C'era una volta... The Witcher

Dona un soldo al tuo Witcher, cantava Dandelion e per mesi tutti non hanno fatto altro che ripetere il ritornello

Avatar di Nicholas Mercurio

a cura di Nicholas Mercurio

Dona un soldo al tuo Witcher, cantava Dandelion (o Ranuncolo, nei libri dello scrittore polacco Andrzej Sapkowskj), e per mesi in tanti non hanno fatto altro che ripetere il ritornello della canzone, facendola diventare un vero e proprio tormentone come accadde con The Rains of Castamere di Game of Thrones, intonata dai soldati dei Lannister sotto il muro fossato di Approdo del Re. Dona un soldo al tuo Witcher, un motivetto ridondante, per molti celebre grazie a una serie tv, per altri divenuto motivo di vanto poiché ne conoscevano vagamente l’esistenza avendo giocato precedentemente The Witcher 3: Wild Hunt.

Ma il vero successo di quel motivetto si nasconde dietro una tradizione fatta di libri, scritti da un autore polacco e reinterpretati da un manipolo di sviluppatori, in una storia che non poteva che cominciare nel più tradizionale dei modi…

C'era una volta un team di sviluppo chiamato CD Projekt RED che ha condotto milioni di giocatori nel mondo creato dalla penna di un ex banchiere polacco con la grande passione per il fantasy. Ed eccoci qui, a distanza di quindici anni da allora, a parlare di The Witcher, di nuovo, come se non ne avessimo già abbastanza e con la stessa passione di allora. The Witcher, prima di essere una grande produzione dei tempi moderni, è un fenomeno culturale che è stato capace di offrire ai giocatori e ai lettori di tutto il mondo una realtà totalmente indimenticabile.

Quando si parla di universo da costruire poligono dopo poligono, qualcuno si dimentica volutamente che laddove inizia una storia, ne cominciano tante altre e molte di esse sanno cosa offrire sotto tutti i punti di vista. Quando giocai al primissimo The Witcher, avevo pressoché quindici anni, e me ne innamorai perdutamente perché, da appassionato di fantasy, avevo bisogno di un’avventura più oscura, brutale e sì, soprattutto violenta.

The Witcher, insomma, fu il videogioco che mi permise di interfacciarmi con i libri e The Witcher 2: Assassins of Kings, il secondo capitolo della celeberrima serie videoludica sviluppata da CD Projekt RED. Come accade con le grandi storie, ovviamente, ne rimasi talmente tanto coinvolto che di Vizima (o Wyzima, in polacco) e delle campagne adiacenti mi restò molto poco da esplorare, e ancora oggi ricordo le vie trafficate della città reale di Temeria, il regno settentrionale governato da Re Foltest.

La produzione dedicata al mondo di Andrzej Sapkowskj era tutto fuorché scontata, poiché proponeva una storia intensa, un contesto scritto ancora meglio e un personaggio complesso da capire quanto affascinante da vedere e impersonare. Sto parlando di Geralt di Rivia, un Witcher (o uno Strigo, come è chiamato nei libri dell’autore polacco), un cacciatore di mostri che si mette al soldo di signori, baronetti, contadini e pure assassini. Né un uomo, né un mostro: è un ibrido, una creatura tra due mondi che però, a differenza di tante altre, non ha paura del mostro sotto al letto. È chiaro che, ovviamente, non può che nascere una storia interessante legata a queste battute fondamentali, che arrivavano proprio nel momento in cui il fantasy necessitava di un'evoluzione più matura, già portata avanti da Il Trono di Spade e da Il Signore degli Anelli. Era il periodo di Eragon, ma era anche il momento per Licia Troisi e tanti autori italiani. A differenza di tanti altri fantasy, in The Witcher – sia nei libri che nei videogiochi – si capiva che il vero nemico non era una creatura deforme, bensì l’uomo, che è da sempre il vero bruto.

Geralt di Rivia, il Witcher della Scuola del Lupo

Tutto iniziava da un video introduttivo davvero evocativo che ancora oggi ricordo con grande piacere. C’era un narratore a descrivere le vicende, mentre quanto avveniva su schermo non lasciava presagire nulla di buono. Un castello sullo sfondo, un lago e un fossato, mentre il sole tramontava e l’oscurità prendeva il posto della luce, portando con sé la notte e molti incubi. I corvi gracchiavano fastidiosamente, le porte battevano a causa del vento, e un Witcher, al sicuro in una casupola in disuso, si stava preparando per spezzare la maledizione che gravava sulla figlia del re di Temeria.

