Assassin's Creed Valhalla insegna giocando, l'esempio perfetto di Gamification dell'istruzione

La natura del Discovery Tour di Assassin's Creed Valhalla fa riflettere sull'ennesima evoluzione del videogioco in quanto media.

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Se dovessi chiedere ai più che cos'è un videogioco, probabilmente le risposte che riceverei non sarebbero così diverse le une dalle altre. Mi verrebbe detto, nel più e nel meno, che un videogame non è altro che un oggetto elettronico che permette di divertirsi. Certo, qualcuno azzarderebbe sicuramente una definizione più tecnica, qualcun altro piazzerebbe al centro del discorso la questione relativa all'interazione diretta, qualcun altro forse non riuscirebbe a trovare le parole giuste per esprimere il concetto, non per stupidità, ma per l'effettiva difficoltà che sussiste nel dover descrivere un qualcosa di complesso, e mutevole, come il videogioco.

Personalmente, penso che il videogioco sia un'esperienza. Se poi volessimo scendere nel dettaglio, chiarirei che il videogioco è un'esperienza interattiva e, semmai mi si chiedesse di scavare ancora più a fondo, direi che il videogioco è un'esperienza interattiva che richiede una partecipazione emotiva.

Boom! Credo che la pietra di volta che sostiene l'intero discorso sia tutta qui: la partecipazione emotiva ma, come sempre, mi tocca tirare il freno a mano ed andare per gradi. Tutto il discorso nasce dal mio interesse per quelli che, almeno qualche anno fa, venivano chiamati “Serious Game”, e che più recentemente sono stati ribattezzati “Applied Game”. Due termini che rientrano in quello che è il vasto panorama della “Gamification”, ovvero quel concetto che cerca di trasporre i principi tipici delle attività ludiche, mutuando soluzioni tipiche del game design (uno su tutti quello della “ricompensa”) in contesti che con il gioco c'entrano poco o nulla, come ad esempio il lavoro, la comunicazione e, perché no, anche l'istruzione.

Gli Applied Game, in sostanza, hanno l'obiettivo di renderci certe attività più semplici, o quanto meno, più fruibili, basandosi prettamente sul principio della ricompensa, che è poi una delle meccaniche più elementari (e studiate) del game design. Il concetto è molto semplice: se svogli una serie di attività, il gioco ti ricompensa. La ricompensa attiva un processo chimico nel nostro cervello che rilascia dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore che permette al nostro corpo di svolgere varie funzioni e che, ad esempio, stimola l'accelerazione del battito cardiaco e la pressione sanguigna.

La dopamina, in sostanza, ci dà quel piacevole brivido lungo la schiena e genera eccitazione. Ci galvanizza, ed è per questo che giocare è così dannatamente piacevole e può, in casi molto critici, trasformarsi in un accanimento che necessità un supporto psicologico, come nel caso delle ludodipendenze, come la ludopatia.

Capirete, dunque, che la gamificazione è un processo che può funzionare molto ma molto bene e che, al contempo, può aiutarci a superare una serie di scogli psicologici che ci impediscono di guardare oltre all'ostacolo anche se, per dire, l'ostacolo è semplicemente imparare qualcosa di più sulla storia o la geografia. Il problema, semmai, è che esiste un confine ancora troppo netto tra quello che si può considerare “ludo-educativo” e quello che è semplicemente un prodotto di intrattenimento. Certo esistono, soprattutto in Italia, delle aziende che stanno lavorando davvero molto bene in questo senso ma, purtroppo, il più delle volte si tratta di progetti che non sono in grado di deviare dalla loro natura istituzionale (pensiamo ad esempio ai videogame che promuovono il territorio) e che, per quanto divertenti, restano comunque troppo vincolate al messaggio che vogliono comunicare, come se il dover svolgere un certo compito comunicativo sia una sorta di catena dal quale è impossibile liberarsi.

Il punto allora qual è? Il punto è che forse, al di la delle vendite, il videogame dovrebbe abbracciare a pieno titolo la sua natura comunicativa e, forte del suo potere, dovrebbe cercare di esplorare le diverse possibilità che gli sono offerte in tal senso, cercando di passare da mero intrattenimento a qualcosa in più, forte di quella consacrazione che lo ha già eletto, senza alcun dubbio, sia medium (e dunque capace di veicolare un messaggio, qualunque esso sia), sia arte (e dunque possessore di uno spessore prettamente culturale).

Ma come si fa una cosa del genere? Non è possibile dirlo ma, va specificato, a volte le cose migliori succedono per caso o, come in questo caso specifico, per dedizione, giacché lo spunto di tutto questo discorso è l'arrivo online del Discovery Tour di Assassin's Creed Valhalla, una modalità che, come era già successo per i due capitoli precedenti, punta a raccontare la Storia, quella con la S maiuscola (e indirettamente anche la passione del team di sviluppo), utilizzando l'immenso e raffinato panorama offerto dalla campagna principale che, come saprete, è incentrata sulle razzie vichinghe in Inghilterra nel corso del IX Secolo.

