Thirteen Lives, in arrivo quest’oggi su Prime Video, è una produzione che potrebbe attirare su di sé pareri negativi solo per il genere a cui appartiene. D’altronde, nel panorama dei film survival e drammatici non ci sono opere che spiccano e brillano, a meno che non si torni indietro di dodici anni, non si scomodi James Franco e non si parli di 127 ore, magari con quel tono da so-tutto-io che ormai va per la maggiore quando parliamo di film vecchi, datati o in pensione. Per chi non conoscesse questa storia, sappia soltanto che racconta un fatto realmente accaduto, e che in comune con Thirteen Lives c’è di mezzo una tragedia schivata per miracolo. Il film, diretto da un brillante Ron Howard, ci porta indietro al 2018, nel pieno del periodo dei monsoni, nella calda e umida Thailandia, che abbiamo visitato in altre occasioni. Chi si ricorda The Beach con Leonardo Di Caprio?
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Thirteen Lives, ci teniamo a chiarirlo, è ovviamente più triste di The Beach perché, come accennavamo prima, racconta di un dramma avvenuto cinque anni fa che ha coinvolto dodici giovani calciatori e il loro allenatore che sono rimasti bloccati all’interno di una grotta, dopo che avevano cercato di esplorarla fino in fondo. A causa però dell’acqua e delle piogge torrenziali, la conca si è riempita rapidamente, impedendo alla squadra di calcio thailandese di tornare indietro.
L’incidente di Tham Luang, seguito da emittenti televisive di tutto il mondo, ha tenuto con il fiato sospeso non solo i genitori dei ragazzini ma chiunque seguisse con apprensione le loro vicende, dal cellulare al tablet. Sedici giorni all’interno di una grotta senza né acqua e tanto meno cibo metterebbe in difficoltà chiunque, ma i ragazzini, supportati dal loro allenatore e dai soccorsi giunti da tutte le parti del globo, si sono fatti forza a vicenda, resistendo all’oscurità della grotta.
Potremmo pensare che Thirteen Lives sia infatti un film incentrato su di loro, ma invece si concentra sui soccorritori, sui modi migliori per salvare i ragazzini per portarli via da quel buio opprimente. Una missione complessa e non per tutti, che però deve svolgersi prima che sia troppo tardi, perché il rischio che la gola possa riempirsi totalmente d’acqua è reale. Sin da subito ci siamo accorti quale fosse la gravità della situazione dagli esperti e il contesto, mentre veniva spiegato e approfondito, apparendoci ancora più chiaro e meglio definito. È una missione adatta a pochi, una missione che non tutti possono intraprendere, perché la morte potrebbe non arrivare soltanto per quei ragazzini ma anche per chi ha scelto di mettere a repentaglio la propria vita. E la situazione, ovviamente, non è delle migliori.
“Chi salva una vita salva il mondo intero” (Talmund, testo babilonese)
Richard Stanton e John Volanthen, due soccorritori inglesi, si offrono volontari per trovare e portare via i ragazzini dalla grotta prima che si riempia, rischiando il tutto e per tutto. Richard è intrepretato da un ottimo Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli), mentre John da un convincente Colin Farrell (The Batman), collaborando l’uno con l’altro per offrire una recitazione di primo livello che ha saputo regalarci due e trenta di vero intrattenimento, facendoci sentire letteralmente in ansia per loro.
In film del genere sono ruoli complessi da interpretare, perché servono sensibilità e conoscenza dell’argomento: Ron Howard è stato abile a sfruttare il talento dei due attori e a proporre una storia avvincente, capace di tenere incollati allo schermo e mirando a far provare tensione, paura e ansia, sentimenti che ognuno dei volontari e dei soccorritori hanno provato sulla loro pelle. Il film poteva semplicemente concentrarsi sui sopravvissuti, dare una visione dell’insieme che coinvolgesse la loro disperazione e lasciasse da parte il resto; invece ha parlato in maniera approfondita dei suoi protagonisti, che nella storia vera hanno perso ben più della vita e ancora oggi vivono quei traumi.
