Qualche giorno fa la generazione di immagini di OpenAI ha fatto un salto di qualità, rendendo possibile la trasformazione di immagini comuni nel riconoscibile "stile Ghibli". Una novità che è diventata immediatamente virale e che ha generato moltissime reazioni - gran parte delle quali contrariate. Andando così a riaccendere un dibattito aperto sul come l’AI renda possibili violazioni del copyright e abusi sul lavoro degli artisti; nel frattempo tuttavia OpenAI ha fatto un passo indietro, apparentemente perché l’eccessiva richiesta richiede troppe risorse e mette a rischio l’hardware. Ma pare che l’azienda stia anche prendendo sul serio le possibili denunce per violazione di copyright.
Decine di migliaia di persone si sono divertite a vedere il proprio quotidiano reinterpretato con la magia visiva dei capolavori animati di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli. Tuttavia, a fianco dell'entusiasmo, si è levata un'onda di indignazione, con accuse di furto, mancanza di rispetto e una generale sensazione di profanazione di un immaginario culturale profondamente amato. È tornata sotto la luce dei riflettori una dichiarazione dello stesso Hayao Miyazaki, che nel 2016 definiva l’uso creativo dell’AI un “insulto alla vita stessa”.
Il dibattito si raffredderà di nuovo, entro pochi giorni, ma le questioni restano più che aperte su alcuni nervi scoperti: prima di tutto, e ancora una volta, non si tratta di tecnologia ma di persone. Parliamo di ciò che può fare o non fare uno strumento, e non delle persone che lo hanno creato e che lo usano. Qualcosa su cui molti - non ultimo Luciano Floridi - hanno provato a richiamare la nostra attenzione, ahimé con scarso successo. Inoltre, poi, l’esistenza stessa di queste tecnologie ci obbliga a riconsiderare - come abbiamo fatto molte volte nel corso della storia - i concetti alla base di idee come arte, originalità, autorialità e il nostro rapporto con i simboli culturali.
Invece di focalizzarci sulla domanda se OpenAI abbia "rubato" lo stile di Miyazaki, dovremmo quindi spostare la nostra attenzione su un piano più profondo: perché questa emulazione algoritmica ha generato una reazione così viscerale, e cosa ci dice questo sul nostro modo di intendere l'arte nell'era digitale?
Legale o non legale?
Dal punto di vista legale, imitare lo stile di un artista non costituisce una violazione del diritto d’autore. Il copyright tutela opere specifiche e originali, non lo stile o il linguaggio artistico in sé. Ad esempio, un pittore che realizza un quadro ispirato allo stile di Van Gogh o un illustratore che disegna personaggi con tratti simili a quelli di Miyazaki non infrangono la legge, purché non riproducano elementi protetti come personaggi distintivi o scene particolari.
Tuttavia, l’utilizzo non autorizzato di materiali protetti da copyright per l’addestramento di modelli di intelligenza artificiale solleva questioni complesse. La Direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale introduce eccezioni per il text and data mining (TDM). In particolare, l’Articolo 4 consente il TDM per scopi commerciali, a meno che i titolari dei diritti non abbiano espressamente riservato l’uso delle loro opere. Ciò significa che, se un detentore di copyright dichiara esplicitamente di non consentire l’estrazione di testi e dati dalle proprie opere, l’utilizzo a fini di addestramento di IA è illecito.
Il problema è che se anche OpenAI ha usato illegalmente testi, immagini e video, non è obbligata a rivelarlo. E se non è possibile vedere i dataset, non è nemmeno possibile affermare con certezza legale che c’è stata una violazione. Personalmente penso che ci sia stata, e lo pensano in molti; ma le opinioni personali contano molto poco in questo scenario. Secondo le aziende del settore si potrebbe trattare di fair use ma molti non sono d’accordo, e il processo che vede il New York Times contro OpenAI (recentemente ammesso da un giudice) potrebbe aiutarci a tracciare dei confini più precisi.