Ora so cosa state pensando: questa è una mera marchetta fatta ad Ubisoft per promuovere il suo nuovo contenuto. Mi spiace, ma avete preso una cantonata. Se avete seguito il discorso di cui sopra, e comprendete quale possa essere l'interesse nello studio della gamification e, nello specifico, di quei videogame che si sforzano di proporsi come prodotti di “intrattenimento culturale”, allora è impossibile che non comprendiate quanto importante e, per certi versi, iconoclasta, possa essere lo sviluppo di una cosa come i Discovery Tour di Assassin's Creed, la cui ultima iterazione si è anche notevolmente raffinata rispetto al passato, giacché ora richiede un minimo di partecipazione in più da parte del giocatore.

Parliamo, infatti, di un qualcosa che non è propriamente un videogame, ma che ne ha tutto il fascino, complice quella che è una costruzione del mondo di gioco che premia, anzitutto, l'immersione del giocatore e l'impatto visivo. Allo stesso modo, tuttavia, il Discovery Tour di Assassin's Creed Valhalla si propone come un contenuto prettamente informativo, quasi scolastico se vogliamo, giacché il suo obiettivo non è solo quello di intrattenere ludicamente, ma proprio di insegnare e, se possibile, far appassionare, un bacino potenziale di almeno 1.8 milioni di utenti, ovvero il numero di copie di Assassin's Creed Valhalla la cui vendita è stata certificata da Ubisoft già alla fine dello scorso anno, e non ci sorprenderebbe sapere che ormai il tetto delle 2 milioni di copie è stato raggiunto.

La cosa interessante è che stiamo parlando di un software bellissimo da vedere, con dei controlli funzionali e fluidi, che permette l'esplorazione diretta di un mondo ricco di storia, leggende e curiosità, in quello che è praticamente un libro di storia interattivo che, al di la dei limiti dei succitati “Applied Game”, può in qualche modo superare la barriera che divide i contenuti con finalità squisitamente ludica, da quelli che hanno invece uno scopo prettamente informativo o istituzionale. La cosa ancora più sorprendente è che una cosa del genere sussiste semplicemente perché un team di sviluppo si è reso conto di avere alle spalle così tanta esperienza e materiale, da poter condividere quelle informazioni in una forma che non sia glissabile dal giocatore, ma che richieda un interesse attivo e questo, se permettete, è il motivo per cui tutto questo ha un sapore iconoclasta.

Non c'è dietro alcun bisogno comunicativo, non c'è una necessità di creare una partecipazione attiva per la promozione di un ente culturale. Giacché la modalità è gratuita per i possessori del gioco (19,99€ per tutti gli altri), non sussiste neanche una motivazione prettamente economica. Il Discovery Tour di Assassin's Creed Valhalla, esiste perché dietro di esso c'è qualcuno che è convinto di poter fare cultura attraverso un mezzo che non sia un libro, un documentario o un papié informativo. Come la cultura in sé, il Discovery Tour esiste perché c'è qualcuno che ha voglia di insegnare qualcosa a chiunque abbia la voglia di imparare.

Detta in soldoni: un progetto come il Discovery Tour ha senso, perché lì fuori esistono delle persone che sono disposte a scaricarlo e “giocarlo”, pur consce che si tratta di un prodotto di stampo educativo, che non nasconde in alcun modo la sua natura. In apertura avevo detto che, secondo il mio personale punto di vista, “il videogioco è un'esperienza interattiva che richiede una partecipazione emotiva”. Ecco, il Discovery Tour di Assassin's Creed Valhalla è un punto di rottura netto che ha senso perché, nella sua semplicità, richiede una partecipazione emotiva ed un'interazione, ed è dunque videogame. Allo stesso modo, però, è anche prodotto prettamente informativo e culturale e, come tale, ha senso che si inserisca all'interno delle applied game. Certo, si tratta di un esempio che forse resterà un unicum all'interno delle idee di Ubisoft, che è effettivamente l'unica azienda del settore a puntare su di un approccio simile, ma nella sua unicità resta un esempio ammirabile di quello che è il potenziale del videogame oltre quelle che sono le sue possibilità intrattenitive, emotive e narrative.

A questo punto, spero sia chiaro, questa trovata di Ubisoft è un punto di svolta per un certo tipo di applicazioni, capace anche di prescindere dal concetto del divertimento. Il Discovery Tour di Assassin's Creed Valhalla può infatti essere divertente o meno, ma non è quello il punto. Il punto è che è uno dei più fulgidi esempi di come di come un certo tipo di videogame, che nascono con quello che è idealmente uno scopo “più alto”, siano vittime di un problema semantico o, se vogliamo, di definizione, che pretende di catalogare cosa possa o non possa essere un videogioco. È gamification? È applied gaming? È serious gaming?

È tutto, e contemporaneamente non è nulla. È semplicemente il videogioco che, un po' in sordina, si evolve e rompe l'ennesima delle sue barriere, quella dell'istruzione, il che ci permette di auspicare un futuro in cui il gaming, nella sua forma più semplice ed intrattenente, possa utilizzare la sua potenza mediatica e comunicativa non solo per veicolare le più basilari emozioni umane, come amore, paura, rabbia, tristezza o felicità, ma anche dinamiche più complesse come l'apprendimento e lo studio. Sarebbe un futuro incredibile in cui non occorre sentirsi obbligati a studiare, a conoscere, o a capire il mondo per mezzo di un sistema d'istruzione che potrebbe risultare appagante pur restando concreto ed interessante. Galvanizzante, come una botta di dopamina.

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