Davvero non ricordo cosa mi portò, più di vent'anni fa, a giocare al primo Harvest Moon, per SNES. Ero allora ancora in una fase di totale scoperta dei videogiochi, forse in quella che maggiormente mi ha formato come giocatore e come appassionato: il tempo della console 16 bit, entrata in casa mia a metà anni novanta, era già passato, io invece non ero passato a quella che gli era succeduta, Nintendo 64, e a GameCube mancava ancora qualche anno. In quel periodo, piuttosto, mi concentrai molto sui giochi PC e sul recupero, con metodi ormai caduti in prescrizione ma che comunque non mi sento ancora di confessare apertamente, di un bel po' di giochi per SNES, appunto. Ero già un retrogamer, di fatto, appassionato soprattutto di JRPG e innamorato dell'estetica bidimensionale, di quegli sprite così colorati e dettagliati, affascinato dal modo in cui così pochi pixel potessero rendere personaggi e ambientazioni lo stesso bellissimi. Forse m'imbattei in un'immagine del gioco e venni catturato dalla deliziosa rappresentazione della natura, figlia di una direzione artistica e di una tecnica ancora oggi pregevoli: fatto sta, che decisi di provare il primo capitolo di una serie che allora mi era sconosciuta. Ne fui avvinto.
Dopo i miei, genitori, per ovvi motivi, il mio professore di italiano e latino alle superiori, che accese il mio amore per la scrittura e mi diede fiducia nei miei mezzi, è stata forse proprio Yasuhiro Wada, il padre di Harvest Moon, la persona più importante nella mia formazione come persona. Attraverso le sue opere, perché chiaramente dopo il capitolo per SNES praticamente non me ne sono perso più uno, fino al cambio di nome in Story of Seasons (i due più recenti li ho, ahimé, saltati) mi ha fatto capire quale fosse la mia idea del vivere serenamente e gioiosamente e di cosa avessi realmente bisogno. Credo fossero valori e sentimenti già radicati in me, da qualche parte, ma che vennero fuori in maniera così percepibile proprio con il primo Harvest Moon, molto di più di una simulazione di vita nella quale coltivare la terra e accudire gli animali. È un'opera che insegna a godere delle piccole cose, a non affrettare nulla, a capire che c'è un tempo per ogni cosa; che il lavoro è importante, ma lo è ugualmente avere dei momenti di rilassata socialità; che bisogna voler bene alle persone e che all'interno di una comunità solida e solidale si percepisce di avere un ruolo.
Ogni Harvest Moon, ma in special modo quelli più classici, ovvero il capitolo per SNES, Harvest Moon 64, Back to Nature e Magical Melody (forse in assoluto il punto più alto della serie), è permeato da questi piccoli, grandi insegnamenti; è una rappresentazione ideale, ma non per questo utopistica, anzi del tutto possibile, di un tipo di società diverso da quella nella quale la stragrande maggioranza di noi è costretta; propone un sistema di valori del tutto in antitesi con quello moderno, scegliendo la sostanza e non l'apparire, la solidarietà e non l'ambizione, la serenità e non la frenesia. Io a quella visione del mondo mi ancorai, nel pieno dell'adolescenza, e non l'ho mai più mollata: ancora oggi, sogno di vivere in un posto bellissimo, immerso nella natura, di poter lavorare senza patimenti, di essere circondato di persone, nella famiglia e anche fuori, con le quali condividere piccoli e grandi momenti, di far parte di una comunità alla quale dare qualcosa e dalla quale sentirsi protetto nel momento del bisogno.
Non è l'escapismo del “mollo il lavoro in ufficio e vado a fare il pastore in alta montagna”, ma la ricerca della dimensione ideale nella quale vivere, che per me è quella che sì, mi ha insegnato Harvest Moon: la serenità e il calore che ricavavo dal piantare semi, dall'innaffiare le piante, dal dare da mangiare agli animali, dal raccogliere la legna e le pietre necessarie per qualche lavoro, dal fare una passeggiata nel villaggio o nel bosco, dal regalare qualcosa agli abitanti del borgo, non era figlia solo di affascinanti meccaniche ludiche, ma soprattutto della capacità di raccontare con quei gesti un modo di vivere diverso, sereno e sostenibile. Una visione del mondo e della vita della quale la serie fu precorritrice (il primo capitolo è del 1996!), e che negli ultimi anni è stata condivisa da altre produzioni, anche di differente genere, ma basate su quel sentire. Con un successo che fa capire quanto l'anelito verso dinamiche, ritmi e spazi diversi da quelli ai quali siamo ormai abituati come esseri sociali sia sempre più forte.
Sappiamo tutti come Animal Crossing: New Horizons sia stato per milioni di giocatori un'ancora alla quale aggrapparsi nei tempi bui della quarantena più dura (e nel nostro speciale abbiamo provato a spiegarvi il perché): tirando l'amo della propria canna da pesca in acqua, piantando alberi da frutto, creando oggetti di ogni tipo, interagendo con i bislacchi abitanti dell'isola costoro hanno potuto trovare un conforto, immergendosi nella tranquilla quotidianità di una vita fittizia, ma non per questo poco significativa. Ed è da lì che viene il successo della serie di Nintendo, che negli anni ha interpretato in una maniera tutta sua, infusa di quella unicità che è propria della compagnia giapponese, più o meno le stesse idee alla base di Harvest Moon: vivere lentamente, sereni e in comunità.
È vero che c'era, stavolta, una forte componente di escapismo, da un mondo esterno che non avevamo mai conosciuto e che non sapevamo se e quando sarebbe tornato quello di prima; la simulazione di vita di New Horizons era un filo per rimanere legati a un prima forse idealizzato, ma sicuramente molto migliore di quel presente. Ma il cuore di esperienze simili non risiede semplicemente nelle attività che propongono, nel fare cose (nel caso specifico cose che in tempo di pandemia non si potevano fare), quanto nel rappresentare attraverso esse una certa concezione della vita e del mondo.
Ci se ne accorge quando manca quel sentire alla base, quella visione che rende l'esperienza davvero significativa: per quanto sia curato e pieno di cose da fare un My Time at Portia è diverso dai titoli citati o da uno Stardew Valley, per dirne un altro (e non a caso il creatore di quest'ultimo, Eric Barone, ha praticamente una venerazione per Yasuhiro Wada), perché poco trasmette a livello emotivo, nulla dice a livello sociale. Può allora succedere che in questo riescano meglio a giochi di minor portata e persino di diverso genere e un esempio recente è Lake. La sua protagonista, Meredith, prende una pausa dalla sua vita nella città per fare la postina nel suo villaggio natale: ricalibra il suo mondo e con esso sé stessa, mette tutto in discussione. Troverà la sua dimensione? Starà in sostanza al giocatore deciderlo, in base a quanto condivide quella stessa visione che è alla base di Harvest Moon e compagnia. Perché Lake è una storia di provincia (americana, ma la provincia sembra essere uguale ovunque), che è idealmente il luogo delle cose fatte nel tempo giusto, delle comunità unite, della vicinanza alla natura.
Immergersi in questi mondi virtuali non è quindi solo un'alternativa, non necessariamente migliore, ma semplicemente diversa, al quotidiano. Può essere, spesso, e credo di esserne un esempio, un modo per scoprirsi e conoscersi, per accorgersi di quali siano le cose che ci rendono sereni e soddisfatti e, magari, per iniziare a cercarle con maggiore determinazione nelle piccole e grandi scelte che compiamo ogni giorno.
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