Nel caso di OpenAI, senza un obbligo legale che imponga la divulgazione dei dataset utilizzati per l’addestramento, è difficile dimostrare l’eventuale uso non autorizzato di opere protette. Attualmente, non esistono meccanismi efficaci per obbligare tali aziende a rivelare le fonti dei loro dati di addestramento, rendendo complessa l’applicazione delle normative esistenti in questo contesto.
Emozioni e incomprensioni: cosa (Non) Abbiamo Visto
L'immediata risposta all'introduzione del filtro "stile Ghibli" da parte di OpenAI è stata un misto di fascinazione e sconcerto. La facilità con cui era possibile ottenere immagini che richiamavano le atmosfere incantate di Il mio vicino Totoro o la vibrante immaginazione de La città incantata ha conquistato il web. Ma parallelamente sono arrivate le critiche, anche accese; persino un senso di disgusto per qualcosa che potrebbe sembrare una fredda macchina che in qualche modo “ruba” il lavoro di un artista.
Le accuse di furto e di svilimento di questa eredità culturale si sono moltiplicate, dipingendo un quadro di sfruttamento algoritmico di un patrimonio artistico prezioso. Ma una macchina non può rubare proprio niente, né svilire alcunché. Perché per compiere certe azioni servono consapevolezza e volontà - caratteristiche esclusive di noi esseri biologici. Tuttavia non è facile ricordarsene.
Questa reazione emotiva, sebbene comprensibile di fronte a un'innovazione che sembra toccare qualcosa di intimo e significativo nel nostro immaginario, rischia di impedirci di analizzare la questione in modo più strutturale. Il disagio generato non è riconducibile unicamente a una questione tecnica, ma investe la sfera dei simboli culturali, delle aspettative sociali, dell'identità e della memoria collettiva. I film Ghibli, in questo senso, sono un esempio preciso perché per molti toccano la sfera intima, hanno rappresentano e rappresentano momenti fondamentali nella vita di molti. Persone che li conservano come un tesoro di emozioni, e a nessuno piace vedere i propri tesori fatti a pezzi, trattati con freddezza algoritmica.
Che qualcuno parli di “dissacrare” forse è dunque comprensibile, ma è possibile perché prima c’è stato un “consacrare”. Qualcuno, anzi sicuramente moltissimi, hanno eretto un altare personale e ci hanno messo il maestro tokyota - rendendo lui e le sue opere qualcosa di sacro.
Una sacralità che è passata dal privato al pubblico; con milioni di fan appassionati in tutto il mondo, le opere dello Studio Ghibli hanno alimentato una sorta di culto, ed è del tutto normale che gli adepti prendano male la manipolazione degli idoli e delle icone.
ChatGPT si è dunque resa colpevole di dissacrazione e questo ci aiuta a rispondere a una domanda che pochi si sono posti: perché tutto il discorso è incentrato su questo specifico studio di animazione, quando lo strumento permette di imitare qualunque cosa? Puoi fare le cose nello stile di Picasso o di Van Gogh, o copiare le copertine degli Iron Maiden. Solo lo studio Ghibli, tuttavia, era stato in precedenza consacrato da un numero abbastanza alto di persone.
Forse perché nel nostro immaginario collettivo rappresenta un baluardo contro l'omologazione e la standardizzazione, un'isola di creatività "fatta a mano" in un'epoca dominata dalla produzione industriale e digitale?
Si fa presto a dire plagio, e si sbaglia
L’ondata di sdegno per la sacralità violata ha portato molti ad accusare OpenAI di furto: secondo questa tesi, lo stile di Ghibli è stato assorbito dal modello IA attraverso l’analisi non autorizzata di immagini e fotogrammi tratti dai film dello Studio. Un abuso piuttosto evidente ma indimostrabile - almeno in tribunale. Non non esistono prove pubbliche dirette che dimostrino in modo inequivocabile che OpenAI abbia incluso materiale coperto da copyright di Ghibli nel proprio set di training. E se anche fosse possibile dimostrarlo bisognerebbe poi affrontare un altro processo per stabilire se si tratta di fair use. Probabilmente OpenAI finirebbe per perdere, ma intanto sarebbero passati mesi o anni.
