Il silenzioso degrado degli SSD inattivi rappresenta una minaccia spesso sottovalutata, o addirittura sconosciuta, da moltissimi utenti. Un recente esperimento condotto nell'arco di due anni ha rivelato come le unità a stato solido, quando lasciate spente e scollegate per lunghi periodi, possano gradualmente compromettere l'integrità delle informazioni memorizzate.
Questo fenomeno, cruciale per chiunque conservi backup o documenti importanti su dispositivi non regolarmente alimentati, solleva interrogativi sulla durabilità delle moderne soluzioni di archiviazione digitale. La questione è particolarmente rilevante considerando che la classificazione di resistenza degli SSD viene calcolata anche in base alla loro capacità di mantenere dati quando non alimentati.
Il content creator HTWingNut ha recentemente pubblicato i risultati del secondo anno di un esperimento in corso, utilizzando quattro SSD SATA del modello "Leven JS-600". Si tratta di unità standard da 128GB con tecnologia TLC, ciascuna con una resistenza dichiarata di 60TB di dati scritti. Su ogni dispositivo sono stati caricati 100GB di file contenenti dati casuali, accompagnati da valori hash per la successiva verifica dell'integrità.
L'aspetto più interessante dell'esperimento riguarda la distinzione tra due categorie di SSD: quelli "nuovi", utilizzati appena per caricare il set di dati di test, e quelli "usurati", sottoposti preventivamente a un intenso ciclo di scrittura di ben 280 terabyte, superando ampiamente la loro classificazione nominale di resistenza di 60TB.
Se durante il primo anno di test nessuna delle unità aveva mostrato segni di deterioramento, i risultati del secondo anno raccontano una storia diversa. L'SSD "usurato", rimasto spento per due anni, ha evidenziato una corruzione di quattro file e, cosa ancora più allarmante, un drammatico calo delle prestazioni: la verifica dei dati ha richiesto oltre quattro volte il tempo necessario in precedenza, passando da circa 10 minuti a quasi 43.
Anche l'unità "nuova", apparentemente integra con il 100% dei dati verificati correttamente, ha mostrato segni preoccupanti. I test approfonditi hanno rivelato che il sistema di correzione degli errori hardware (ECC) era dovuto intervenire oltre 400 volte per riparare bit di parità danneggiati, un chiaro segnale di potenziale deterioramento futuro.
L'analisi con Crystal Disk Info ha ulteriormente confermato il degrado dell'unità usurata: i settori non correggibili sono passati da 0 a 12, mentre il valore dei dati recuperati tramite ECC è schizzato da 11.745 a oltre 201.273 durante i test. HD Sentinel ha inoltre rilevato tre settori danneggiati su 10.000 e prestazioni caratterizzate da picchi irregolari.
Nonostante i limiti di questo esperimento, condotto su un campione ridotto e con hardware di fascia economica, i risultati sollevano importanti considerazioni sulla conservazione a lungo termine dei dati digitali. L'autore della ricerca ha condiviso anche un'esperienza personale che conferma la vulnerabilità degli SSD inattivi: dopo aver lasciato un Mini PC spento per soli sei mesi, al suo ritorno Windows rifiutava di avviarsi, richiedendo una completa riformattazione.
Questi risultati sottolineano l'importanza di riattivare periodicamente i dispositivi di archiviazione utilizzati per i backup. Contrariamente alla percezione comune che vede gli SSD come supporti più affidabili rispetto ai vecchi dischi magnetici, la loro tecnologia presenta vulnerabilità specifiche quando non alimentata per lunghi periodi.
Per chi conserva dati importanti, la lezione è chiara: anche il più moderno supporto di memorizzazione digitale richiede manutenzione attiva. Collegare e alimentare regolarmente gli SSD utilizzati per l'archiviazione a lungo termine non è solo una buona pratica, ma una necessità per preservare l'integrità delle informazioni nel tempo.
I nastri LTO sono una tecnologia troppo lontana dal mondo consumer.
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