C'era una volta... Dishonored

Quando ricorre un anniversario importante, e in questo caso quello del primo Dishonored, adoro rispolverare il passato

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a cura di Nicholas Mercurio

Quando ricorre un anniversario importante, e in questo caso quello del primo Dishonored, adoro abbandonarmi ai ricordi passati, rivangando magari le run pomeridiane passate su di esso, immaginando quali scelte avrei potuto intraprendere, magari compiendo scelte diverse oltremodo imprevedibili. Mi è capitato con Skyrim, che ha compiuto i suoi dieci anni l’anno scorso, ed è accaduto lo stesso con Borderlands, di cui sono un grande appassionato.

A essere sincero, quando un videogioco compie gli anni e arriva a una cifra tonda, non riesco proprio a trattenermi: devo festeggiarlo; non importa in che modo, perché e con quanti invitati. Lo devo fare perché quel momento passato assieme ha contribuito a farmi crescere come giocatore e a trasmettermi curiosità verso il nostro hobby preferito. Con Dishonored, infatti, mi trovo sin da subito a mio agio, perché sono un grande appassionato dei videogiochi di Arkane Studios, tanto che ritengo Deathloop un prodotto unico nel suo genere, di difficile approccio per molti e, a tratti, addirittura visionario, pur nelle sue limitatezze.

L’opera sicuramente meglio strutturata, sia in termini di racconto che di gameplay, rimane ancora oggi Prey, pubblicato due anni dopo l’uscita di Dishonored 2, il prosieguo che ha migliorato sotto ogni versante il primo capitolo curato da Raphael Colantonio. Inoltre, la massiccia espansione stand alone in cui abbiamo impersonato Billie Lurk, conosciuta durante le vicende del secondo capitolo del franchise, è stato quel capitolo conclusivo della serie che ha chiuso definitamente la trama che trattava le vicende dell’Esterno, un’antica entità che ha accompagnato Corvo Attano ed Emily Kaldwin all’interno di due storie capaci di stupire e lasciare il segno. Da grande appassionato di steampunk e in generale dell’aristocrazia britannica, immergermi nel mondo di Dishonored è stato come leggere un libro della letteratura inglese e vivere in prima persona un’avventura senza uguali.

Certo, non è stata una peripezia in stile Oliver Twist di Charles Dickens, nonostante i riferimenti all’epoca vittoriana fossero evidenti e le tematiche trattate avessero un ruolo preciso nella struttura della trama. Ho sempre adorato un taglio stilistico del genere, sia perché mi ha permesso di conoscere al meglio cosa avevo di fronte, sia perché mi ha permesso di apprendere alcuni usi e costumi delle realtà aristocratiche. In Dishonored, pubblicato il 9 ottobre 2012, non esiste una repubblica né un reame assoluto che guarda tutti dall’alto verso il basso, sebbene sia presente il pregiudizio. Al netto di questo, anche se non in modo semplice, vige l’uguaglianza, che è alla base di ogni rapporto umano, nonostante non tutti siano predisposti ad ascoltare il prossimo e preferiscano andare avanti non creando problemi.

Vuoi per noia, vuoi per dimostrare di essere il migliore, vuoi per essere forte e indomito e privo di paure ma con al centro situazioni complicate, ero costantemente affascinato da quei modi di fare, persino dall’altezzosità di certi personaggi. In Dishonored è stato creato un impero, uno dei più affascinanti e verosimili che mi sia mai capitato di vedere, e il suo epicentro era Dunwall, una capitale che potrebbe ricordare la Londra del 1800, tra progresso e tradizione, tra credenze popolari e problematiche interne.

Un mondo sull’orlo della distruzione

C’era una realtà alla portata di tutti che, in un modo o nell’altro, era affascinante e valeva la pena di essere vissuta pienamente, goduta pienamente e supportata nella sua meraviglia, anche se l’ipocrisia era ovunque, pronta a farsi spazio tra l’ingordigia, la sete di potere e il disprezzo. Laddove un tempo regnava la fedeltà e il potere era forte e bene assicurato, nell’ombra c’era chi attendeva il momento giusto per assestare il suo colpo fatale. Quando mi interfacciai per la prima volta con il videogioco di Arkane Studios, sapevo benissimo che ne sarei uscito cambiato, complici soprattutto le ispirazioni e la natura stessa del progetto.

