Storicamente l’assegnazione del premio GOTY ha sempre diviso il pubblico. I fruitori di tutto il mondo, o per velleità o ragionando in termini esperienza, si augurano che sul podio possa salire il proprio gioco preferito. Se da un lato la critica si propone di consigliare e delineare i punti di forza e debolezza delle opere sul mercato, dall’altro subentra - come è giusto che sia - anche una forte componente emotiva. L’amore per un brand o un titolo che tanto aspettiamo talvolta ci abbandona in una consapevole cecità in sede d’acquisto. L’empatia che noi riversiamo su un prodotto il più delle volte ci lega genuinamente ad esso, ma può anche condizionare il nostro raziocinio in fase di scelta. Nell’era dell’economia dell’attenzione non siamo poi così tanto fruitori responsabili.
Ci lasciamo trasportare da un pizzico di hype e ci permettiamo il lusso di dondolare tra le note del marketing. Viviamo in un contesto che ci influenza e ci bombarda tramite social, tanto che ci ritroviamo spesso a fare acquisti d’impulso, non capendo la vera motivazione di quel che facciamo. Il settore videoludico risente di questo ragionamento come molti altri ambiti. Alla domanda “Qual è per te il miglior gioco di quest’anno?” si risponde, talvolta, singhiozzando una mezza bugia. Spesso si tratta di un titolo che amiamo personalmente, o che attendevamo da troppo tempo, e che ci ha tolto il fiato. L’amore per quel brand ha eclissato altri titoli che ci sono passati sotto mano e non abbiamo considerati. L’autorevolezza della critica è in forte discussione in quest’era, ora per la scarsa considerazione del contesto sociale per il medium, ora per la fallibilità di qualche penna.
Siamo fruitori sordi vittime di un mercato chiassoso
Basta uno sporadico errore in fase di analisi per macchiare la reputazione di qualcuno e un voto non propriamente contestualizzato per far vacillare i lettori. In questo fragile e confuso regno dell’insicurezza, il fruitore spesso bypassa la critica tradizionale volgendo l’orecchio a influencer o amici. Non è un caso se sul podio delle fonti d’informazioni sui videogiochi raccolti da IIDEA non vi è la stampa. Siamo in un clima paradossale in cui la nostra ragione d’acquisto e la nostra ragione d’essere ci sono suggeriti troppo spesso da altri, senza magari neanche essere dei veri e propri studiosi della materia. Ci sono anche persone talmente assuefatte dalla console war che non riescono neanche a dare atto dei risultati di altri colossi sul mercato. La ricerca del gioco da acquistare si riduce così ad un tira e molla interminabile, ma ci sarà mai speranza di mettere d’accordo tutti?
Come si può dare il titolo di GOTY a un gioco, senza mettere il broncio a qualcuno? Ogni anno una IP di considerevole caratura artistica agguanta il premio finale, per un motivo o per un altro. Una giuria decide in previa visione e dopo un’attenta analisi quale opera debba essere la “migliore”, così da trionfare su tutte. Da fruitore e da scrittore ho sempre trovato più interessanti in tal senso i Game Awards fatti dalle redazioni. In genere ciò che ne esce fuori è una visione più completa del mercato di quell’anno con delle spiegazioni annesse. Magari ci possono essere esponenti editoriali che possono far pesare il proprio pugno o ci può essere una scarsa omologazione tra le testate videoludiche, ma forse sarebbe meglio così. In fin dei conti perché ci dovrebbe essere un solo GOTY? Mi sentirei più coinvolto a leggere il parere di tanti esperti che ammiro, invece di un solo evento l’anno.
Cosa dovrebbe significare GOTY?
