Non sono certo che Westworld si possa definire un prodotto rivoluzionario. La “colpa”, forse, è da attribuire all’epoca storica in cui la prima stagione esordì su HBO e Sky Atlantic: il mercato seriale, infatti, conosceva molto bene il genere drama e questo tipo di narrazione contorta e articolata, ma lo show di Joy e Nolan è riuscito comunque a trovare un’identità ben definita. Il merito, in primis, è di usa scrittura fuori scala, di grande gusto e qualità, impreziosita da una regia asettica ma straordinariamente elegante, sempre pronta ad esaltare personaggi, attori e dettagli.
Dopo l’incredibile exploit del primo ciclo di episodi (secondo me uno dei migliori prodotti seriali di sempre) era certamente difficile mantenere questa qualità e soddisfare le aspettative di un pubblico ormai esigente. Sarebbe inutile stare a rivangare i pregi di questo produzione: dalla storia in senso stretto ai personaggi, passando per prove attoriali fuori scala (Hopkins, Ed Harris), voglio solo consigliare a coloro i quali non dovessero conoscere il prodotto di rimediare il prima possibile, senza attendere un secondo di più. Assieme alla prima stagione di True Detective, le prime dieci puntate di Westworld sono tra le cose migliori sfornate dalla televisione negli ultimi dieci anni.
Ad ogni modo, stavamo parlando di aspettative e qualità: la seconda stagione fa di necessità virtù e cambia tono, sviluppando il naturale corso degli eventi e andando in una direzione differente rispetto al passato. Arrivano le prime, in qualche modo giustificate, critiche e la terza stagione promette di essere ancora più divisiva: cambia lo scenario, cambia la posta in gioco, cambiano i toni, cambia, di fatto, tutto quanto. Tranne le fondamenta, forse più difficili da individuare ma comunque presenti e pronte a sorreggere gran parte della sceneggiatura.
Per quanto io ami visceralmente Westworld, questa terza stagione è sicuramente la meno riuscita. Al netto di un fisiologico cambio di pelle, ci sono alcune cose che stonano con l’anima primordiale della narrativa, ma potenzialmente fungono da ponte perfetto per il futuro (la quarta stagione è infatti già stata confermata). Se volete, dunque, seguitemi in questa disamina che, ovviamente, sarà priva di qualsiasi forma di Spoiler.
“Freeze all motor functions”“Analysis”
Nemico invisibile
Per descrivere al meglio ciò che succede in questa terza stagione, è bene riprendere un concetto accennato poc’anzi: il cambio di pelle. Come era lecito aspettarsi, uscire dal parco ed evolvere i personaggi ha portato inevitabilmente ad un cambio di tono della serie, che non può più basarsi “solamente” sull’introspezione dei protagonisti e il mistero della vita artificiale. Ora infatti la posta in gioco è più alta e vede contrapposti umani e macchine, con le rispettive parti che lottano per la sopravvivenza della loro specie. Il mondo raccontato da Westworld 3 è ampiamente tecnologico e nello svilupparsi accompagna lo spettatore in quello che, volendo essere banali, sembra uno spin-off di Matrix. Simulazioni digitali, disagio sociale e azione al cardiopalma fanno da padroni in quasi ogni sequenza. La vera sorpresa, forse, è scoprire il villain di questi nuovi episodi: un’IA superiore che “scrive” la vita di ogni essere umano, la calcola e la influenza facendo leva su un algoritmo potentissimo, con l’unico scopo di mantenere un apparente ordine.
Come recita lo slogan della stagione, “Il libero arbitrio non è libero” e presto ci ritroveremo a fare i conti con un paradigma fin troppo simile a quello architettato da Delos per i suoi host. Una vita su binari, passiva, che può solo essere subita e non controllata. È molto interessante vedere quindi come i vecchi e i nuovi personaggi si caleranno in questo contesto, per molti di loro alieno e distante anni luce da quello che avevano vissuto fino a quel momento. Dolores, determinata più che mai, Caleb (Aaron Paul) vittima del sistema e a ruota tutti gli altri. A livello interpretativo Westworld regala sempre ottime prove attoriali, con Ed Harris sempre primo fra tutti e a seguire Evan Rachel Wood e Vincent Cassel.
Non è tutto ora quel che luccica però, e come detto le nuove puntate di Westworld man mano che avanzano e sviluppano i nodi narrativi iniziano a far emergere qualche problema. In primis, vi sembrerà banale, ma non c’è un episodio memorabile. Al contrario delle due stagioni precedenti infatti questa volta non ci sono grandi picchi emotivi, piuttosto la serie mantiene una linea quasi piatta, intervallata da piccole scosse mai veramente destabilizzanti. Certo, non mancano i colpi di scena ma le tante scene d’azione e la necessità di ricostruire in qualche modo il setting narrativo ha portato a trascurare i dettagli, da sempre punto di forza dello show HBO, a favore della creazione di un nuovo contesto generale.
Per questo motivo, a conti fatti, possiamo considerare la terza iterazione di Westworld come un ponte, un collegamento per quello che verrà. Il tema centrale ha preso una piega inaspettata e sorprendente, avvicinando le due specie differenti e portando pur sempre lo spettatore a ragionare sui grandi temi della vita. La forza della sceneggiatura è stata forse più diluita, ma non certamente persa. Lo show rimane uno dei prodotti televisivi migliori degli ultimi dieci anni, e un piccolo passo falso non può compromettere il giudizio complessivo.
Arrivato all’ultimo secondo dell’ultimo episodio, mi è rimasto un po’ l’amaro in bocca. Forse è colpa delle aspettative, forse è “colpa” di quel capolavoro della prima stagione che ha fatto impennare le esigenze del pubblico. Chiudendo, però, penso che Westworld sia una gemma preziosa nel panorama contemporaneo, e la scena dopo i titoli di coda - oltre a chiudere un cerchio aperto la scorsa stagione - inietta quella dose di curiosità ed entusiasmo che ci accompagnerà fino al 2022, anno in cui dovrebbe arrivare la quarta (e forse ultima?) ondata di puntate.
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