Non vi capita mai di sentire il bisogno di buttarvi su un gioco particolarmente toccante? Prima ancora di pensare al genere ludico. No, non stiamo parlando di quei momenti esagerati in puro stile teen-drama, che magari capitano quando è finita da poco la relazione con un partner o quando, per una ragione o per l’altra, sentiamo che ci è appena caduto il mondo addosso. Parliamo di momenti assolutamente ordinari che capitano nel corso dell’anno, in cui sentiamo che abbiamo voglia di qualcosa in grado di smuoverci, e che se anche prendessimo in mano il pad per buttarci in una delle avventure più fighe mai scritte (dal fantastico GDR al gradassissimo sparatutto) finiremmo per non apprezzarle nemmeno.
Sentiamo il bisogno di qualcosa di emotivo, insomma, che sappia farsi giocare come tenendoci per mano. In grado di generare quell’effetto - carezza digitale continua - che una volta posato il pad ti faccia sentire come uscito da una SPA, o meglio ancora da una seduta di psicoterapia in cui hai buttato fuori proprio tutto, e ti senti in pace con il mondo. Riconoscere questi momenti è fondamentale: io ho imparato a farlo dopo un po’ di volte in cui mi trovavo incastrato in giochi meravigliosi, assolutamente in linea con i miei gusti e con il “genere” di gioco che mi andava di giocare in quel momento, ma che sentivo fare a pugni con il mio cervello, in quel momento.
In quei momenti, che io chiamo da “mood Life is Strange”, ho capito che c’è poco da fare. Bisogna staccare e buttarsi su uno di quei rari titoli che può riuscire nell’arduo compito di tappare la falla emotiva. Il problema è che questi titoli, ho scoperto, non sono poi molti: se li ho chiamati da “mood LIS” si può ben capire che la saga “Life is Strange” costituisce l’esempio più calzante per questa tipologia di titoli. Ma (purtroppo) i LIS non sono infiniti e, anzi, escono con una certa rarefazione.
Quindi, quando finiscono, e hai quella voglia matta di un titolo che sappia darti quell’effetto… che fai? Quali sono i giochi che rientrano nel mood LIS? Perché è così difficile individuarli?E perché, soprattutto, la considerazione del gioco, è ancora così legata al genere videoludico visto dalla sua componente ludica (gdr, fps, etc.) rispetto alla tipologia di storia in cui abbiamo voglia di immergerci?
Il perché del mood Life is Strange
Ritorniamo all’origine: i giochi da mood LIS, come anticipavamo, si possono così definire abbastanza intuitivamente perché proprio con LIS hanno trovato una perfetta forma di definizione: il primo capitolo è stato uno dei primi titoli a portare in luce alla grandissima un’esperienza smaccatamente emotiva e introspettiva, capace di andare a toccare in maniera delicata le corde emotive del giocatore, mediante una narrativa sussurrata in punta di piedi, tra cuffie e corridoi di scuola.
Il tipo di gameplay, prettamente sussidiario all’esperienza, consente al gioco di farsi vivere in maniera rilassata, evitando momenti spigolosi che possano andare a ledere quella sensazione di “soft - experience”, che questo genere di titoli ci tiene apertamente a sostenere in tutti i modi. E lo sappiamo, Life is Strange, in questo è maestro: nonostante i cambiamenti di soggetto e le trame più o meno indovinate, quello che è rimasto costante (e che ne continua a decretare il successo) è il suo tratto identitario, che riesce sempre a far arrivare al giocatore quel mood così caldo.
Ci riesce per una serie di elementi amalgamanti benissimo tra loro, dalle righe di dialogo dell’ultimo dei png, alle stesse micro-meccaniche di gameplay che prevedono momenti assolutamente inutili alla prosecuzione narrativa, ma fondamentali per l’experience generale. Momenti in cui perdete quei 30 secondi per far stare il personaggio sul letto ad ascoltate musica, mentre brevi cut-scene iniziano a scorrervi davanti in sequenza ciclica. Ecco, quello è un classico momento LIS. Ma non tanto perché si trova all’interno di LIS stesso; più che altro perché mette il giocatore nell’ottica di esplorare emotivamente il momento ludico, facendo emergere un attimo che diventa un riassunto perfetto della sua poetica e del tipo di esperienza che vuole fornire.
Una situazione di game design che viaggia in controtendenza rispetto all’idea di game design stessa, votata storicamente a guidare il giocatore nell’interazione più o meno libera con il mondo di gioco: qui, invece, gli si chiede di fermarsi e assaporare l’atmosfera, lasciandogli le chiavi in mano per fare accadere qualcosa a cui si potrà arrivare solo con l’aiuto della sua complicità. Creare il “momento di empatia perfetta” con il gioco.
Gli elementi di gameplay sono quindi sicuramente punti cardine che possono permettere a un titolo di rientrare in questa speciale categoria definita dal “mood”, ma nessuno di essi è imprescindibile. Più che pilastri reggenti, si rivelano in realtà strumenti utili a potenziarne un’efficacia che ha la sua origine altrove: non è, ad esempio, la sua componente di gioco estremamente votata allo storytelling che sancisce il bollino da gioco “mood LIS”, tutt’al più risulta un veicolo correttamente utilizzato per arrivare a quel tipo di risultato, ma che potenzialmente potrebbe portare a tutt’altro effetto.