Ma non voglio uscire eccessivamente fuori tema, quindi torniamo a noi. Come accontentare tutti almeno quest’anno? Ci sono talmente tanti nomi che si meritano il premio, come Returnal, Psychonauts 2, It Takes Two, Ratchet & Clank Rift Apart, Resident Evil 8 Village, Kena Bridge of Spirits e potrei andare avanti per un altro po’. Mi sono fermato a riflettere recentemente su ciò che davvero dovrebbe rappresentare un GOTY, mentre nella testa mi rimbombavano risposte diverse. Che sia chiaro: non mi permetterei mai di salire in cattedra per riformulare i criteri di giudizio critici, né ho l’ardore di impormi con un qualche pensiero filosofico. Quello che vorrei dire è solo una cauta riflessione su ciò che per me significa “il gioco dell’anno”, concentrandomi proprio sulla case history di quest’anno. Faccio un passo indietro. In fase d’analisi critica sono cresciuto tra giganti che vantavano diverse linee di pensiero. Ognuno apporta un peso specifico diverso ad alcune sfumature proprie del videogioco. Ciò che mi è stato trasmesso sin da subito è il culto per l’originalità.
Un titolo non deve solo essere una macchina tecnica rifinita e condita di arte, ma dovrebbe offrire qualcosa di nuovo o stupire per un componente talmente ben forgiato da essere unico. Siamo in un mercato in cui i cloni del prodotto di successo si fagocitano a vicenda per attirare l’attenzione del pubblico, mentre ripropongono formula di successo all’infinito. In un clima del genere, quando un gioco si impone con il suo coraggio artistico o per proporre qualcosa di follemente inusuale, sono incline a far pesare tale ambizione con accortezza. Insieme all’originalità ha per me una valenza preponderante l’aspetto sociale e il messaggio di base. Se deve essere il GOTY, allora la sua filosofia deve ruggire così forte da penetrare nel cuore di tutti gli appassionati, o almeno deve saper sfiorare le corde sensibili del nostro animo.
It Takes Two: celebriamo unione, amore e creatività
Penso alla sottile psicologia in The Last of Us, all’unione silenziosa in Death Stranding o al valore delle emozioni in Life is Strange, giusto per citarne qualcuno. Se un videogioco riesce a lasciare il senso in un contesto sociale, distaccandosi dal mero aspetto virtuale, è lì che accade la magia. Anche solo per un tempo breve, la vita di qualcuno è cambiata. Partendo da queste premesse, ho pensato che il GOTY in grado di soddisfare tutti potrebbe essere proprio It Takes Two. L’opera partorita dalla folle mente di Josef Fares, giunge in un momento storico purtroppo singolare. Siamo dovuti stare lontano l’uno dall’altro, molti rapporti si sono incrinati, mentre termini come “amore” e “cooperazione” vengono spesso oscurati dall’egoismo. Il gioco desidera metterci al centro di un viaggio di riconciliazione tra due genitori sull’orlo del divorzio, entrambi trasformati in bambole a causa del pianto disperato della figlia. Sul fronte critico rasenta per molti la perfezione artistica e tecnica, toccando il voto massimo per eccellenza.
Si tratta di un viaggio divertente e avvolgente, capace di puntare il focus narrativo su molte fragilità sociali odierne. Lo struggente racconto dei due genitori non è altro che un genuino ritorno alle radici del loro amore, ma anche alla scoperta di loro stessi. Un cooperativo brillante e carismatico, che riesce a farci sorridere, ma anche a tornare piccini. Al di là dell’aspetto critico, il titolo, ora per il suo prezzo contenuto, ora per la grafica infantile ma accattivante, riesce a convincere anche i fruitori meno inclini ad acquistare giochi non di tendenza. Questo perché con pochi soldi e tanta fantasia si può vivere un viaggio spensierato nella deliziosa mente di Fares, concedendoci anche qualche riflessione personale. Come non premiare una creazione che vanta di un’originalità artistica e di gameplay tanto esuberante, che riesce a far giocare persone legate emotivamente ogni dove? Io non riesco a trovare un motivo perché It Takes Two non meriti di essere il GOTY che, senza pretese, è riuscito a rendere tutti contenti in un anno difficile.