Dopo un primo rinvio a febbraio di quest’anno, l’atteso Empire of Sin è finalmente pronto per essere gustato dagli appassionati, indubbiamente elettrizzati dalla combo rappresentata dallo sviluppo affidato alla Romero Games e dalla produzione targata Paradox.
Romero Games, per i più distratti, è proprio la software house di quel Romero, nome fondamentale nella storia del videogioco, indissolubilmente legato ai franchise di Doom e Wolfenstein, ma in realtà aperto da sempre alla sperimentazione ed all’ecletticismo. Empire of Sin si pone, non ufficialmente è chiaro, come conclusione di questo 2020 particolarmente fertile in materia di gangster game (mi riferisco soprattutto a Mafia 1 e 2).
Alla conquista di Chicago
Il titolo si pone come vero e proprio pot-pourri di generi, con un focus particolare per quel che concerne le fasi di combattimento a turni (in pieno stile X-COM) e la gestione top-down del proprio impero criminale. A questo si aggiunge l’implementazione di un sistema di quest e sub-quest, nonché il micromanagement quasi ruolistico del Boss e dei gangster assoldati, grazie ad un sistema di abilità di combattimento, skill ambientali e oggetti equipaggiabili.
Empire of Sin segue una specie di abbozzo di trama, attanagliato al Boss scelto a inizio campagna, ma sostanzialmente speculare nell’evoluzione. Nonostante l’evidente semplicità della narrazione, basata su alcune vicende inerenti alle “amicizie” ed alla rivalità del Capo Famiglia scelto e della sua volontà di dominare la città di Chicago, il gioco riesce a regalare un mood particolarmente riuscito. Le azioni del giocatore, la sua fama, la sua crescente notorietà, gli scambi al vetriolo tra lui e i diversi PNG, contribuiscono a rendere Empire of Sin un vero e proprio diorama della narrativa gangster americana del proibizionismo.
A livello etico, sebbene sia sconsigliato per un pubblico giovanissimo, il software si pone come una sorta di guardie&ladri, certo violento nella trasposizione visiva (ma d’altronde racconta di tempi storici particolarmente violenti), ma volutamente stereotipato nella riproposizione dei personaggi in gioco. Il risultato, per quel che riguarda l’ambientazione, è forse il pregio maggiore di tutta la produzione, proiettando il giocatore in un primo dopoguerra fatto di speakeasy, moonshine e “tommy-gun”.
Alcol e proiettili
L’abbacinante infiocchettamento del videogame si scontra, però, con un sistema di gioco tanto divertente quanto confuso. Brenda Romero, nelle fasi di lavorazione, ha definito il gameplay come una system soup, definizione sposata all’epoca anche da Eurogamer, in maniera molto più entusiastica di quanto mi senta in dovere di fare nella mia recensione. Effettivamente il gameplay è una vera zuppa di meccaniche, che come ogni zuppa che si rispetti regala un’esperienza gradevole, senza però eccellere in nessun aspetto specifico.
Il primo focus, quello tra l’altro più utilizzato dal giocatore, è il combattimento a turni, preso di peso da X-COM e riadattato alle esigenze del periodo storico considerato. Ad una complessiva sufficienza di armi, abilità ed oggetti (nulla di eccezionale, sia chiaro), si accompagna una certa semplicità di esecuzione. Il motivo è da riscontrare principalmente nella semplicità degli ambienti - che certo non fanno nulla per raggiungere le vette di sistemi analoghi, penso solo ai lavori dei Larian Studios - ed in una sfida raramente impegnativa per il giocatore. A questo si aggiunge la necessità di combattere costantemente per conquistare edifici, con una reiterazione eccessiva e monotona. Segnalo, per completezza, che successivamente a questo mio scritto verrà rilasciata una patch molto promettente lato IA, la quale potrebbe sicuramente aumentare il grado di sfida, pur certo non rivoluzionandone il sistema.
Il lato manageriale non brilla a sua volta, pur restituendo un’esperienza indubbiamente più soddisfacente. Il sistema gira attorno al controllo degli edifici, sparsi in una mappa controllabile sia in maniera top-down, che isometricamente con camera dedicata ai PG. Un accorgimento importante, data la necessità sia di muoversi tra le strade dei quartieri di Chicago (ottenendo missioni secondarie, attaccando i nemici, conquistando gli immobili), sia di avere un quadro generale delle zone di potere e del proprio impero criminale. Una volta ottenuto un edificio si deve sceglierne la funzione, che si fonda principalmente sulla necessità di distillare e rivendere alcolici (pur non mancando i bordelli e gli hotel).
Ad una iniziale complessità, però, si alterna un sistema abbastanza semplice da padroneggiare, basato più sul controllo “militare” e diplomatico delle zone di potere (tenendo a bada la polizia o le gang rivali) che su una vera gestione economica. I soldi, infatti, entrano nelle casse in maniera quasi automatica e la facilità con cui si vincono gli scontri rappresenta un paracadute notevole nel caso in cui si rimanga al verde. Infine, il sistema di micromanagement à la GDR si pone come piacevole diversivo, ma nulla più.
Voglio però essere chiaro: presi singolarmente questi aspetti potrebbero non essere sufficienti, ma nella sinergia complessiva del titolo il risultato è nettamente più gradevole, rimanendo però il maggior pregio di Empire of Sin proprio la sua eterogeneità di genere che la qualità del singolo aspetto.
Tecnicamente il videogioco presenta una grafica accattivante, musiche perfettamente in linea con il mood ed una cura certosina nella rappresentazione visuale della UI e dei menù. Anche le animazioni di gioco si mostrano come gradevoli e adeguate. Il complesso non è strabiliante, ma non è certo necessario nell’ottica dell’esperienza che intende offrire il titolo. I bug, va detto, sono stati numerosi. Nulla che mi abbia fatto urlare di rabbia, inoltre la patch sopra menzionata dovrebbe intervenire anche in tal senso, probabilmente migliorando sensibilmente la fruizione del gioco.