Dishonored avrebbe dovuto essere un videogioco sui ninja, ma il team intendeva inserire caratteristiche del genere steampunk e, prendendo ispirazione proprio da esso, costruì una trama e un mondo che includesse proprio queste sinergie. Arkane Studios arrivò all’appuntamento del reveal del gioco in pompa magna, forte del successo di Dark Messiah of Might and Magic, un videogioco che ebbe la capacità di far strabuzzare gli occhi a chiunque. In generale, l’accoglienza da parte della critica e del pubblico premiò il nuovo videogioco di Arkane Studios. Era il 2012, un anno dopo Skyrim: mentre in tanti erano ancora legati alle leggende del Sangue di Drago, c’era chi restava ammaliato dalle leggende del Corvo Attano, il protagonista delle vicende. Un tratto che ha sempre contraddistinto Dishonored dai più celebri immersive sim, infatti, è stata l’ispirazione alla serie Bioshock, che è il capolavoro del genere. Tuttavia, Arkane riuscì a incastrare la medesima personalità vincente del capolavoro di Irrational Games, costruendo a sua volta una produzione encomiabile e assolutamente rilevante per il genere.

Dishonored non nacque sulle ceneri di alcun altro progetto, come accade spesso con molti videogiochi. Il risultato finale, che non ha tradito l’idea primordiale del progetto, è stato realizzato interamente grazie ad Arkane Lyon, il distaccamento francese che si è occupato recentemente di Deathloop, e che è esperto di avventure immersive e capaci di coinvolgere. Durante lo sviluppo del primo capitolo della serie, la linea guida da seguire era di rimanere fedeli alle idee iniziali, che però cambiarono in corso d'opera proprio perché non voleva rinunciare alle caratteristiche vincenti del genere steampunk.

Il team voleva creare un’opera che offrisse al giocatore la possibilità di approcciarsi alle varie situazioni come meglio preferiva, non rinunciando di una trama convincente. Il talento di Arkane Studios, palesatosi già in passato, tornò a scandire così il panorama videoludico, con i francesi che vantavano di game designer che avevano una marcia in più rispetto agli altri, oltre a narratori che seppero costruire attorno a Dunwall una storia commovente. L’universo di Dishonored, come accennavo prima, si espanse con il secondo capitolo, anche se nel primo c’erano riferimenti a Serkonos e alle lontane isole ai margini dell’Impero delle Isole.

La peste nera e la nascita di Corvo Attano

Lo sviluppo della trama di Dishonored – del primo, specialmente – fu molto divertente per il team francese, che costruì una storia inedita prendendo tuttavia ispirazione dalle grandi monarchie del diciannovesimo secolo. Se si osserva con attenzione, l’Impero delle Isole è forte di un parlamento, e non è una monarchia assoluta. Arkane Studios catturò questi elementi proprio dalla monarchia britannica, ma fece anche di più, perché si ispirò alle antiche repubbliche marinare che furono assorbite molto tempo dopo. Il mondo c’era, era vivo, pulsante e coinvolgente: ora serviva un contesto.

Come accennavo prima, inizialmente Dishonored doveva essere ambientato in un medioevo fantasy, sia per cavalcare l’onda del momento quanto per inserire la Peste Nera in modo azzeccato. Come è stata inserita, però, all’interno di una storia simile? Con abilità, soprattutto, perché serviva che ci fosse qualcosa di orribile e brutale per tessere in modo egregio un racconto che creasse angoscia e senso di smarrimento. Quanti di voi ricordano l’inizio di Dishonored? Si muoveva Corvo Attano verso il palazzo imperiale, circondato da guardie e uomini illustri, che si complimentavano con lui per aver portato la pace in un regno in conflitto. Nel frattempo, tra le strade dei bassifondi, la città marciva a causa della peste, giunta misteriosamente in città a causa dei ratti che infestavano le fogne.

