Nel 1979 il regista Nicholas Meyer torna a mettere in scena il romanzo La macchina del tempo di H.G. Wells, allontanandosi però tanto dalla trasposizione del 1960, L'uomo che visse nel futuro, quanto dal romanzo stesso, qui attualizzato in maniera intelligente.
La premessa è la stessa nei due film: l'inventore George Wells realizza una macchina in grado di viaggiare nel tempo nella Londra vittoriana di fine ‘800. Di essa tuttavia si impossessa nientemeno che Jack lo squartatore, per sottrarsi alla cattura, fuggendo nel futuro. Wells, sentendosi responsabile di una potenziale tragedia, in cui cioè la personificazione del male possa inquinare un futuro utopisticamente immaginato come socialmente più evoluto e libero dalla violenza, parte all'inseguimento del pericoloso assassino, ritrovandosi così nel 1979, ossia il presente del film.
riflessione dolente sulla natura umana, che apparentemente non evolve mai ed è invece sempre preda di bassi istinti animali
Il racconto mette così a confronto le convinzioni positiviste di Wells (lo scrittore era un fervente socialista) con una riflessione dolente sulla natura umana, che apparentemente non evolve mai ed è invece sempre preda dei soliti bassi istinti animali quali violenza, sopraffazione, egoismo e avidità.
Fermato infine il serial killer, l'inventore tornerà nel suo tempo, disgustato dall'essere umano e forse cambiato riguardo alle sue speranze di "magnifiche sorti e progressive", affidando il riscatto unicamente alla forza dell'amore.
Del resto siamo all'alba degli anni '80 e del famoso riflusso, ossia l'abbandono della politica come strumento di cambiamento del reale e il ripiegamento sul privato.
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