Insomma, legalmente se la caveranno. Ma l'assenza di prove legali definitive non equivale a innocenza o ad un comportamento eticamente ineccepibile da parte delle aziende di intelligenza artificiale. In altre parole, il fatto che aziende come OpenAI possano avvalersi di "bravi avvocati" per navigare le zone grigie della legge non implica che le loro pratiche siano al di sopra di ogni sospetto o moralmente giustificabili.
Il punto del dibattito odierno tuttavia riguarda, il fatto di poter creare immagini “nello stile di ...”. Già, ma lo stile artistico, in quanto tale, non è protetto da copyright. Un artista è libero di realizzare opere che richiamino lo stile di Picasso o di adottare tecniche pittoriche simili a quelle di Van Gogh senza incorrere in violazioni legali. Il copyright tutela l'opera specifica nella sua concretezza, non il modo in cui essa è stata realizzata.
E allora, perché una reazione così forte? Forse perché nel senso comune tendiamo a confondere l'imitazione stilistica con l'appropriazione dell'identità. Ma questa è una posizione culturalmente condizionata, eppure copiare un maestro è parte del percorso di formazione per tutti gli artisti. E una copia ben fatta (e dichiarata) può essere persino messa in commercio senza troppe preoccupazioni. Ancor di più, quindi, non dovremmo avere grossi problemi con opere originali che “somigliano” a qualcosa di già visto, per quando famoso.
C'è poi forse un aspetto linguistico che contribuisce alla confusione: il termine inglese "artist" ha un campo semantico più ampio e meno codificato rispetto a "artista" in italiano. In inglese, anche chi crea grafiche digitali, giochi, effetti visivi o illustrazioni commerciali può essere considerato un "artist". Mestieri e scenari in cui, in italiano, dovremmo probabilmente usare “artigiano”.
Secondo il vocabolario Treccani è un artigiano Chi esercita un’attività (anche artistica) per la produzione (o anche riparazione) di beni, tramite il lavoro manuale proprio e di un numero limitato di lavoranti, senza lavorazione in serie, svolta generalm. in una bottega.
Sempre secondo la medesima fonte, invece, è un artista chi esercita una delle belle arti, svolge attività nel campo dello spettacolo. Aggiunge poi il Treccani che il termine implica spesso un giudizio di valore ed è allora attribuito a chi nell’arte professata ha raggiunto l’eccellenza.
Dunque, sembra proprio che Miyazaki sia un artista a pieno titolo, ma non è detto che si possa dire lo stesso di chi lavora per lui presso lo Studio Ghibli.
La questione ontologica
Questa incerta distinzione tra artista e artigiano è tutto fuorché definitiva, ma è utile per iniziare a capire che il tema è parecchio più profondo di quanto sembri. Si può almeno sospettare, in effetti, che il vero problema non sia tanto legale, quanto ontologico: stiamo tentando di applicare categorie giuridiche e morali consolidate a un fenomeno che sta ridefinendo i confini stessi della creazione e della fruizione artistica. E quando il paradigma cambia, le vecchie categorie interpretative mostrano inevitabilmente i propri limiti.
Invece di fermarci sullo “scandalo” dello studio Ghibli, in effetti, forse è più interessante soffermarsi su come le tecnologie IA stanno cambiando la nostra realtà. E, nel caso specifico, in che modo possono modificare il concetto stesso di arte.
Un concetto che è sfuggente per definizione e che diventa più complesso ogni volta che una nuova tecnologia rende possibili nuove forme espressive.
Bisogna forse porsi domande più ampio, come che cos'è oggi un'opera d'arte? O che cos’è l’Arte? Se fosse possibile trovare una risposta assoluta e definitiva, allora forse potremmo dire qualcosa di sensato sul caso Ghibli e Open AI. Trovando quella risposta assoluta e definitiva, tuttavia, avremmo anche ucciso l’arte una volta per tutte.
