E se i programmi avessero un’anima? Potremmo racchiudere in questo interrogativo il senso di Tron, film del 1982 in cui la ancora misconosciuta scienza dell’informatica era il vero motore della trama. L’estate dell’82, apparentemente, fu una stagione particolarmente ricca per la sci-fi cinematografica, considerato che in una manciata di mesi nelle sale americane arrivarono ET- L’Extraterrestre, Blade Runner e La Cosa, film che hanno segnato l’immaginario del periodo e segnando una vera e propria rinascita del genere. D’altronde, il genere stava vivendo una vera e propria rinascita, che grazie all’incredibile successo di Star Wars e Star Trek: The Motion Pictures, stava avviandosi a divenire uno dei generi più presenti nelle sale americane per il decennio in corso. Una rivoluzione che non poteva certo lasciare indifferente un colosso come la Disney.
La nuova sci-fi cinematografica non era più limitata alla visione venata di pessimismo tipica della produzione degli anni ’50-’60, in cui a dominare la scena erano perfidi invasori alieni o scienziati folli. Quella che era stata una produzione fortemente influenzata dalla vita reale, in cui l’alieno era la metafora del ‘pericolo’ rosso, stava assumendo una rivisitazione, che dal campo letterario, con autori come Dick, Bradbury o Asimov, si andava espandendo anche nel comparto cinematografico. Dalle prime avventure dell’Enterprise sul piccolo schermo, sino all’esplosione della sci-fi cinematografica con il primo capitolo della saga di Luca, questo moto rivoluzionario aveva presentato al pubblico americano, e di riflesso a quello mondiale, modi differenti per raccontare la sci-fi. E Tron non poteva che essere la tappa successiva.
La rivoluzione sci-fi disneyana
Facendo mente locale, in una manciata di anni la fantascienza si era imposta come una delle grandi potenzialità del mondo dell’entertainment. Se da un lato Lucas aveva creato un nuovo genere con il suo ibrido fantasy-fantascienza, altri registi stavano ritagliandosi una propria dimensione nel genere, come fece Scott con Alien prima e Blade Runner poi. La passione crescente per la fantascienza non poteva certo lasciare indifferente un colosso come Disney, che da tempo era ormai in cerca di un rinnovamento per il proprio comparto cinematografico.
Gli anni ’70 avevano lasciato ai manager Disney un dato interessante, per quanto preoccupante: se l’animazione continuava a esser fonte di soddisfazione, seppure rivolta a una demografica infantile o pre-adolescenziale, la produzione di film live action, pensati per un pubblico adolescenziale, faticavano al botteghino. Non è un mistero che Pomi d’ottone e manici di scopa (1971) fu una delusione per Disney, una batosta che costrinse i vertici Disney a prendere atto di come i teen ager americani stessero cambiando gusti, complici nuove influenze. La produzione cinematografica e televisiva del periodo stava subendo notevoli cambiamenti, la sci-fi in particolare stava avviandosi verso una rivoluzione che stuzzicava la fantasia e gli interessi anche degli adolescenti. Erano gli anni di Star Trek, delle repliche di Cittadino dello Spazio o degli incredibili racconti di Twilight Zone, ma anche delle nuove libertà di cui godeva un medium molto vicino ai teen ager, il fumetto, dove un progressivo smantellamento dei vincoli del Comics Code Authority all’interno della Silver Age consentiva di avventurarsi in nuove dimensioni, come l’horror, e approcciarsi a nuovi linguaggi, introducendo anche elementi visivamente più violenti e crudi.
La fantascienza in casa Disney, all’epoca, era presente solo nella trasposizione cinematografica di 20.000 leghe sotto i mari, tratta dal celebre romanzo di Jules Verne. Una sci-fi seminale, come lo erano le opere dell’autore francese, che era entrata nel novero delle produzioni disneyane più che altro per il suo spirito avventuroso. All’inizio degli anni ’70, invece, la fantascienza divenne un genere di interesse anche in Disney, dove comparve Space Station One, un breve racconto sci-fi, che avrebbe dovuto esser il primo passo verso la realizzazione di un film. La reticenza delle alte sfere disneyane si unì a una difficoltà nella definizione di questo progetto, che cambiò nome in Probe One prima e infine in The Black Hole. Questo film sci-fi dai toni dark e violenti, così lontano dalla tradizione disneyana, fu il punto di partenza per una nuova sperimentazione che portò alla nascita di Tron.
