Avvisaglie di una risalita da parte di Capcom si sono avute già in tempi non sospetti nel 2017 con Resident Evil VII, al quale sono lentamente susseguiti diversi porting che hanno sì sfruttato l'onda di Nintendo Switch ma al contempo preparato i fan per uno fra gli annunci più attesi degli ultimi anni: Resident Evil 2 è tornato in splendida forma, come potete leggere nella nostra recensione, pronto a gettare le basi per quello che si potrebbe ipotizzare un reboot della serie. Nonostante l'accoglienza piuttosto tiepida di una HD Collection che, va detto, è stata un'operazione molto pigra di riportare su PlayStation 4 la tetralogia già presente su PlayStation 3, anche Devil May Cry 5 pareva pronto a un rilancio di tutto rispetto; l'accoglienza riservata al suo annuncio durante l'E3 2018, se non altro, tanto diceva dell'attesa in cui hanno macerato i fan - traditi da quello spin-off del 2013 troppo ingiustamente infamato.
Il potenziale latente di un reboot nel vero senso del termine, un po' come quello nei confronti di Lara Croft, non ha trovato il consenso popolare probabilmente in virtù della solita legge non scritta che ha oscillato come una spada di Damocle anche sulla testa di Resident Evil: la presa di posizione da parte degli appassionati di vecchia data secondo cui una serie che ha fatto, a modo suo, la storia videoludica non debba essere soggetta a ritocchi destinati a fare più di un semplice upgrade grafico o strutturale - e persino in questo caso si può aprire una lunga discussione, sebbene sia un peso percepito più da Resident Evil e il suo abbandono della telecamera fissa.
Sperimentare e osare è da sempre nelle corde di Capcom, ed è anche la chiave del suo successo: buttarsi là dove sarebbe preferibile l'amnio sicuro di scelte comode, consolidate nel tempo e nella mente dei giocatori, ma se con Resident Evil si è riusciti a "perdonarglielo" (in realtà andrebbero solo fatti plausi al suo coraggio), Devil May Cry non ha avuto la stessa fortuna: forse perché nel primo caso, di cui peraltro il gioco di Kamiya doveva essere un nuovo capitolo, siamo di fronte a una storia corale con più protagonisti mentre Dante è l'unico e indiscusso protagonista che si è sedimentato nella mente del pubblico secondo un dato immaginario, e stravolgerlo avrebbe significato quel tradimento poi percepito da molti.
Ad ogni modo Devil May Cry 5 torna alle origini con una ricetta i cui ingredienti sono tutto ciò che un fan potrebbe desiderare: Azione, Avventura, Atette (grazie Leo Ortolani). D'accordo, forse non è esattamente così perché il focus è più sui ragazzoni della serie, ma anche l'occhio vuole la sua parte quindi Lady e Trish fanno lo stesso la loro comparsa. Nella nostra più recente anteprima ci siamo mostrati entusiasti verso un gioco dal potenziale enorme, un sentimento che non è venuto meno a fronte dell'esperienza completa ma si è sorprendentemente affievolito rispetto alle aspettative iniziali: come sempre quando ci si trova davanti il quadro finito, è più semplice notarne le sbavature e Devil May Cry 5 ne ha più di quanto avessimo previsto. La maggior parte di queste, peraltro, è figlia esattamente della volontà di tornare sui propri passi e rendere il DMC del 2013 solo un puntino nero nella storia - una macchia che però ne esce più luminosa perché demarca la volontà di osare, laddove Devil May Cry 5 si limita ad accontentare.