Una città isolata, un tempo splendente, che ora era l’epicentro di una pandemia senza uguali. Corvo Attano, incaricato di cercare aiuto, non lo trovò: doveva dare una brutta notizia, difendere l’Imperatrice Kaldwin e proteggerla dal futuro che si sarebbe abbattuto su di loro in modo del tutto imprevedibile, in tutta la sua brutalità. Quando un uomo è legato profondamente dalla lussuria e dalla cupidigia, è spinto al tradimento come un assassino è costretto a sopravvivere uccidendo chi ha davanti. A volte lo fa consapevolmente, altre volte perché non esiste altra strada: chi ha tradito l’Imperatrice, tuttavia, sapeva benissimo cosa stesse facendo. Tutto accadde rapidamente, con furia omicida e brutalità, non tralasciando alcunché, e non lasciando testimoni. O così pensavano i mandanti dell’assassinio, pronti ad afferrare il trono per loro stessi.

Dishonored, in tal senso, insegna che nessuno è chi dice di essere fino in fondo, neppure chi si professa amico o alleato. E mentre Corvo Attano conosceva da vicino l’Esterno, assorbendone i poteri, Dunwall era la protagonista silenziosa di quelle vicende. Laddove un tempo sorgeva un reame beato, dove scienza e magia si univano, ora non c’era altro che marciume, che colpiva indistintamente in modo brutale. Tra il misticismo e la tirannia di pochi, mentre il colpo di Stato era stato ultimato, chi stava perdendo tutto era il popolo, gettato in una condizione disumana. Ma, grazie all’Esterno, si poteva scegliere chi essere.

Dishonored: essere assassini o angeli misericordiosi?

Come accennavo prima, Dishonored ha tutte le caratteristiche di un immersive sim. Quando rifletto su questo genere, che è uno dei miei preferiti, ovviamente mi capita di rivangare alcuni videogiochi del passato. In Dishonored, mentre esploravo Dunwall e restavo angosciato dalle sue viuzze e dalla quarantena forzata a causa della peste, potevo scegliere chi essere, e non attraverso una linea di dialogo come accade adesso con alcune avventure narrative. Potevo decidere se calare la lama oppure lasciare che le cose si risolvessero senza spargimenti di sangue, magari stordendo o evitando un nemico. In diverse run ho cercato proprio di non uccidere nessuno, anche se è stato impossibile, mentre in tante altre ho ucciso consapevolmente. Ricordo, infatti, che su YouTube c’erano dei video di tanti content creator che erano riusciti a concluderlo senza commettere omicidi, usando l’astuzia e la pazienza, studiando i movimenti dei nemici.

Pur non presentando un’intelligenza artificiale che metteva in reale difficoltà il giocatore, Dishonored ebbe però la capacità di far pesare questo genere di scelte attraverso il suo game design, che era a sua volta costruito in modo egregio. Se c’è però qualcosa che ricordo distintamente, tra i molti racconti all’interno di Dishonored, uno dei più interessanti riguardava Nonna Cencia, una vecchia che, nonostante la quarantena del governo ladro degli usurpatori dell’Imperatrice, non aveva abbandonato casa sua ed era rimasta laddove era nata e cresciuta, provando un grande sconforto, lasciandosi andare a tal punto da non ricordare chi fosse. L’Esterno racconta di lei come una donna un tempo rispettabile, ora divenuta spazzatura perché ha perso la sua utilità. È questa la tremenda esegesi di un personaggio che, rispetto a molti altri, riesce tuttavia a conservare la propria umanità.