Sì, perché l’Arte può esistere solo se è indefinibile; e per dimostrarlo possiamo vedere come non sia mai stato possibile fissarne una definizione che durasse più di un battito d’ali.
Già guardando ai due filosofi più famosi del mondo antico, possiamo vedere subito come l’idea di arte sia piuttosto fluida. Per Platone, come espresso nella Repubblica, l'arte era una mera imitazione del mondo sensibile, a sua volta copia imperfetta del mondo delle Idee ("L’arte imita le apparenze, non la realtà vera"). Aristotele, nella Poetica, attribuiva invece alla mimesis un valore positivo, vedendo nell'arte, e in particolare nella tragedia, una funzione catartica ed educativa ("La poesia è più filosofica e più elevata della storia: essa esprime l’universale").
Saltando in avanti di un paio di millenni, i filosofi ancora non si erano messi d’accordo.
Immanuel Kant, nella Critica del Giudizio, introduceva la nozione di giudizio estetico disinteressato e universale, definendo il bello come ciò che "piace universalmente senza concetto". Con Friedrich Nietzsche, ne La nascita della tragedia, l'arte veniva interpretata come espressione della tensione tra le forze apollinee (ordine, forma) e dionisiache (caos, istinto) ("Abbiamo l’arte per non perire della verità"). Theodor W. Adorno, nella Teoria estetica, vedeva nell'arte un baluardo di resistenza critica contro la mercificazione della cultura ("Ogni opera d’arte autentica è un atto di protesta contro la realtà così com'è").
Tutti questi approcci, pur nella loro diversità, condividono un presupposto: l'arte è un fenomeno che si definisce nel suo rapporto con il tempo, la cultura e la società.
Umberto Eco, nel suo saggio “Opera aperta” (1962), introduce il concetto di “opera aperta” per descrivere quelle opere d’arte che, per loro natura, invitano a una molteplicità di interpretazioni, coinvolgendo attivamente il fruitore nel processo interpretativo. Questa caratteristica riflette la complessità e l’indeterminatezza del mondo moderno, in contrasto con la concezione tradizionale di un cosmo ordinato e predefinito. Eco analizza esempi come la musica seriale, la letteratura sperimentale di James Joyce e la pittura informale, evidenziando come queste forme artistiche richiedano un coinvolgimento attivo del pubblico per completare il significato dell’opera.
L’idea di “opera aperta” sottolinea la relazione dinamica tra autore, opera e interprete, enfatizzando la pluralità dei significati e la partecipazione attiva nel processo artistico. Secondo Eco, l’arte contemporanea si confronta con il “disordine consapevole della vita”, rompendo con l’ordine tradizionale e abbracciando l’ambiguità e la molteplicità di interpretazioni.
In sintesi, il pensiero di Eco evidenzia come l’arte moderna, attraverso la sua apertura, rifletta la complessità del mondo contemporaneo e inviti il fruitore a una partecipazione attiva nell’interpretazione, rendendo l’opera un’esperienza sempre nuova e soggettiva.
Dunque l’Arte è un riflesso dell’epoca in cui viene creata, qualcosa che emoziona, che ci connette con la realtà ma che allo stesso tempo di offre una via di fuga dalla verità. L’Artista sarà dunque qualcuno che fa almeno una di queste azioni, giusto?
Non proprio: l’artista, come l’arte, è espressione del proprio tempo. Lo sono stati Michelangelo e Miyazaki, ma di certo non sono artisti quelli che li hanno copiati o imitati.
Ma allora come si fa a “rubare” l’arte copiandola? Probabilmente non si può. Così come non si può dissacrare ciò che è stato consacrato, a meno che non sia il fedele in prima persona a permetterlo.
