiente. Per questo occorre giocare con l’occhio un pelino più critico, così da comprendere quando si tratta di soli elementi riempitivi e quando invece c’è del lavoro da lodare.
Spesso leggete nelle recensioni che ci sono molte attività ripetitive o sfide riproposte fino alla nausea, questo è il caso. Sempre gli stessi accampamenti da distruggere tutti uguali, gli stessi forzieri, lo stesso minigioco o enigma ripetuto. Cambiano colori, le sagome o i dettagli ambientali, ma è sempre la stessa minestra. È una bugia che non deve essere alimentata dai consumatori, perché non è vero che la longevità vi assicura sempre qualità. Valutate con saggezza il ritmo esplorativo