Viaggio dentro la macchina
Torniamo un attimo al 1976, anno in cui un giovane animatore, Steven Linsberg, rimane stregato da Pong, videogioco che all’epoca era un must. Da quel momento, per Linsberg i videogame divennero una vera passione, al punto che decise di realizzare un proprio progetto cinematografico che coinvolgesse il mondo dei pixels, ma addentrandosi in questi universi fittizi da una diversa prospettiva, lasciandosi ispirare da Alice nel Paese delle Meraviglie. Inizialmente concepito come breve corto animato, principalmente come demo promozionale per lo studio di animazione di Linsberg, quello che sarebbe divenuto Tron era una produzione in cel animation retroilluminato, effetto che si basava, in questo progetto, su una luminosa caratterizzazione dei personaggi, enfatizzando alcuni dettagli dei personaggi in modo più marcato, seguendo, per stessa ammissione di Linsberg, una certa tendenza del periodo:
“Tutti stavano realizzando progetti in cel animation retroilluminato negli anni ’70, era il disco look. E quindi ci stavamo chiedendo ‘E se avessimo un personaggio che fosse una linea neon?’, e così nacque il nostro Tron. E quando questo accade, vidi Pong, e capii subito che questa era l’arena perfetta per lui. Allo stesso modo, ero estremamente interessato ai primi tentativi di animazione computerizzata, che avevo appreso al MIT, e quando avviai questo progetto contattati un gruppo di programmatori che operavano nel settore. E mi ispirarono, soprattutto per il modo in cui credevano in questo nuovo universo”
A dare una svolta all’idea di Linsberg e del suo socio, Donald Kushner, fu involontariamente Variety, che in un articolo citò i primi passi di questo, per l’epoca, affascinante progetto. Questo diede immediato risalto a Tron, tanto che venne notato anche da Alan Kay, informatico che vedendo il potenziale di questa idea contattò Linsberg offrendo la propria esperienza e spingendolo ad abbandonare l’idea dell’animazione per passare alla CGI.
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Questo passaggio fu essenziale nello sviluppo di Tron. Il passaggio dall’animazione alla computer graphic si tradusse in un diverso approccio alla realizzazione del film. Non dimentichiamo che all’epoca questa tecnologia era ancora agli albori, anche la Industrial Light & Magic di Lucas stava affrontando le sue prime sfide nella realizzazione di effetti speciali, una condizione che non era certo ignota alle major, anche se tra esse non mancavano nomi importanti che erano disposti ad imbarcarsi in progetti arditi. Come la Disney.
Reduci dalla produzione di The Black Hole, i vertici Disney erano ancora intenzionati a percorrere il sentiero delle produzioni sperimentali, e quando venne presentato loro Tron compresero subito come questo progetto potesse rivelarsi vincente. Tuttavia, la particolare ambientazione e la presenza della rudimentale computer graphic erano considerati elementi critici, al punto che prima di dare il via alla produzione venne richiesta una demo: un giocatore di disco. Linsberg e soci realizzarono quindi un breve filmato composto da girato ‘tradizionale’, con l’aggiunta di animazione retroilluminata ed effetti computerizzati. La presentazione fu un tale successo che i vertici Disney diedero il via libera al progetto, ma serviva ancora un aspetto che, ironicamente, non doveva essere un problema per la major: il comparto animatori.
La produzione animata è da sempre un punto di forza di Disney, ma la nuova frontiera richiesta dalla computer graphic, anche applicata all’animazione, era un mondo inesplorato per Disney. Mentre altre aziende del settore si stavano muovendo in quel nuovo campo, come La LucasFilms che aveva creato la LucasFilm Computer Graphic Project (ovvero quelli che sarebbero divenuti nel 1986 Pixar Animation Studios), la casa di Topolino era ancora indietro in questo settore, e un progetto come Tron non fece che far emergere questa mancanza, come evidenziò Kushner:
“Eravamo stati accolti freddamente da Disney perché avevamo toccato un nervo scoperto: il dipartimento animazione. Ci vedevamo come una malattia arrivata da fuori, mentre noi cercavamo invece di coinvolgere diversi animatori Disney, ma non venne nessuno perché erano come un gruppo chiuso”
Motivo per cui l’animazione venne affidata, come accadeva raramente al tempo in Disney, alla Wang Film Productions. E pensare che proprio nel periodo in cui Disney stava procedendo alla realizzazione di Tron, un giovane animatore, tale John Lasseter, chiese ed ottenne la possibilità di potere sperimentare con la CGI, ma nonostante l’evidente potenzialità della nuova tecnologia, si decise di non sviluppare nulla in tal senso, per rimanere all’interno del budget.
