Io le critiche ai giochi come Hellblade e soci non le ho mai capite. E lo dico da non fan del titolo Ninja Theory.
Probabilmente sono io il problema, mi sono sempre detto. Gli annosi temi di longevità, vastità e densità di attività non mi hanno mai visto fra i loro sostenitori. Anche quando a sollevare critiche illustri e poche moderate erano soggetti diversi: “The Order”, per esempio (quanto mi manchi ragazzo mio). Mi sono sempre detto: “ma a me che un gioco duri poco non è che me ne freghi realmente qualcosa”. O che non abbia 600 attività diverse da farti fare. O che l’NPC che si vede una volta in tutto il gioco faccia sempre lo stesso percorso e sembri stupido. Cioè, “leggo” che è un problema, comprendo che effettivamente lo è, si parla sempre un sacco di questi dettagli, i team di sviluppo si scusano, corrono ai ripari, dicono che patcheranno, che investiranno tempo, soldi, risorse per sistemare. Ma io come giocatore non lo percepisco realmente durante la mia esperienza di gioco.
Realmente. In maniera effettiva. Impattante. Ovvero, non ha lo stesso effetto tremendo che avrebbe sentirmi raccontare una storia scritta coi piedi, o un sistema di volo noioso in un gioco dove il volo è la componente centrale (“Anthem” qui si parla di te, e bene per una volta).
Probabilmente sono io che non capisco quest’industria, mi sono sempre detto. E le logiche che devono essere messe a terra per creare un gioco che riesca ad accontentare la nuova generazione di giocatori, che è un pochino viziatella, e ha bisogno di consumare, consumare tanto materiale ludico, in uno stesso titolo, e avere tutto rifinito per bene. Anche quando un titolo punta sulla trama e pertanto dovrebbe avere quella come punto forte. Il resto è naturale che possa anche non esserci o passare in secondo piano. Come se in un film di Ken Loach ci lamentassimo del fatto che mancano gli effetti speciali. Tutto non può essere dappertutto. Ma comunque, è evidente, sono io che non capisco l’industria, ed è giusto che l’industria tenti di soddisfare le richieste che emergono. È un sistema che si autoregola da sempre, d’altronde: domanda e offerta. Da lì non si scappa.
La fine del sistema perfetto
Poi, però, passano gli anni, e vedo cose che vanno in direzioni opposte, e per un tempo reiterato. Segnali di contorno che non mi convincono. Le critiche, per carità, sulla longevità dei giochi e il resto della cricca di robe che per me non valgono nemmeno l’angolo di un pensiero, rimangono le stesse. Tanto è vero che proprio ora, con l’approssimarsi di Hellblade 2, ritornano, sempre uguali a loro stesse, inscalfibili come diamanti. Ma ora, di contorno, a farmi riflettere meglio sulla cosa, c’è un’industria che evidentemente vacilla.
Non è più quella di dieci anni fa, che ti dava l’idea di poter stare dietro davvero a tutto questo cinema, anche se aveva poco senso. Ora gli studi di sviluppo scoppiano, i capitoli di saghe vaste e sconfinate tornano a puntare su situazioni più ridimensionate; il mercato è saturo, ma in continua estensione. I giochi parlano con statistiche che non li vedono mai completati, e fenomeni come lo slow life e lo slow gaming, che vanno a braccetto, diventano il segnale evidente di un’utenza che ormai implora di smetterla di ingolfarla. Anche se, stranamente la eco rimane la medesima. Le analisi sono sempre le stesse, le metriche vanno sempre in direzione punitive verso ciò che potrebbe non bastare per l’utenza, e una parte di utenza si accende e fa chiasso quando alcune cose evidentemente marginali in un titolo non vanno.