Pensiamo a Saman Kunan, interpretato da Sukollawatt Kanarot, che si è sacrificato per salvare quei ragazzini e ai molti soccorritori che, a causa delle ferite riportate nella grotta, sono morti di varie infezioni. Man mano che la trama avanzava e il rischio di perdere i ragazzini si faceva più concreto, la cinepresa si spostava direttamente sulle riunioni e le decisioni da prendere, come se Ron Howard volesse raccontare non tralasciando nulla. È stata una scelta intelligente, perché ci ha mostrato direttamente cosa è accaduto realmente, specie con l’intromissione della politica, che voleva quei ragazzini fuori da quell’inferno a ogni costo, non calcolando i rischi e le potenziali perdite.
Richard e John, in tal senso, hanno spesso ribadito che la pazienza era l’arma per tirarli fuori ma i genitori, sempre più preoccupati, non si erano arresi all’idea che fosse meglio muoversi il più fretta possibile: la loro disperazione, che nel film è tangibile e tagliente come una roccia appuntita della grotta, la percepiamo sin dal primo momento. Le emozioni difatti prendono il sopravvento, dando ulteriore spessore al film, che è gestito con intelligenza e senza errori di sorta che potrebbero far storcere il naso ai più esigenti.
Thirteen Lives non è il primo film sulle vicende dell’incidente di Tham Luang e il rischio di creare un’opera priva di originalità era davvero dietro l’angolo, eppure Ron Howard è stato capace di tenere tutto quanto ben incollato, che non è cosa di poco conto considerato il genere del film. Al cast si aggiunge anche un brillante Joel Edgerton (Obi-Wan Kenobi) nei panni di Richard Harris, un esperto di situazioni ad alto rischio che ha lavorato con Richard per diverso tempo. Il ritmo narrativo, che non perde mai il suo spessore, è incalzante e coinvolgente, non brancolando ma mettendo in scena un risultato finale convincente ed appassionante.
Il rischio che potesse essere il classico film drammatico era in realtà tangibile, specie per il tema trattato, che non è nuovo dalle parti di Hollywood ma non è mai stato trattato con così tanta cura e rispetto per gli avvenimenti realmente accaduti. Non assistiamo soltanto a delle interpretazioni geniali, ma persino allo studio della grotta con geologi esperti giunti da alcuni paesi del mondo per salvare quei ragazzini e portarli via, come se tutti si fossero fermati, avessero smesso di correre e avessero deciso di aiutare qualcuno non per un compenso, bensì per salvarlo e basta. La morale della storia è questa: non arrendersi mai, neanche a una prigione fatta di roccia e pietre appuntite.
Un racconto commovente: Thirteen Lives è la storia di tutti
Molto spesso ci domandiamo quale messaggio conservino i film e le serie televisive, e in che modo esse vengano trattate dai registi, se con passione e intelligenza, oppure in maniera scontata e dimenticabile. Il secondo non è il caso di Thirteen Lives, perché la regia riesce a non annoiare e a tenere incollati allo schermo, facendoci sentire il peso di quegli istanti come se fossimo noi all’interno dello schermo.
Quanto è accaduto in Thailandia, in effetti, ci avrebbe potuto riguardare direttamente come è accaduto con i genitori dei ragazzini, che non sapevano se li avrebbero mai riabbracciati. I dialoghi più commoventi, in tal senso, sono proprio quelli tra gli esperti e i parenti, con qualcuno di loro che ha persino perso la speranza e chiede soltanto il corpo del figlioletto. Questo è un esempio che ha rappresentato un vero e proprio macigno, che Ron Howard ha deciso di inserire per far capire meglio la gravità della situazione, ormai sempre più delicata dopo ogni ora.
Si sarebbe potuto accontentare, tralasciando i soccorritori e le loro paure, e invece li ha coinvolti, parlando direttamente di loro e del piano per salvare i ragazzini, scegliendo un approccio diverso, che a noi ha piacevolmente colpito e convinto dall’inizio alla fine, arrivando al suo obiettivo. È un film consigliato a chiunque stia cercando una rappresentazione fedele dei fatti avvenuti a Tham Luang con un cast stellare e un regista che si prende tutti i rischi del caso, confezionando un’opera particolareggiata. Non potevamo chiedere di meglio.