L'esuberante voce di Martin Tweed, CEO della Kindred Aerospace, rimbomba nella sala comandi del Javelin di Journey to the Savage Planet. Sullo schermo continua ad andare una trasmissione di benvenuto che mi ricorda i capisaldi della missione: esplorare, catalogare, inviare i dati alla casa base, sopravvivere e valutare se il pianeta AR-Y 26 è idoneo per un insediamento. L’umanità è stata intrappolata sulla Terra, possiamo essere di più. Si legge come motto di incoraggiamento. Svolgo la burocrazia necessaria accedendo a un terminale di quelli all'avanguardia negli anni ‘90 e lascio che sia l'IA EKO a guidarmi in questi primi passi. In alternativa è possibile ridurle la parlantina nelle opzioni se la trovate fastidiosa, ma per ora va bene così: un po' di compagnia su un ignoto pianeta non fa mai male, aiuta a non impazzire di solitudine.
Lascio la sala ed esco all'esterno: l'atterraggio non è stato dei migliori. Ci sarà un motivo per cui siamo la quarta compagnia di esplorazione spaziale e non la prima. Inizio a mie spese a capirlo. In dotazione, però, ho degli strumenti di sopravvivenza base niente male. I cartografi, dei robottini volanti che mi aiuteranno a trovare punti di interesse e lo scanner del visore con il quale recuperare informazioni su territorio, fauna e oggetti. Rilevo in un attimo i problemi, fortunatamente non sono impossibili da riparare. L'unico vero grande ostacolo al momento è la mancanza di carburante, esaurito per effettuare il viaggio di andata. Il pianeta però è abbondante di materiali, tra cui una lega aliena equivalente che andrà trovata se vogliamo ripartire. Siamo appena arrivati e stiamo già cercando un modo rapido per andarcene? Un attimo di pazienza esploratore, ci sono caverne di ghiaccio in cui addentrarsi e prima di vedere la luce al di là del tunnel c'è da mettere mano al sistema di crafting.
Forse la Kindred non può permettersi le migliori attrezzature, ma c'è una favolosa stampante 3D nel Javelin grazie alla quale poter costruire tutto il necessario per progredire con l'esplorazione. Nulla di estremamente complicato: si sbloccano / scoprono determinate condizioni, si raccolgono i materiali e quando si ha tutto si deve solo premere stampa. Un sistema di crafting basilare, non improntato alla sopravvivenza estrema ma presente in giuste dosi per sostenere la struttura Metroidvania sulla quale sono basati l'avanzamento e la scoperta di segreti. È così che ho stampato la mia prima pistola al plasma: ha pochi colpi e si surriscalda, ma è ottima per aprirmi un varco e farmi scoprire le incontaminate regioni che si estendono di fronte al mio sguardo attonito.
Ci sono tante di quelle piattaforme che non posso ancora raggiungere e devo goffamente saltellare e arrampicarmi dove posso. Le regioni che riesco a scorgere sfruttano moltissimo la verticalità e tutto sembra rimandare a una grossa torre che diventerà ben presto l'obiettivo principale delle mie peregrinazioni. C'è una buona varietà di biomi e ogni zona sembra nascondere molti segreti. A guidarmi non ho una mappa artificiale in un angolo dello schermo, tuttavia ci sono indicatori visivi e dei segnali acustici che cercano di indirizzarmi verso una direzione, il come arrivarci è tutt'altro affare. A volte i passaggi sono bloccati, mi alzo da terra di pochi centimetri o non so trattenere una granata per più di qualche secondo.
Per accedere a nuova conoscenza dovrò entrare in contatto con la materia aliena, prelevando campioni e visitando misteriose strutture. Trovati i giusti indizi basterà seguire la missione e affrontare le sfide proposte. Gli enigmi ambientali, spesso collegati a un nuovo elemento introdotto nella zona scoperta, richiedono spirito di osservazione, intuizione e voglia di sperimentare. A volte richiedono un po’ di sana follia come calciare un uccellino dentro un tritacarne che rumorosamente e con soddisfazione si gusta il suo pranzo. Le soluzioni non sono mai eccessivamente astratte, c’è sempre un apprendimento continuo di quelli che sono gli effetti e i possibili usi di una determinata meccanica. Non c’è fretta – a meno che non vogliate fare una speedrun - di arrivare alla fine. Prendetevi il vostro tempo e passate tutto allo scanner perché ciò che cercate potrebbe essere proprio davanti al vostro naso.
Non di rado me la dovrò vedere con dei boss minacciosi, via via sempre più grandi fino a riempire lo schermo. Dovrò tirar fuori dal cilindro tutte le abilità platforming e la miglior mira possibile perché sparare in Journey to the Savage Planet non è esattamente la meccanica di punta del gioco. È prima di tutto un gioco di avventura in prima persona, non uno sparatutto adrenalinico con fedeli sistemi di puntamento. Queste grandi creature hanno la loro unicità per aspetto e scenari in cui dimorano, ma tutte possiedono delle caratteristiche in comune. Ogni boss ha una barra salute divisa in 3 porzioni e dei punti deboli da scoprire e colpire. Ogni colpo andato a segno abbassa l'energia vitale e quando la prima porzione viene esaurita, i pattern di attacco cambiano o il nemico stesso modifica il suo fisico e i punti deboli.