Se è vero che domanda e offerta si autoregolano, però, in un mondo iperconnesso dove la notizia che fa più rumore è quella della critica e dello strillo, dobbiamo inserire il terzo elemento della medialità, e delle conseguenze che la medialità comporta: questo terzo fattore, la voce del web, che crea una sorta di realtà parallela, costruita dai pochi a cui piace far chiasso, a cui l’industria ha finito per dare ascolto non rendendosi conto che, dandole retta, la stava conducendo verso un baratro profondo, per dettagli di cui pochi, in realtà, in termini di numeri assoluti, capiscono il senso.
Giochi e mercati drogati
Ho citato The Order in apertura non a caso. Il titolo di punta di Playstation 4 all’epoca è stato vittima di una vera e propria battaglia epocale, che per la prima volta fece implodere su se stessa la bolla di quei giochi che potevano essere visti su YouTube, e dopo su Twich, piuttosto che giocati, data la ridondanza del gameplay e la brevità dell’esperienza. Dall’altra parte del fiume, passano gli anni, e si presentano sul mercato prodotti drogati come un Assassin's Creed: Valhalla qualunque (ma prima di lui abbiamo ben altri esponenti), che a loro volta finiscono per drogare giocatori già costantemente drogati da un’industria che vomita fuori titoli come una mitragliatrice, insieme a nuovi modelli di distribuzione, come Game Pass e soci, anche loro votati a far abbuffare il più possibile chi si siede al tavolo.
Ci aggiungiamo anche i costi esponenziali dello sviluppo e delle tempistiche di produzione, ed ecco servita la ricetta del caos che stiamo vivendo, in mezzo a studi di sviluppo che saltano in aria come petardi al primo passo falso, chi per colpe proprie, chi pagando il fatto di essere finito all’intero di scatole cinesi editoriali troppo complesse per essere anche solo pensate, e ha impostato a monte strategie evidentemente fallimentari.
Un mondo diverso
Strategie che continuano a non tenere conto di analisi ponderate, ma che si rifanno alla voce dell’eco, alla voce del web, e alla rincorsa dei fenomeni di massa, senza razionalizzarle. Non concependo che il tempo è diventato in questi anni una risorsa ben più preziosa del denaro. Un tempo che è frazionato dall’ingigantirsi dell’offerta delle altre forme mediali, che hanno subito lo stesso processo di drogaggio del mondo videoludico, solo con un pizzico di anticipo. Quindi la domanda rimane la stessa. A parte rare eccezioni (ovvero i giochi che fondano il loro modello stesso di esistenza su estensione e attività creativa emergente) cosa ce ne facciamo di giochi così lunghi? Di attività così variegate? Che mercato sarebbe invece, se a dominare, dall’oggi al domani, negli store, fosse un’offerta dominata da titoli che non devono per forza dimostrare di avere cinquemila sfaccettature, ma una singola forte componente dominante, nemmeno così estesa?
Un mondo dove Forspoken non si suicida nel tentare creare un ambiente di gioco gigante e vuoto. O un mondo dove Forspoken rimane quello che è, e sono i giocatori ad essere così ben educati da apprezzarlo per quello che è: un ottimo action, che se tiri dritto per la main quest senza dare retta a quelle attività inutili che ti spuntano fuori, si rivela essere uno splendido racconto di formazione. Un mercato pieno di As Dusk Fall, titolo sviluppato con creatività e ingegno, ottimizzando le risorse, ed è capace di incollarti alla sua trama per il tempo che serve, prima di lasciarti andare verso altro, nello store, a sovvenzionare un’industria più elastica, i cui ricavi sono più equamente distribuiti.
La fine del tempo delle cattedrali
Pare evidente, insomma, che il tempo delle cattedrali stia giungendo al termine, e sia l’ora di oltrepassare la fase di sperperaggio per approdare nel tempo delle più razionalizzate chiese. È tempo che gli studi di sviluppo e i giocatori si accorgano che, per quanto accademicamente interessante, sprecare asset di produzione per animare alla perfezione il personaggio che si vede per letteralmente cinque secondi (e che poi nemmeno tutti vedono) probabilmente non giova a nessuno; se non a quell’eco web che, assecondando questo modello drogato e perfezionista, ha contribuito a creare un mostro senza capo né coda, che non pesa pregi e difetti in maniera coerente, che ora non sa nemmeno più da che parte girarsi quando si trova a vedere prodotti che escono sul mercato senza alcuna direzione o pubblico di riferimento (chi ha detto Suicide Squad: Kill the Justice League?).