Ecco, se dovessimo scegliere un termine per descrivere questo nuovo capitolo useremmo "contentino": indubbiamente ben confezionato e con guizzi che - per usare un'iperbole - ci hanno fatto strillare come una ragazzina di fronte alla sua boy band preferita, ma pur sempre tale una volta che si sbircia dietro la sua patina di ostentata bellezza e su quanto la vecchiaia abbia fatto bene a Dante. Spiace scoprirsi a usare queste parole perché insomma, è stato Devil May Cry a insegnarci che se vuoi prendere a calci demoni la prima cosa da imparare è avere stile, ma siamo altresì convinti che ci sia da parte di Itsuno una profonda consapevolezza dietro tutto questo; o forse è un'interpretazione personale senza fondamento. Sembra quasi che, nel dare al fan consolidato tutto e anche troppo, il director abbia voluto sottolineare con forza che cosa sia stato davvero DMC del 2013 - ovvero l'espressione di quel coraggio che permette a Capcom di ribaltare le carte in tavola e comunque tirare fuori un gioiello da un diamante grezzo. Dopo questa lunga premessa vorrete sapere le ragioni di una posizione tanto critica: detto fatto.
Non staremo ad annoiarvi con un riassunto dettagliato di una trama che ormai conoscerete a memoria: l'albero demoniaco Qliphoth ha piantato radici nella città di Red Grave ma gli eventi del gioco si sono messi in moto prima di questa inquietante presenza, quando uno sconosciuto incappucciato ha strappato a Nero il Devil Bringer - che, lo ricordiamo, aveva assorbito la spada Yamato alla fine di Devil May Cry 4. Mosso dal desiderio di vendetta, Nero raggiunge Dante nel cuore di Qliphoth: il leggendario cacciatore di demoni è stato assoldato dal misterioso V affinché recuperasse qualcosa all'interno dell'albero, ma il demone che li aspetta va oltre la loro immaginazione. Ferito e con la Rebellion in frantumi, di Dante si perdono le tracce assieme a Lady e Trish, mentre Nero riesce a salvarsi: ricade dunque su di lui il peso di sconfiggere il re dei demoni e preservare quanto resta di Red Grave, aiutato da V i cui scopi restano imperscrutabili.
L'intreccio narrativo di Devil May Cry 5 è piuttosto prevedibile, andando ad appoggiarsi sul concetto di famiglia disfunzionale e rivalità fraterna che da sempre sono i punti cardine della serie, tuttavia la suddivisione in tre percorsi interconnessi concorre a mantenere viva la curiosità sebbene a tenere banco sia ancora una volta V. Abbiamo però particolarmente apprezzato la caratterizzazione di Dante, la cui maturità non si riflette solo nell'aspetto: è un uomo consumato dalla vita che ha scelto, incapace di abbandonare quegli unici aspetti che la rendono piena - la lotta e la famiglia - ma al contempo in grado di capire che può permettersi di rallentare la corsa, che qualcun altro è pronto a prendere il suo posto. Il suo relazionarsi con Nero, la volontà di nascondergli verità scomode per proteggerlo (e da un lato, forse, perché lo riguardano molto più del ragazzo), ci mostrano un personaggio dalla spacconeria persistente ma smussata agli angoli: un soldato sgualcito da una vita che non gli ha concesso alcuno sconto, mai domo eppure al contempo stanco, intenzionato a mettere fine a una guerra che dura da troppo. Sotto questo profilo, Itsuno e il suo team offrono probabilmente il Dante migliore della serie.
V rimane però l'elemento più di spicco, anche e soprattutto sotto il profilo del gameplay: laddove Nero si dimostra piuttosto sperimentale grazie all'implementazione del Devil Breaker e alla quantità di prototipi disponibili, che influiscono molto sulla varietà e l'approccio agli scontri, mentre Dante si conquista l'indiscussa posizione di maestro del combattimento con i suoi quattro stili, le diverse armi a disposizione e una conseguente stratificazione tutta da esplorare e mettere alla prova, V aggiunge qualcosa di completamente inedito alla serie. La strategia.