Nonna Cencia, per quanto fosse un personaggio marginale, è stata raccontata come una nobildonna che aveva perso tutto quanto. Questo ci permette di capire che, in una città come Dunwall, puoi ottenere o perdere quanto possiedi con un battito di ciglia. La vecchia, che abitava nei bassifondi cittadini, è stato un incontro piacevole, sebbene angosciante, perché temevo potesse tradirmi da un momento all’altro. Mentre la sentivo parlare, mi rendevo conto che ormai aveva perso totalmente il senno, ed era colpa di Dunwall stessa. In molteplici occasioni, qualcuno ha parlato di come la città avesse una sua anima. Nell’architettura moderna, quando si crea un’abitazione e lo si studia, lo si fa specialmente per chi potrebbe viverci al suo interno. Chi un tempo viveva in quelle abitazioni, in un modo o nell’altro, ha ormai perduto ogni cosa. Lo si comprende quando si esplora il level design delle varie aree di Duwnall come Bottle Street, un luogo dominato da una banda che vive sulle spalle degli innocenti, e che ricorda vagamente le stesse che sfruttavano i bambini durante la Rivoluzione Industriale in Inghilterra.

Arkane Studios, sfruttando la storia, ebbe la capacità di dare un contesto illustre a Corvo Attano. Le sue peripezie, che contribuirono a permettere di capire nel profondo cosa girasse nella mente dei suoi creatori, sono ancora oggi tra le più memorabili del panorama. La costruzione di ogni missione, specialmente nelle prime ore, era importante poiché si imparava a maneggiare le abilità dell’Esterno e, in generale, persino le proprie armi.

Scegliere chi essere non è mai stato così bello, e questa fu un’implementazione che permise a molti altri studi di sviluppo di estendere questa caratteristica, dandole una personalità invidiabile. Per Bethesda Dishonored fu un franchise importante, e per i giocatori fu una delle esperienze più incredibili degli ultimi anni. Arkane Studios sviluppò anche due DLC, arrivati nel 2013: il primo ci permise di muovere la mano nei panni del Pugnale di Dunwall, mentre l’altro di vivere più da vicino le orrende trame delle Streghe di Brigmore.

Due contenuti aggiuntivi che ebbero un’importanza enorme nella lore dell’intero primo capitolo, che si focalizzò proprio su due menzioni illustri durante la scoperta dell’avventura principale. A differenza di molti altri videogiochi, Dishonored arrivò in un momento in cui forse non ce n’era realmente bisogno, eppure ha lasciato il segno ugualmente e, ancora oggi, è ricordato come il capolavoro di Arkane Studios, senza nulla togliere a Prey, l’opera più completa del team.

Dunwall non cambierà mai, Dishonored resterà sempre il capolavoro di Arkane Studios

Giunto a questo punto, ormai dieci anni dopo la sua pubblicazione, rifletto su quanto il peso del tempo abbia cambiato sia le visioni di Arkane Studio oltre quelle dei giocatori, e come loro siano cresciuti durante questa intera era geologica. Al tempo nessuno se ne preoccupava, ma al tempo era diverso: produzioni come Dishonored uscivano a distanza di due anni tra tanti videogiochi che, al contrario, avevano poche frecce al loro arco, sebbene conservassero la loro unicità. Ma nessuna era come Dishonored, nessuna era come Bioshock, e nessuna era come Halo Reach. Eravamo felici ma non lo sapevamo, perché c’erano opere che rompevano letteralmente la terza, la quarta e la quinta parete senza grandi proclami, ma lasciando l’ultima parola al giocatore.

Sto parlando di quelle produzioni che, in un modo o nell’altro, migliorano e innovano il medium a tal punto da lasciare con un senso di smarrimento una volta concluse. Dishonored è, senza ombra di dubbio, il capolavoro di Arkane Studios non perché fosse un’opera che proponeva uno stealth ben implementato, un contesto unico nel suo genere e un personaggio che è impossibile dimenticare. No, Dishonored è il capolavoro di Arkane Studios perché ogni sua componente è stata amalgamata in maniera attenta e scrupolosa proprio per renderlo il videogioco che oggi, a distanza di dieci anni, ha ancora molto da dire.

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