L’indimenticabile presentazione di Geralt di Rivia, che tutti hanno conosciuto appunto come un protagonista freddo e apparentemente privo di emozioni, è in realtà ripresa proprio da un passaggio fondamentale de Il Guardiano degli Innocenti, il primo libro dedicato alla storia dello Strigo preferito da grandi e piccini. CD Projekt Red, acquisendo i diritti dell’opera nel 2003, ha successivamente creato le trame dei vari videogiochi, inserendo la Caccia Selvaggia, che compare per la prima volta ne La Torre della Rondine, ovvero quando Ciri è cresciuta.

Al netto di queste precisazioni, il personaggio di Geralt di Rivia è stato adattato da CD Projekt RED in maniera fedele alla sua controparte letteraria, tanto che la copertina della terza edizione dell’opera, pubblicata originariamente nel 1993, riprendeva le fattezze del Geralt del videogioco. Una decisione presa proprio per attirare le attenzioni dei giocatori dell’epoca, che grazie all’opera videoludica erano entrati in contatto con il Witcher, il nome inglese che la casa editrice britannica ha affibbiato alla versione inglese all'interno del primo libro.

Tralasciando tuttavia queste curiosità, Geralt perde misteriosamente la memoria dopo essere sfuggito dalla Caccia Selvaggia, ritrovandosi in un letto a Kaer Morhen, il luogo in cui è cresciuto, sottoponendosi sin da giovanissimo alla Prova delle Erbe con tanti altri aspiranti Witcher.

In pochi, però, sopravvivono alla mutazione, poiché le erbe conservano enzimi e sali che, se miscelati con la magia dei Witcher, possono portare alla morte o alla trasformazione. Ecco perché, al contrario del passato, sono rimasti pochi Witcher lungo la Strada, chiamata in questo modo dai membri dell'antico ordine per descrivere il loro viaggio nelle città, nei borghetti o nei villaggi dell’intero Continente, diviso a nord dai Regni Settentrionali e a sud dall’Impero di Nilfgaard.

Al netto di questo, però, a Kear Morhen ho fatto la conoscenza di protagonisti illustri come Triss Merigold e Vesemir, importantissimi nell’evoluzione di The Witcher subito dopo l’attacco di Salamandra, un’organizzazione criminale interessata ai segreti dei Witcher, in particolare al mutageno capace di trasformarli durante la Prova delle Erbe. I membri più conosciuti sono il Professore, uno studioso che si diletta nella magia nera, e Azar Javed e Savolla, due brutali assassini ricercati persino da Nilfgaard e dal resto dei Regni Settentrionali.

Se il prologo di The Witcher era coinvolgente e non perdeva tempo a buttare il giocatore nel bel mezzo dell’azione, quanto accade dopo assume un maggiore risalto, poiché il mondo si apre una volta superata la roccaforte di Kaer Morhen. Geralt parte per un viaggio lungo per riappropriarsi dei segreti sottratti da Salamadra, pronto a raggiungere il centro del potere temeriano: Vizima. Parte del racconto, infatti, avviene tra le strade urbane della cittadina, per poi passare alle campagne e alle paludi. Geralt di Rivia, che ha perduto la memoria, è sicuro che potrebbe riacquisirla intraprendendo questo viaggio nell'ignoto, ed è proprio qui che la narrazione offre ulteriori chiavi di lettura e tanti momenti memorabili.

Mentre Geralt viaggia in questo mondo fantasy ottenebrato dalla carestia, da una pandemia e dalla morte, capisce come l’uomo sia in realtà il vero mostro. Scopre però la speranza, che fa andare avanti tante persone e, nel frattempo, il suo legame con Triss si rafforza. In tal senso, l’avventura consentiva addirittura di conoscere pulzelle di varia natura nelle campagne o nei bordelli cittadini, sbloccando delle carte utili per il Gwent, il gioco di carte dei Regni Settentrionali (ma in voga anche a Nilfgaard, a detta di qualcuno). A Vizima, inoltre, Geralt ritrova i vecchi amici Dandelion e il nano Zoltan, conosciuti anni prima.