I momenti si fanno concitati quando ci vengono lanciati cerchi infuocati, siamo bersagliati da fastidiose creature volanti o le piattaforme che prima erano un saldo appiglio diventano pericolose e possono ferirci. I boss più statici, solitamente quelli di più grandi dimensioni, rendono però i loro punti esposti più facilmente attaccabili. Sebbene venga introdotto qualche nuovo elemento in ogni scontro, lo schema su cui si basano attacchi e risposte dei boss è fin troppo simile e finisce per renderli piuttosto prevedibili. Uno scontro in particolare - resterò vaga per evitare spoiler - ci è sembrato durare più del necessario a causa della scelta di design di moltiplicare il numero dei punti deboli al posto di proporre stimoli ambientali più articolati con i quali confrontarsi vista anche la natura più riflessiva del titolo che non fa dei combattimenti il punto cardine
Pensato a misura di giocatore
Quando ho incontrato Reid Schneider nel corso della nostra anteprima, una delle prime cose che mi ha detto è stata "ci siamo ispirati a Metroid Prime". "È uno dei miei giochi preferiti", ho risposto. "Allora spero che ti piacerà anche Journey to the Savage Planet", ha replicato. Oggi potrei rispondergli che al netto di qualche ripetizione nei combattimenti, non c'è mai stato davvero un momento in cui mi sia annoiata se consideriamo gli obiettivi principali. L’unico aspetto che forse mi ha tediato un po’ di più è stata la richiesta di completamento di alcuni esperimenti scientifici, anche se, volendo, potete arrivare al finale senza completare tutto. Di per sé non sono difficilissimi, sono piccoli obiettivi come calciare e colpire in volo uccelli palla e alcuni si fanno anche senza darci troppo peso, ma è la loro insipidità ad averli connotati come meno stimolanti rispetto alla vivacità dell’ambiente di gioco.
La verve comica e le buffe creature, le registrazioni aliene e gli antichi misteri, però, han fatto sempre da calamita per trascinarmi sempre più nel vivo dell'esplorazione. Il modo in cui il mondo di gioco diventa percorribile non appena si migliora la propria attrezzatura è stato una piacevole scoperta. Doppi salti, slanci, rampini protonici per scivolare o lanciarsi da un appiglio all'altro. Se all'inizio sembrava faticoso anche solo fare uno sprint di qualche metro, qualche ora più tardi avevo più agilità di Indiana Jones e con il mio cavo protonico coprivo distanze inimmaginabili. Il backtracking asfissiante che spesso opprime i giochi del genere Metroidvania non ha mai fiaccato la mia avventura durata tra le 9 e le 10 ore, più un’altra manciata di ore da segnare al cronometro per cercare di scoprire ciò che avevo lasciato indietro.
Le aree principali sono collegate da comodi teletrasporti, ma anche senza farne uso, grazie all'elevata mobilità acquisita, era più divertente cercare scorciatoie, saltare da altezze esagerate e rallentare poco prima dell’impatto, rischiare anche di morire ma saltare direttamente le piattaforme a due a due fluttuando per qualche secondo. Non ho mai avuto la sensazione di fare troppi passi indietro, anche se nelle fasi avanzate di gioco, raccogliere oggetti o mangiare “Melma Arancione” era diventata più un’attività a fini collezionistici per scoprire cosa sarebbe successo ottenendo tutto.
Journey to the Savage Planet è stato pensato per non inghiottire il vostro tempo: ha tratti open-world su misura e rinuncia a infilare mille attività in pochi metri quadrati solo per rendere interessante il mondo di gioco. In 10/12 ore si può completare e potete farlo anche insieme a un amico con una modalità cooperativa online senza troppi fronzoli. Non ha bisogno di catturare l’attenzione con altro se non con il suo mondo di gioco, è lui il mistero interessante da risolvere come in ogni avventura con elementi Metroidvania che si rispetti.
Typhoon Studio sarà anche uno studio di sviluppo di circa 25 persone, che ha portato avanti Journey to the Savage Planet con minori risorse rispetto a un tripla A, ma quando al progetto lavorano veterani che vengono da Far Cry, Assassin’s Creed e Batman, forse una o due cose sui mondi aperti le sanno. Ormai siamo arrivati al punto in cui passiamo centinaia di ore a ripetere le stesse attività quasi come in un loop senza uscita solo per vedere la fine di una storyline dopo mesi. Magari c’è chi salta anche i testi delle missioni secondarie perché sono diventate talmente vuote che cerchiamo di recuperare come possiamo il tempo speso a fare cose noiose per ottenere un briciolo di exp o un potenziamento. Journey to the Savage Planet è in antitesi a questo approccio, è una boccata d’aria fresca che prendiamo quando facciamo una pausa dall'ennesima quest lunga e priva di mordente. È il gioco per chi ormai ha il tempo di giocare scandito col contagocce: è leggero, colorato, ti impegna il giusto ed è venduto a un prezzo "budget" di 29,99 euro.