Per queste ultime settimane del 2022 mi sono posto un obiettivo videoludico non da poco: finire, finalmente, quella enorme avventura che risponde al nome di Xenoblade Chronicles 3. Attualmente il contatore delle ore spese in compagnia del gioco di Monolith Soft ne segna circa ottanta, un quantitativo che in realtà ai più sarebbe stato sufficiente per arrivare ai titoli di coda. A me, ovviamente, no, perché ho il problema di dover vedere più o meno tutto quanto un gioco ha da offrire prima di portarlo a termine. O, quantomeno, mi illudo di farlo, dato che proprio all'inizio di quest'anno, costretto a letto da una brutta frattura, ho voluto vedere cosa avessi lasciato da parte in Xenoblade Chronicles 2, spendendo un altro centinaio di ore quasi su un gioco che avevo completato al lancio.
Riconosco, quindi, un certo grado di colpa nello spendere centinaia di ore su di un gioco, nello specifico su di un JRPG. A un certo punto avrei potuto bellamente ignorare un cospicuo numero di missioni secondarie e tirare dritto, seguendo esclusivamente le quest principali. Oppure, avrei potuto evitare di esplorare ogni singolo anfratto del colossale mondo di gioco, di volere a ogni costo vedere cosa nascondessero quella collina, quella insenatura, quella grotta, a cosa portassero sentieri appena accennati, quale fosse il modo per raggiungere luoghi all'apparenza irraggiungibili.
Sarebbe stato però un po' tradire la natura del gioco specifico. Fin dal suo primo capitolo, la serie di Xenoblade Chronicles ha puntato fortissimo sulla sensazione di esplorazione, di scoperta, persino di spaesamento, convogliata dall'attraversare un mondo dall'estensione inusitata. Una dichiarazione di intenti ben chiara, da prendere così com'è: coloro alla ricerca di un'esperienza più contenuta e diretta dovrebbero, semplicemente, rivolgersi altrove.
Il discorso è già diverso per quanto attiene, invece, alle missioni secondarie. È spesso in queste che l'appassionato di JRPG trova alcune storie memorabili o eventi persino più impattanti, dal punto di vista emotivo, di quelli che dettano la progressione della storia principale. Saltare una secondaria in un JRPG è, per me, sempre fonte di un po' di preoccupazione, perché chissà cosa possa perdermi, ignorando quel segnalino che così impunemente mi invoglia a deviare dalle vicende principali.
Sbaglio, ne sono consapevole, ma è un errore derivato dal fatto che sono cresciuto con un altro tipo di JRPG, d'impostazione totalmente diversa, non ancora contaminata dall'open world, nel quale effettivamente ogni singola quest, indipendentemente dal fatto che fosse principale o secondaria, era significativa, non l'espediente per riempire ludicamente mondi che altrimenti sembrerebbero più vuoti; guai a perdersela, quindi!
Il tempo in cui i JRPG non dovevano per forza di cose essere lunghissimi, vastissimi, e pienissimi di missioni è ormai lontano, ma non tanto da far dimenticare che sì, un altro modello, alternativo a quello che ormai sembra essere imperante, è possibile. E che la colpa di quantitativi di ore quasi fuori controllo non è solo dei giocatori. Come detto, la serie di Xenoblade Chronicles è persino estrema, in certe scelte, ma non è che Persona 5, tanto per citare il gioco di ruolo giapponese forse più apprezzato degli ultimi anni, lo si finisca in poche decine di ore: il centinaio abbondante richiesto è quanto, ogni volta che penso di provarlo, mi fa immediatamente desistere dall'intenzione.
Ai titoli di coda di Dragon Quest XI: Echi di un'era perduta, che non solo è sicuramente il più classico dei JRPG moderni, ma anche il meno dispersivo, sono giunto dopo circa 110 ore di gioco: me le sono godute tutte, ma chiaramente ci è voluto un bel po'. A confronto le 50 abbondanti di Tales of Arise sembrano poche (ma non lo sono). Esistono esperienze più contenute, è vero (basti pensare ai capitoli della serie Ys), ma oggi il modello del JRPG standard è questo: abbondante, assai.
Non è sempre stato così, anzi, c'è stato un tempo in cui i JRPG da decine e decine di ore erano l'eccezione, non la regola. I giochi della sacra triade del gioco di ruolo giapponese su SNES, composta da Final Fantasy IV, Final Fantasy VI e Chrono Trigger, sono completabili in una ventina di ore, che nemmeno raddoppiano qualora ci si dedicasse a tutte le storie secondarie. Specialmente per quanto riguarda gli ultimi due, sarebbe veramente criminale non farlo, dato che contengono dei passaggi estremamente intensi ed emozionanti, eventi che rimangono davvero scolpiti nella mente e nel cuore del giocatore.
Già su PlayStation, altra console regina del genere, la media si era allungata, ma sempre rimanendo entro certi limiti: le 60 ore di uno Xenogears, le 70 di un Dragon Quest VII, erano casi tutto sommato isolati, con la regola rappresentata dalla trentina abbondante dei Final Fantasy. Un quantitativo ancora accessibile ai più, più o meno rimasto inalterato fino all'esplosione dell'open world come modello di più o meno tutto il videoludo, la cui implementazione, anche in forma di semi open world (vedere proprio Dragon Quest XI), ha provocato dilatazioni di vario tipo.
Ma perché la questione di una lunghezza che diventa estenuante e di un'abbondanza che diventa bulimia, che affligge vari generi, è particolarmente problematica nei JRPG? Perché questi ultimi hanno nella storia e nella caratterizzazione dei personaggi degli elementi di importanza capitale, elementi che necessitano di un contesto ideale per essere espressi al meglio. Per intenderci: esiste qualcuno che gioca a The Elder Scrolls V: Skyrim per la storia? No, perché nel capolavoro di Bethesda la storia è una traccia, un pretesto per iniziare a muoversi in un mondo bellissimo e vasto, che poi si esplora nel modo che più aggrada, assecondando il più puro sentimento d'avventura.
In un JRPG, invece, la storia e i personaggi sono tra i pilastri dell'esperienza di gioco, e diluire nel tempo e nello spazio le vicende, gli eventi e le situazioni necessari alla prima per proseguire ed essere sempre incalzante, ai secondi per avere momenti a loro dedicati, funzionali alla loro caratterizzazione e quindi al renderli a noi cari, li rende meno significativi. Un racconto ben scandito, senza tempi morti, che sapientemente riesce ad alternare momenti dai toni e dalle atmosfere diverse, proprio non ce la fa ad aderire a ore e mondi in continua espansione. E a mio parere non c'è a questo altro rimedio che non sia il ridimensionamento.