Un tempo, secondo Hideo Kojima, ci fu una grande esplosione che cambiò le sorti del mondo e ne rallentò l'evoluzione. Mentre gli Stati Uniti crollavano, nel panorama videoludico arrivò Death Stranding, un’opera visionaria che si è dimostrata ben più di un viaggio alla scoperta di noi stessi ma una prova d’amore che ci ha dato dato modo per comprendere appieno cosa lega un essere umano all’altro.
D’altronde, nulla è più potente di un futuro ricco di incognite. Il nostro pare già segnato sull’etichetta, con la data di scadenza di cui vi abbiamo già parlato qualche settimana fa con Stray, il celeberrimo videogioco pubblicato da Annapurna Interactive dove abbiamo impersonato i panni di una gattina alla ricerca di un suo spazio nel trambusto senza fine che chiamiamo mondo. E come spesso accade, questo mondo ci dimostra quanto sia brutto e inospitale, specie nei videogiochi che parlano di noi come una specie estinta e superata, ormai condannata all’oblio. Se in Stray lo avvertiamo passo dopo passo entrando in contatto con gli Oltraggiosi, in Death Stranding lo capiamo mentre sentiamo il nostro respiro farsi fiacco e pesante a causa di un grosso carico mentre stiamo cercando di tenerlo stabile, non immaginando né cosa stiamo traportando, né a chi potrebbe essere utile. Sappiamo solo che, in un modo o nell’altro, potrebbe aiutare qualcuno a sopravvivere.
Nel corso degli anni abbiamo chiamato Death Stranding nei modi più originali e divertenti: uno in particolare, rimasto nel cuore di tanti giocatori, è “Bartolini Simulator”, una battuta ironica per indicare le attività che compiamo nel nostro viaggio all’interno del videogioco di Hideo Kojima. Sam Porter Bridges non è un eroe, un combattente, un uomo che usa armi di ogni genere o balza da una parte all’altra. È uno di noi, nonostante a impersonarlo ci sia un certo Norman Reedus, la nuova stella di The Walking Dead da quando Rick Grimes è scomparso nel nulla a bordo di un aereo, andando chissà dove. Ma Sam Porter Bridges oltre a essere un sopravvissuto come ce ne sono tanti, è un corriere che porta materiali di costruzioni, oggetti e cibo a chiunque ne abbia bisogno.
È anche, per chi non lo conoscesse, un uomo silenzioso e solitario, che preferisce la presenza di poche persone, pensando agli affari e alla sua prosperità, perché tanto ormai non è rimasto più nulla ed è meglio passare la propria esistenza viaggiando, magari sentendosi addirittura fuori posto. Ma almeno non si è morti, ed è già un grande risultato. Il mondo, che è stato colpito non da una ma da un numero incalcolabile di esplosioni, è ormai sotto il controllo di forze ultraterrene chiamate CA, ovvero le creature arenate rimaste su spiagge oniriche e incolori tra la vita e la morte, senza la speranza di ascendere in Paradiso, e neppure di finire tra le fiamme dell’Inferno. A legarle al mondo è un cordone ombelicale fumoso simile a un’ombra oscura per nulla incoraggiante. Già questo potrebbe essere affascinante per chiunque stia cercando un’opera travolgente e diversificata, capace di entusiasmare e lasciare di stucco. Possiamo già dirvi che, superando le cinque ore introduttive al mondo di Death Stranding, ci si accorge quanto lavoro ci sia dietro. E le cinque ore di cui vi parliamo con tanta nostalgia, infatti, sono delle lunghe cutscene che spiegano cosa sta accadendo e come è iniziato il viaggio di Sam Porter Bridges.