O snaturati nell’essenza senza che ve ne fosse un reale motivo (chi ha detto Halo: Infinite ?). Un mercato che vomita prodotti che, se interrogati, razionalmente, non saprebbero rispondere a domande razionali, appunto, come “Perché stai creando quelle subquest?” o “Perché stai utilizzando tempo e risorse per rifinire a più non posso elementi che non hanno alcun peso effettivo sulla capacità del tuo titolo di distinguersi, di coinvolgere o di creare un esperienza di valore per l’utente”? La risposta sarebbe generalmente: perché lo fanno tutti. Ma tutti lo fanno perché lo fanno tutti. E chi ha iniziato allora? Dov’è il capo in tutto questo? Dov’è il senso? Dov’è la risposta? Una risposta che non vale per tutti
Una risposta che non vale per tutti
Probabilmente, qualcuno, quella risposta ce l’aveva davvero. Ma non è pubblica. E soprattutto, non vale per tutti. I modelli di business di queste aziende gigantesche sono imparagonabili, così come i motivi che permettono di prendere la scelta A piuttosto che la B. Ma comunque la voce, il trend, si diffonde, e presto diventa incontrollabile. Gli azionisti pressano. E, chi di dovere, schiaccia i bottoni sbagliati per assecondarli e far salire il titolo. In un attimo tutto è a posto. Ma, come in passaparola fatto male, ormai quel motivo che ha dato origine al passaparola, ha finito per distorcersi, perdersi, passando di bocca in bocca, di voce in voce: da risposta sensata per qualcuno è diventato dogma generale, con il risultato che ora ti ritrovi in un mercato sbilanciato, che segue logiche che non hanno un senso ponderato perché la direzione di tutti è cambiata senza un vero motivo, e tu non puoi nemmeno magari sostenerlo questo ritmo, perché non hai la forza di stare dietro ai trend solo perché lo fanno tutti. Ma lo devi fare. Se no sembri quello che rimane fuori dalla festa. E in un attimo sei lì, anche tu, a sviluppare l’ennesimo gioco live service, perché semplicemente è giusto farlo per assecondare l’onda, non perché riesci a dare delle risposte razionali al “perché lo sto facendo?”
Come per ogni sistema che affronta una crisi, è ormai chiaro che ciò che sarà in grado di riassestarlo non si trova all’interno del sistema stesso. Pertanto, che sia tramite titoli dritti per dritti come Hellblade o fra le intuizioni di Pentiment, essere concisi può essere la risposta momentanea: andare avanti per la propria strada, senza farsi imbastardire da un sistema al collasso, in cui i consigli dell’utenza devono essere ascoltati e messi da parte, così come le richieste che piovono dall’alto dei grossi publisher, che prima ti acquisiscono, poi ti spremono come un’arancia, prima di farti chiudere i battenti. Fino a quando, perlomeno, non apparirà una risposta più chiara e definitiva diamo voce alle meraviglie che ancora si riescono a produrre, concentriamoci sul bello, facciamolo emergere, la responsabilità è anche e soprattutto nostra. Perché il videogioco sia prima di tutto mezzo ludico e artistico: non una mangiatoia, non un allevamento intensivo.
Sosteniamo e “tifiamo”, sì, per chi sa seguire la propria strada. Chi per lanciare una nuova IP mente spudoratamente, dice che svilupperà il prossimo Prince of Persia per fare gola CDA, mentre lavora su una saga da sogno come quella di Assassin’s Creed. Chi sa pensare: chi ha qualcosa da dire.
Anche se, per raccontarcelo, ci butta in un corridoio da percorrere solo in un paio d’ore.