Professatosi cacciatore di demoni ma privo di una propria capacità combattiva, questo misterioso evocatore si affida a tre demoni perché facciano il lavoro sporco per lui - riservandosi però il colpo di grazie finale, visibile su schermo data la decolorazione dei nemici quando subiscono abbastanza danni. Shadow e Griffon agiscono sempre in coppia, a ciascuno è demandanto uno specifico pulsante per l'attacco, e godono di una serie di abilità che sbloccate e combinate assieme li rendono inarrestabili. Shadow predilige gli attacchi a distanza ravvicinata, mentre Griffon si occupa di tenersi a distanza e bersagliare i nemici principalmente con attacchi elettrici, ma bisogna trovare la giusta sinergia affinché i danni inflitti siano sensibili e continuativi. Oltre a essere però l'unico mezzo offensivo per V, sono anche la sua unica difesa e come tali vanno salvaguardati: essere demoni non impedisce loro di finire fuori combattimento e qualora dovesse succedere, possiamo solo aspettare la loro ripresa mettendoci in salvo al nostro meglio.
Se tuttavia abbiamo conservato abbastanza Devil Trigger possiamo avvalerci del nostro asso nella manica, il colosso Nightmare: il suo devastante arrivo sul campo non solo spazza via i nemici sulla traiettoria ma ripristina all'istante la salute di Shadow e Griffin, mettendo in gioco un trio dal quale non c'è scampo. Le dimensioni e la forza di Nightmare sono compensate da una comprensibile lentezza e dall'impossibilità di controllarne le azioni, a patto di non sbloccare l'abilità che ci permette di salirgli in groppa e guidarlo personalmente - il tutto potendo continuare a gestire anche Shadow e Griffin. Sotto questo aspetto, il gameplay di V risulta incredibilmente fluido e completo, con ogni comando al suo posto. I connotati strategici di un simile combat system, che ci costringe a stare nelle retrovie e avere una visione d'insieme della scena per capire come muoversi, è qualcosa di insolito in un Devil May Cry ma non per questo meno piacevole, anzi: è ciò che lo distingue dall'essere un more of the same, la sua ancora.
A pesare molto sull'economia del gioco è il suo comparto artistico e strutturale: nulla da dire per quanto riguarda la grafica, spettacolare a vedersi, ma quando si va a vedere il bestiario offerto ci si trova di un fronte a un art design piuttosto rinunciatario, con creature fin troppo simili tra loro (vale anche per alcuni boss, mentre altri spiccano per originalità) che non riescono in nessun modo a distinguersi. Nonostante gli apprezzati riferimenti alla mitologia greca e non, si nota una certa pigrizia nella proposizione di mostri sì grotteschi ma che sembrano essere i derivati di una qualche infezione o mutazione genetica, anziché far parte di una supposta schiera demoniaca. Di nuovo, se dobbiamo scontrarci con l'originalità - anche a fronte di un'ambientazione simil orwelliana nel concetto - di DMC, quest'ultimo ne esce vincitore.
In tutto ciò però il cruccio maggiore è la povertà del level design, con ambientazioni anonime e spesso riciclate soprattutto dalla seconda metà del gioco in avanti, quando le vicende si concentrano attorno a Qliphoth: si assiste a una riproposizione di livelli/arena che sembrano denotare una certa fretta di chiudere la questione. Una sensazione che traspare poi dalla stessa narrazione nelle fasi finali seguenti il colpo di scena ultimo della storia. Le missioni sono tante, persino troppe se si pensa a questa ripetitività di fondo, e l'aver messo a disposizione tutti e tre i personaggi entro la prima metà rende la seconda parte un trascinarsi quasi obbligato verso la conclusione, spinti più dalla curiosità per la trama che dal piacere vero e proprio di giocare.
Ciò non toglie a Devil May Cry 5 quell'esagerata estrosità mista a tamarraggine che da sempre lo caratterizza e ce lo rende caro: l'azione concitata, sopra le righe e che non perde un grammo della sua fluidità nemmeno nelle situazioni più caotiche, unita a un gameplay profondamente stratificato e all'introduzione di un personaggio che arricchisce un combat system fino a oggi basato sull'offensiva a testa bassa, tutto questo lascia un po' l'amaro in bocca di fronte a ciò che il gioco avrebbe potuto rappresentare e - scottato dalla precedente esperienza - ha deciso di non essere. Vi piacerà, come in fondo è piaciuto anche a noi e lo dimostra il voto in calce a questa recensione, ma non si può pensare che sia un'occasione sfruttata solo in parte.