Inevitabilmente, ci lasciamo andare a domanda esistenziali di qualunque genere. In che modo la connessione tra gli esseri viventi può rappresentare una ghiotta occasione per ritrovarci? Come può un uomo vivere da solo, mentre attorno a sé c’è una tranquilla ma spaventosa desolazione? E ancora, in che modo il mondo cambia e migliora, se effettivamente cambia e migliora una volta che portiamo a compimento una consegna? La profondità dello stile di Hideo Kojima, di cui abbiamo già parlato a lungo, è in realtà quanto di meglio ci possa essere all’interno del medium.
In Death Stranding si fa esattamente questo, ma non nella misura che immaginiamo: l’approccio è diverso ed originale, profondo e unico allo stesso tempo. Camminare non diventa un’azione scontata: dopo aver imparato a dire “Mamma” o “Papà”, abbiamo appreso a camminare, e in Death Stranding si fa questo, volente o nolente, perché è così che è stato scritto e strutturato. È un’allegoria, ma non potevamo aspettarci altro da un videogioco di Hideo Kojima. C’è la libertà di un autore che, in barba alle regole del mercato, ha deciso di spingere il piede sull’acceleratore dell’originalità a modo suo. Cosa, può anche non piacere?
Certo, succede: nella lettura come nel cinema e, in una misura ancora più estesa, nel panorama videoludico. Poi esiste l’oggettività, il fatto che viaggiare in Death Stranding diventa ben più da un andare a un punto A alla zona B, seguendo una linea retta o perpendicolare che decidiamo quando plasmiamo la mappa di gioco. È il viaggio a contare più della metà, diceva qualcuno. Death Stranding prende da questo aforisma solo gli elementi migliori.
Il viaggio nel Death Stranding
Come Sam abbiamo camminato e affrontato pericoli di ogni genere. Abbiamo edificato ponti, pensando al prossimo e liberandoci dell’unico reale peso che ci attanagliava: la paura. Ma prima che il suo viaggio si concludesse, ci siamo interfacciati con strade perigliose e intricate, viaggiando da una parte all’altra di cosa restava degli Stati Uniti con la speranza di connettere chiunque alla Rete Chirale.
Mentre trasportavamo carichi di ogni genere a bordo delle vetture presenti nel gioco, resistevamo alla Cronopioggia e alla sua furia, augurandoci di non perire a causa di essa. C’era però altro che si celava nella nebbia e attraverso la pece generata dalle Creature Arenate: era il timore di non compiere un incarico e di spaventare BB. Lo abbiamo cullato, calmato e accudito, mentre continuavamo il nostro viaggio, incuranti di cosa potessimo trovare lungo il cammino, tra incognite e segreti che non eravamo pronti a svelare.
Sapevamo, però, come preparare un viaggio, evitando pareti rocciose, laghi e fiumiciattoli. Partivamo per il viaggio con una scaletta, una corda d’arrampicata e qualche energy drink per riempire la barra del vigore. Poi si partiva, non ci si voltava indietro, si pensava solo al viaggio e alla meta che avevamo scelto, augurandoci di non tardare. Anche se magari non era un incarico a tempo, temevamo di perdere valigette lungo il percorso, condannando così le persone che chiedevano il nostro aiuto.
In molte occasioni abbiamo parlato di viaggi e sensazioni. Death Stranding è un videogioco che spiega all’umanità quanto sia importante compierne uno, spingendoci ben oltre i punti che segniamo sulla mappa per non perderci. C’è un viaggio da approcciare in maniera coscienziosa, l’unico che ripetiamo all’infinito e che Hideo Kojima ci racconta e tratta di un elemento trascendentale nei suoi videogiochi: la consapevolezza.
Oltre a colpire nel segno il giocatore, mette Sam nella condizione di dover essere ben più di un corriere che si spinge da una parte all’altra della mappa, come se il mondo non lo riguardasse. Eppure, è proprio lui che, in un modo o nell’altro, viene chiamato per preservarlo e proteggerlo, oltre che connetterlo. Ed è questa, appunto, la tematica più cara a Hideo Kojima: la connessione tra gli esseri viventi.