L’epoca dell’AI ci impone nuove domande
A proposito di rubare e copiare l’arte, un punto di svolta è sicuramente l’avvento della Pop Art. Andy Warhol, con le sue serigrafie seriali di icone popolari, ha messo in discussione l'idea romantica di un'originalità sacrale e irripetibile - è sua la famosa affermazione voglio essere una macchina, che rimanda proprio all’idea di un’idea di umanità superata e da rivedere.
Prima di Warhol il tema era già stato affrontato da Walter Benjamin, che nel suo saggio sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica intravedeva la possibilità di una nuova fruizione più critica e democratica. Un’idea che ritroviamo, sempre in anticipo rispetto all’epoca Warhol nei lavori di Marcel Duchamp, o nelle speculazioni di André Breton e Paul Éluard. E naturalmente prima di loro c’era la famosa pipa che non è una pipa.
Dunque l’Arte non è cosa facile da definire, ed è proprio la sua natura sfuggente a renderla preziosa. Ma se un algoritmo riproduce Arte infinite volte, in che senso questa azione sminuisce l’arte stessa?
Sicuramente quelle immagini non sono arte, e allora?
Forse è giunto il momento di abbandonare la ricerca di risposte definitive e iniziare a porre domande più pertinenti. Il vero rischio non è che l'intelligenza artificiale distrugga l'arte, ma che noi cessiamo di interrogarci criticamente sulla sua natura e sul suo significato.
Lo "scandalo" suscitato dall'effetto Ghibli potrebbe riflettere il nostro attaccamento a un'idea di arte che fatica ad adattarsi alle trasformazioni in atto. L'immagine generata dall'IA non rappresenta la fine della cultura, ma piuttosto un invito a ridefinirla. Non è la morte dell'autore, ma forse la nascita di un nuovo tipo di pubblico e di nuove forme di creatività ibrida.
In effetti, forse è l’occasione di fermarci un momento e capire che l’Arte può cambiare, che il nostro piccolo altare delle cose sacre non è destinato a durare per sempre. Forse possiamo fermarci e comprendere che per continuare a difendere la nostra umanità dobbiamo aprirci al cambiamento.
Dunque, dobbiamo per forza arrenderci e cedere a un “approccio evolutivo e aperto alla comprensione dell'arte”? Forse no, ma restare arroccati su posizioni ideologiche non ha mai aiutato nessuno. Forse possiamo concentrarci sull'analisi dei processi, delle intenzioni (umane o algoritmiche), del contesto di fruizione e dell'impatto culturale di queste nuove forme espressive.
Un possibile modo di procedere potrebbe includere:
- Promuovere un dibattito interdisciplinare: Coinvolgere artisti, filosofi, giuristi, esperti di tecnologia e il pubblico in una riflessione collettiva sulle implicazioni etiche, legali ed estetiche dell'IA generativa nell'arte.
- Concentrarsi sulla funzione e sull'esperienza: Analizzare come queste nuove immagini vengono utilizzate, interpretate e integrate nel tessuto culturale. Quali nuove forme di espressione e di interazione rendono possibili?
- Riconoscere la pluralità delle forme artistiche: Accettare che l'arte può manifestarsi in modi diversi e che le nuove tecnologie possono ampliare il ventaglio delle possibilità creative, senza necessariamente sminuire il valore delle forme tradizionali.
- Investigare il ruolo dell'intenzione e della curatela: Anche se un'IA genera un'immagine, l'intervento umano nella scelta del prompt, nella selezione dei risultati e nella loro presentazione può costituire un atto creativo e autoriale.
- Riflettere sul valore dell'originalità in un contesto di riproducibilità infinita: Come cambia la nostra percezione dell'unicità di un'opera quando strumenti capaci di emularne lo stile sono accessibili a tutti?
Il fenomeno dell'intelligenza artificiale e del “furto” che rende possibile rappresenta un nuovo punto di svolta, l’occasione di riconsiderare nuovamente l’idea di arte e di artista. E, grazie a questa rinnovata visione, forse troveremo l’opportunità di ridefinire in meglio l’essere umano.
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