CD Projekt Red, nel ricreare le atmosfere del libro, ha così costruito un mondo verosimile e tangibile. Al giorno d’oggi, dopo la pubblicazione di The Witcher 3: Wild Hunt, lo considereremmo sicuramente inferiore sotto tanti aspetti. Per l’epoca, tuttavia, era un gran bel vedere, specie per i personaggi in giro per la città che si dilettavano in danze, gli strimpelli maldestri di liuto e canti più o meno intonati. Di Vizima ricordo le strade, le viuzze, i vari quartieri e i distretti, mentre delle campagne l’oscurità e l’imprevedibilità da cui potevano comparire pericoli di ogni genere, come una lama nel buio pronta a sgozzarmi.

C’era un’atmosfera unica accompagnata da musiche travolgenti che sembrava sferzassero l’aria come se volessero rompere il silenzio, dando il colpo di grazia alle sicurezze che pensavo di avere fino a qualche momento prima. La città, d’altronde, non era sicura: era piena di criminali, borseggiatori, assassini e mostri. Creature provenienti dalle fogne, dai tumuli e dalle cripte maldestramente aperte da un becchino che si era dimenticato di chiuderle perché attirato da una donna vestita con abiti succinti che passava a poca distanza da lui. Dalle tombe provenivano bestie di ogni sorta, pronte a dilaniare le carni di altrettanti poveri cittadini sprovveduti che non rispettavano il coprifuoco imposto da re Foltest.

La città di Vizima, un tempo la culla di civiltà e realtà aristocratiche, fonte del sapere dei Regni Settentrionali, era diventata una fossa a cielo aperto per i suoi stessi abitanti. I cadaveri, smembrati e mutilati, erano ovunque: ai bordi delle strade, di fronte alle Chiese del Fuoco Eterno e anche sulla scalinata del palazzo che si affacciava sul cortiletto pronto a ospitare chiunque provenisse da luoghi remoti in cerca di un po’ di sollievo. A Vizima, però, non c’era altro che il lavoro per un Witcher, concentrato al contempo sulla sua missione. Di Ciri, Yennefer e della Caccia Selvaggia non ricordava alcunché.

Un gameplay al tempo vecchio, e che ora lo è ancora di più…

The Witcher, pur proponendo una trama affascinante e un mondo vivo e pulsante, peccava tuttavia di qualche imprecisione di game design. Se ci rifletto meglio, poteva considerarsi a tutti gli effetti un classico punta e clicca e, nonostante si potesse cambiare la telecamera dal menu delle impostazioni, al tempo presentava meccaniche che adesso i giocatori considererebbero macchinose. Il sistema di combattimento, rimasto lento e poco incisivo, con il remake potrebbe in effetti essere ammodernato, dando in questo modo al videogioco un’anima più vicina e magari migliore a quella del terzo capitolo del franchise.

Se da una parte me lo auguro, dall’altra però spero che venga approfondito maggiormente e sistemato nei suoi dettagli, poiché al tempo risultavano già antiquati. In quel periodo, e lo ammetto senza vergogna, mi sembravano meccaniche meravigliose e direi pure innovative. A catturarmi era poi la costruzione del mondo di gioco e come questo fosse stato proposto al giocatore nella sua interezza, in primo luogo l’approccio alle varie macro aree esplorabili all’interno della mappa di gioco.

Questo ci fa capire come il panorama avanzi alle volte senza freni, non dandosi tempo e non dando di conseguenza tempo al giocatore. Rispetto a quindici anni fa, dunque, il gameplay di The Witcher attualmente potrebbe ricevere più critiche che lodi, e al tempo fu ricordato per il suo mondo, la narrazione, l’ambientazione e la storia perfetta. Nonostante presentasse i Segni per la prima e tutto ciò che riguardava l’armamentario di un Witcher, l’opera proponeva un gameplay estremamente essenziale nonché classico, per l’epoca. Quando si colpiva, gli attacchi erano generati automaticamente, e in certe occasioni si perdeva l’enfasi della lotta alimentata magari pochi istanti prima da un dialogo memorabile. Erano altri tempi, c’erano altre necessità e probabilmente CD Projekt RED non era lo studio di sviluppo che è oggi.