In un momento tragico, ci siamo resi conto quanto essere connessi con il mondo sia utile per non perdere tracce di esso. Restare in contatto diventa dunque più magico e ogni scambio rafforza i rapporti umani. È tramite quegli oggetti che noi ci connettiamo tra gli altri, come se li barattassimo per un po’ di compagnia. Lo comprendiamo grazie al multiplayer asincrono, una caratteristica presente nel game design delle produzioni di FromSoftware, un’implementazione importante e vitale per videogiochi di questo calibro, più incentrati a lasciare il segno in maniera significativa che a spingere il giocatore verso il solo divertimento.
Nel caso di Death Stranding, questa aggiunta rappresenta una componente fondamentale all’interno della produzione, strutturata in maniera tale che ogni giocatore possa collaborare l’uno con altro attraverso i gesti più semplici e inaspettati, quelli che fanno sempre piacere, come collegare una riva all’altra con una scaletta o un ponte, mentre si saluta altri Sam Porter Bridges. Noi siamo Sam, d’altronde: siamo dei corrieri in un mondo post-apocalittico che resiste a fatica mentre la Cronopioggia deteriora la pelle di chiunque non sia adeguatamente coperto per resisterle.
Una sola goccia invecchia chi viene in colpito, e non importa in che modo. Fragile, interpretata per l’occasione da Léa Seydoux, ha il corpo ricoperto di escoriazioni e rughe proprio a causa del fenomeno atmosferico inventato da Hideo Kojima. È un messaggio forte e potente che si riferisce a come stia invecchiando il nostro pianeta senza di noi, e come esso sia cambiato dopo tutte le esplosioni scatenate dall’uomo.
Death Stranding è infatti la più grande allegoria moderna che potremmo vivere attraverso un medium differente, come è accaduto con i film o i libri in passato, ma in un modo totalmente diverso. Parte dell’interazione di Death Stranding, infatti, prevede di farci camminare a lungo, dandoci il duro compito di sistemare un carico, farlo arrivare a destinazione, di sopravvivere, plasmare il terreno a nostro piacimento e viaggiare verso l’ignoto alla ricerca di una speranza remota e dimenticata, augurandoci di trovare durante il percorso qualcosa di ben più definito di un momento da vivere.
Tutto assume un significato profondo e commovente, capace di esaltare la vita in ogni sua sfumatura, dandoci così modo di vivere una delle più grandi esperienze videoludiche degli ultimi quarant’anni. Camminare diventa una meccanica essenziale per il nostro viaggio, come prepararsi a dovere per affrontarlo. Là fuori ci sono minacce ben più grandi dei Muli o delle Creature Arenate; ci sono esistenze che fanno di tutto per rendere il mondo ancora più complesso da sopportare e approcciare, uomini e donne spinti dalla sete di potere.
L’umanità, d’altronde, non cambia mai: in momenti simili peggiora e diventa spietata, non dimostrando più compassione e amore, e lo abbiamo notato a nostre spese durante lo svolgimento della trama principale di Death Stranding. Non facendo spoiler, sappiate soltanto che non tutti sono disposti ad aiutare il prossimo, dandogli sollievo e sostegno.
La morale di Death Stranding: come Death Stranding racconta un nuovo inizio
Tra le tante opere del medium, Death Stranding è sicuramente una delle più autoriali. Pur essendo un termine abusato, lo riteniamo azzeccato: va oltre cosa intende raccontare il suo autore e riconferma nuovamente il talento di Hideo Kojima, che dopo lo strappo con Konami ha scelto di intraprendere una strada diversa. Come nasce, però, un videogioco come Death Stranding? E perché scegliere di raccontare l’umanità in un modo totalmente opposto? E come viene raccontata la paternità? La vita di Hideo Kojima non è stata sicuramente rose e fiori dopo la perdita del padre, che ha visto letteralmente morire. Ha vissuto nel silenzio, si è chiuso in sé stesso e ha cominciato poi a immaginare storie per rifugiarsi in mondi lontani e in realtà alternative.