Nonostante si pensi che Tron sia stato generato principalmente in CGI, in realtà la pellicola è in gran parte realizzate con metodi tradizionali, considerato come all’epoca la CGI fosse in grado di realizzare sostanzialmente delle immagini statiche. Una precisazione che non deve esser ignorata, considerato come per realizzare la celebre sequenza delle light cycle si siano realizzate delle immagini poi inserite in sequenza. E ironia del destino, quando l’Academy dovette decidere le nomination per gli Oscar, Tron non venne considerato per la nomination per gli effetti speciali perché l’utilizzo del computer venne considerato come un inganno. Eppure, Lasseter scoprì come questa nuova frontiera dell’animazione potesse rappresentare il futuro, al punto che si licenziò e venne poi assunto dalla LucasFilm Computer Graphic Project, il che potrebbe suggerire che senza Tron non sarebbero mai nati né la Pixar né Toy Story.
Creativi e Programmi
Il fascino di Tron, oltre alla sua particolare genesi, è come in un periodo che si potrebbe considerare germinale per la computer graphic si sia potuto realizzare un progetto simile. Al netto dell’impegno tecnico, è ammirevole come Bonnie McBride sia riuscita a porre ordine nelle idee di Linsberg e Kushner, creando una società digitale i cui i programmi sono senzienti e creano un vero e proprio culto dei Creativi, coloro che li generano. Un tentativo di ricreare un mondo virtuale che fosse una crasi tra le dinamiche reali e una società che vedesse nella nascente industria videoludica una fonte di ispirazione, al punto che, come confermato dal protagonista Jeff Bridges, per prepararsi a entrare nella parte gli attori passavano molto tempo proprio con i videogiochi:
“Ricordo che non credemmo ai nostri occhi quando, il primo giorno, arrivammo sul set e ogni parete era piena di videogiochi, che dovevamo portarci nei nostri camerini. Fu un lavoro impegnativo, ma anche divertente, mi ricordo che andato in fissa con un gioco, BattleZone, avete presente? Quello col carro armato. Dio, ore e dovevano portarmi via di peso. Potrei dire che mi stavo preparando…”
All’epoca, come detto, l’informatica era un campo ancora poco noto presso il grande pubblico, che conosceva principalmente questa tecnologia per la sua applicazione ludica, i videogiochi. In parte, la letteratura cyberpunk, comparsa in quegli anni, aveva contribuito a creare l’idea di uno spazio virtuale ricco di possibilità, ma con Tron si decise di andare oltre, creando un universo binario le cui intuizioni sarebbero state riutilizzate anche in produzioni successive, come la serie televisiva Automan. Intuizione felice fu la creazione di una controparte digitale delle persone reali, resa possibile grazie alla presenza all’interno dei sistemi informatici di dati sensibili, scelta che consentì di usare per entrambi i ruoli i medesimi attori. Soprattutto, questa visione della digitalizzazione dell’identità può considerarsi come una delle prime interpretazioni del concetto di avatar vituale.
Con Tron si diede quindi una visione completamente nuova dello spazio informatico, che contò su un trio d’eccellenza per la realizzazione di questo universo: Peter Lloyd (designer commerciale, che realizzò l’ambiente in cui si muovono i protagonisti), Jean Giraud (alias Moebius, celebre fumettista francese, che realizzò i costumi) e il leggendario Syd Mead (l’industrial designer apprezzato per Blade Runner, che si occupò di realizzare i mezzi del film, come le light cycle e la nave volante del villain). La scelta di realizzare un’arma atipica come il disco, fu dovuta a una specifica richiesta di Linsberg, che non intendeva mostrare armi all’interno del proprio film.
Tron: da flop a cult
Anche Tron, a quanto pare, risentì della maledizione dell’estate del 1982. L’impegno profuso da Disney, che rifiutò anche una copertura sul film offerta da Playboy (con modelle svestite con lo stile di Tron), non consentì di classificare Tron come un prodotto vincente. Anzi, considerata la precedente debacle di The Black Hole, il film divenne il capitolo finale della voglia di sperimentare del colosso dell’entertainment. La scarsa performance al botteghino condannò Tron a far parte del gruppo di insuccessi dell’estate dell’82, una compagnia composta da Blade Runner e La Cosa di Carpenter.
Come mai Tron è poi divenuto un cult? Di base, il primo motivo potrebbe esser il suo ruolo nell’aver dato un notevole incoraggiamento alla nascita di una sempre più evoluta tecnica di CGI. Alcune delle intuizioni alla base di Tron vennero migliorate e incorporate in produzioni successive, è vero, ma è anche la sua componente narrativa ad aver affascinato, anche se in anni successivi. L’idea dello sviluppo di questo mondo virtuale, con i suoi mezzi divenuti iconici e citati spesso nella pop culture, senza dimenticare il disco fact-totum, è divenuto un patrimonio culturale che ha influenzato artisti come i Daft Punk, oltre a essere la pietra miliare su cui si sono formate almeno due generazioni di digital artist come Lasseter, aprendo le porte a un nuovo mondo dove i pixel hanno un animano e pregano i loro Creativi.