Pensiamo di giocare a Detroit o a Twin Mirror (per giocare nella casa dello stesso sviluppatore): le meccaniche ludiche sarebbe all’incirca simili, ma ci troveremmo insoddisfatti, perché il mood trasmesso dall’opera sarebbe profondamente discorde rispetto a quello di cui eravamo in cerca. L’equilibrio che permette il crearsi di opere di questo tipo, grazie all’amalgama di gameplay, componenti narrative e artistiche, è complesso, e riesce a coinvolgere dentro di sé anche giochi apparentemente molto distanti per vie delle loro meccaniche ludiche, ma che a livello di mood riescono invece a incastrarsi perfettamente in questo piccolo sottogenere che, più che farci pigiare tasti, vuole sussurrare al cuore.
Il limite del genere
Ragionando in termini come questi, la platea di giochi capaci di inserirsi in questo tipo di categoria si è decisamente ampliata, e risulta più semplice trovare eredi capaci di soddisfare la nostra voglia di emotività cristallina. Il limite, la difficoltà, nasceva principalmente da una maniera di catalogare i titoli (e di ricercarli) a cui siamo ormai automaticamente abituati, che privilegia la meccanica ludica rispetto a quella contenutistica. Catalogazione comprensibile, in quanto più diretta ed efficace, ma che in alcune situazioni si trova di fronte a dei limiti invalicabili.
Quante volte vi è capitato di trovarvi di fronte a un vostro amico e, nel consigliargli un gioco, vi siete trovati a dovervi confrontare con risposte simili a “no, io i gdr/action/fps non li gioco”? Quanto è stato difficile arrivare a parlare del contenuto, rispetto agli altri sistemi mediali che non hanno una preponderante componente interattiva? Aprendo la scatola del “mood LIS” ci si trovano infatti dentro potenzialmente moltissime cose, e delle più variegate, titoli di approcci completamente differenti che mi hanno accompagnato con quella stessa delicatezza, di cui non è proprietaria nessuna saga o stile di gioco.
Lost Words: Beyond the Page per esempio (un platform 2D a scorrimento) è stato uno di questi. Con quella sua capacità di trainarti all’interno delle pagine di un libro, grazie al racconto innocente di una bambina che si confronta per la prima volta con il dolore della perdita e che, proprio come LIS, sfrutta la potenza del realismo magico per arrivarti direttamente al cuore. Oppure (allontanandoci ancora di più dal genere delle avventure grafiche 2.0) come non parlare di “Spiritfarer”, che aggiunge delle componenti gestionali importanti a tutta l’economia di gioco. O “Gone Home”, con la sua narrativa emergente, o il mai troppo lodato “What Remains of Edith Finch”, nei suoi momenti più crudi. Insomma, l’elenco potrebbe allungarsi ancora e ancora, perché la carezza di cui siamo in cerca quando cerchiamo i giochi da mood LIS la si può trovare nelle lande di “Syberia” (tanti auguri per i tuoi 20 anni Kate Walker!) sforzando un po’ più l’ingegno, o nella lentezza di una visita alla città di “Lake”.
Alcuni elementi che fanno un po’ da comune denominatore ci sono, sia chiaro (si pensi all’art design non eccessivamente fotografico o le ritmiche di gioco non martellanti), ma siamo certi che anche queste caratteristiche verranno superate da nuove incarnazioni, che consentiranno di inserire in questa stramba categoria anche giochi che ora non immagineremmo nemmeno.
Questa riflessione riteniamo sia importante per andare ad allargare la discussione sul media e fornire uno strumento in più, a critica e pubblico, per arrivare a considerare i titoli svecchiando un po’ certi automatismi storici, che rimangono sicuramente necessari, ma che ora possono trovare nuove maniere per ibridarsi, e dare spazio a un contorno contenutistico che assume ormai rilevanza primaria. Per arrivare a un dialogo meno concentrato sul genere, in senso primariamente ludico, e legato più naturalmente all’esperienza effettiva in tutte le sue altre dimensioni, anche quelle meno oggettive e più “respirabili”.
Il gioco da “mood LIS” è sicuramente il più semplice per lanciare la riflessione, ma siamo sicuri che potrà essere allargata anche ad altre tipologie di opere che si scontrano con differenti corpi videoludici: puoi soddisfare la tua sete di cyberpunk sia con Stray, che con Cyberpunk 2077, ma anche con Transistor.
Come i prodotti filmici stanno arrivando a scavalcare la distinzione fra animazione e live action (e in parte i libri quella che divide audiolibro e cartaceo) forse anche il videogioco deve iniziare a mettere da parte l’interazione, e dare sempre maggiore spazio a tutti quegli elementi che ci consentono di inquadrare un contenuto sulla base di quello che vuole comunicarci, non come ce lo vuole comunicare. Sarà più semplice arrivare a trovare esperienze capaci di arrivare realmente a soddisfare quello di cui siamo in cerca. E noi, fanatici di teen-drama, ringrazieremo quando troveremo in un attimo il nostro nuovo titolo in grado di farci piangere vasche di lacrime cercando su Google, semplicemente, “Gioco- mood - Life is Strange.”