In Death Stranding questo legame viene raccontato in due modi diversi: attraverso Sam che si prende cura di BB dal loro primo incontro, e ben prima da Cliff Unger (Mads Mikkelsen), un personaggio importante ai fini della trama principale dell’esperienza. La paternità non sicuramente qualcosa che ti aspetti, e infatti il nostro protagonista la scopre man mano che avanza nel racconto. Al contrario, Cliff invece la desidera: in una vita passata era un uomo tutto d’un pezzo, un padre e un marito esemplare, che però ha perso ben più di un’occasione.
Una delle tante morali all’interno della produzione di Hideo Kojima è propria questa: il racconto si esprime attraverso dei metodi narrativi classica ma comunque profondi. Spiega la natura dell’uomo nella sua complessità, mettendo nero su bianco cosa accade quando perdiamo qualcuno. Ed è, se ci pensiamo, uno di quei casi in cui la sofferenza di un autore si trasforma nella sua principale forza.
È innegabile che Hideo Kojima, durante la stesura di Death Stranding, abbia attinto dal suo percorso esistenziale, e non è la prima volta, perché rapporti simili sono all’ordine del giorno. I legami paterni e materni non sono esclusivi e, nel caso di BB, il rapporto con Sam si rafforza nel tempo. Di Sam abbiamo parlato spesso, ma il vero co-protagonista delle vicende è soprattutto BB, che noi sentiamo piangere quando le Creature Arenate compaiono all’improvviso, pronti a privarci della vita. E allora lo calmiamo, gli sussurriamo che tutto andrà bene e che non c’è alcun pericolo, perché ci siamo noi a proteggerlo. Questo rapporto tra Sam e BB ha una logica dietro che ci mette nella condizione di approcciarci agli altri in maniera più umana e sensibile.
In definitiva, Death Stranding è un’opera empatica, trascinante e coinvolgente, capace di esaltare quei sentimenti umani che non tutti assorbiscono nel modo giusto. Opere di questo calibro, in tal senso, hanno un’origine ben più profonda e radicata nel tempo: Hideo Kojima aveva un rapporto forte con il padre, tanto che ricorda ancora la loro ultima conversazione.
Pensiamo che questa storia, in un modo o nell’altro, abbia contribuito alla creazione di Death Stranding come di tutti gli altri videogiochi sviluppati da Hideo Kojima. Ed è una storia commovente, unica, molto più profonda di quanto potremmo immaginare, noi che le avventure le viviamo in prima persona andando ben oltre il nostro medium preferito.
Lo sbarco su PC GamePass: l’occasione giusta per godere di un’esperienza unica
Death Stranding è in arrivo su PC GamePass. Solo su PC, non su Series X o Series S, come in molti si auguravano. Una decisione che ci ha sorpreso e colpito al tempo stesso. Chi usufruisce dell’ecosistema Microsoft, ormai non può più fare a meno del suo servizio in abbonamento, divenuto un faro per molti giocatori che vogliono godersi le esperienze senza spendere troppo, esplorando non soltanto videogiochi blasonati come Halo ma anche opere indipendenti.
Death Stranding su PC GamePass ci dà un grande segnale per il futuro e allontana, si spera, le polemiche sulla console war e le sue dinamiche ormai, nel 2022, hanno cominciato a stuccare. Questo approdo ci porta a domandarci quante altre opere sviluppate per PlayStation e portate su PC potrebbero arrivare sul servizio in abbonamento della casa di Redmond, che ormai si sta assicurando il futuro grazie al suo ecosistema sempre più forte. Death Stranding potrebbe essere solo il primo videogioco a unirsi al catalogo di GamePass su PC: ci potrebbe essere la volontà di aggiungerne altri, in modo da offrire ai giocatori ulteriori esperienze? Chissà. Questa è solo un’ipotesi, ma considerando le circostanze, in futuro potrebbe concretizzarsi. Death Stranding vi attende.