Le tematiche delicate di The Witcher: come scrivere un racconto pregno di vita

The Witcher, proprio come Dragon Age, approcciava tematiche delicate ispirandosi a fatti di cronaca e ad alcuni episodi storici della storia mondiale. Lo stesso Andrzej Sapkowskj, in realtà, si ispirò alle purghe naziste avvenute ai danni degli ebrei, e CD Projekt RED riportò in The Witcher quelle dinamiche brutali ai danni degli Elfi e i nani, che un tempo vivevano nei Regni Settentrionali governando anche sugli uomini.

Attraverso gli Scoia’tael, un gruppo guerrigliero composto dalle due razze, scopriamo meglio quanto il razzismo e l’odio verso il diverso siano in effetti all’ordine del giorno all’interno della città. Sebbene siano mal tollerate da re Foltest, che cerca in ogni modo di difendere i distretti in cui sono confinati i nani e agli Elfi, il crescente odio proveniente da altri reami ormai consuma il regno a tal punto che ormai le violenze ai danni dei due popoli stanno diventando sempre più frequenti, e nessuno riesce a domare una fiamma simile pronta a divorare le esistenze di tanti sventurati.

Trattare di tematiche del genere non è mai facile, non in un momento del genere. Con The Witcher 2: Assassins of Kings e The Witcher 3: Wild Hunt, tuttavia, si è esplorato maggiormente il razzismo e le prese di posizione del team oltre che del suo autore, che hanno inserito questa piaga sociale proprio per sensibilizzare il giocatore oltre che per dare un contesto alla narrazione ancora più sinistro e brutale. Una scelta che, ovviamente, ho accolto con molto interesse, perché esplorare la natura umana in un videogioco è qualcosa che mi ha sempre affascinato.

The Witcher ha esplorato, in tal senso, il carattere e l’esistenza di Geralt all’interno di un mondo del genere. È visto come un mutante, quindi è considerato un pericolo per chiunque lo incroci sul suo cammino. Un altro suo nome, oltre a Lupo Bianco e Gwynbleeid, è Macellaio di Blaviken, che gli abitanti dell’omonimo villaggio gli affibbiarono dopo che massacrò un'intera guarnigione di mercenari al soldo di Renfri, un personaggio che parla a Geralt del suo destino e in generale anche del suo futuro, e i lettori e gli appassionati della serie televisiva se la ricorderanno sicuramente bene.

Geralt è visto come un mostro, e un’altra tematica è proprio quella di non fermarsi alle apparenze, anche se davanti compare un mutante che uccide creature e non prova pentimento nel farlo. Spesso Geralt ripete addirittura che sono proprio gli uomini a essere i veri mostri, le uniche reali minacce per il mondo e la pace. E non si può dire che abbia torto.

Cosa aspettarsi da The Witcher Remake?

The Witcher, inizialmente, avrebbe dovuto essere pubblicato anche su console nel 2009 con una grafica migliorata e un sistema di combattimento completamente rivisto, ma CD Projekt RED accantonò il progetto e si dedicò esclusivamente alla produzione del secondo capitolo del franchise, cominciando già a immaginare il futuro della serie. Ora che è stato annunciato il remake e il progetto non è direttamente affidato a CD Projekt RED, viene da chiedersi cosa potrebbe offrire in futuro un rifacimento completo del primo The Witcher.

Intanto sarà sfruttato l’Unreal Engine 5, un motore grafico di cui si è visto ancora poco. E in secondo luogo il sistema di combattimento potrebbe essere ammodernato e addirittura ricostruito da zero. Di sicuro, l’importanza storica di The Witcher, che iniziò con un’acquisizione e il sogno di portare le vicende di Geralt di Rivia su schermo in maniera diversa da quella cinematografica (esiste anche un film), scorre ancora potente tra gli uffici a Varsavia dello studio di sviluppo polacco. Dopo la parentesi Cyberpunk, che ha visto CD Projekt RED presentare al mondo una produzione del genere, è chiaro che voglia ritornare laddove ha ottenuto il successo mondiale. Mettere di nuovo piede nel Continente, insomma, sarà allo stesso modo meraviglioso dopo aver esplorato Night City? Questa domanda dovrà rimanere in sospeso per tanto tempo, come ogni buona storia che si rispetti. E citando una canzone metal dei Vader, Witcher is my name.

Leggi altri articoli