Non esiste dono più grande che possa farci il cinema dell’emozionarci. Nell’incredibile immensità di storie che scorrono sul grande schermo, ci viene offerta l’occasione di spaziare in una miriade di emozioni e storie, ma all’interno di questo caleidoscopica dimensione fantastica vivono anche racconti di struggente bellezza, ritratti universalità di un’umanità spesso dimenticata che esplodono nel cuore degli spettatori, ricordandoci come la finzione scenica, a volte, possa rivelarsi uno struggente sguardo nell’umana condizione. Rientra a pieno titolo in questa preziosa galleria di ritratti The Whale, film a lungo atteso dal pubblico italiano, dopo la sua trionfale accoglienza alla scorsa edizione del Festival di Venezia.
L’incredibile impatto avuto da The Whale alla kermesse lagunare è stato uno dei motori trainanti dell’attenzione rivolta all’ultimo film di Darren Aronofsky. La proiezione in anteprima è stata accompagnata da un’ovazione per Brendan Fraser, attore dalla sfortunata carriera ingiustamente vilipeso da un’industria famelica e ipocrita, che sembra veleggiare sicuro verso una meritata statuetta alla prossima edizione degli Oscar, ma cori di apprezzamento si sono sollevati anche per l’interpretazione di Sadie Sink, volto di una nuova generazione di attori che nati dalla serialità televisiva stanno mostrando una crescita artistica entusiasmante. Un simile excursus alimenta inevitabilmente alte aspettative, che si alimentano sino al momento in cui si arriva in sala, si spengono le luci e si entra nella vita di Charlie.
The Whale: l'umanità nascosta dietro rimpianto e paura in cerca di un'ultima speranza
Charlie (Brendan Fraser) è un insegnante di scrittura creativa che tiene corsi online. Afflitto da una condizione medica legata a una forma di obesità importante, Charlie si è chiuso al mondo, vergognandosi del suo aspetto, rintanandosi in casa e smettendo di relazionarsi al mondo. Anche durante i suoi corsi, la sua webcam è spenta, presentando a suoi studenti un quadrato di oscurità laddove dovrebbe esserci il suo viso. Una vita che sembra oramai condannata a un oblio solitario, ma nel momento in cui un infarto, ennesimo di una serie, colpisce Charlie, l’uomo capisce che non può semplicemente abbandonarsi a un’entropica fine, ma deve riuscire a sanare almeno una delle sue ferite: il rapporto con la figlia (Sadie Sink).
Un evento che mette in moto un meccanismo di narrazione che si fonda sul rimorso e sul rimpianto, sulla difficoltà con cui dobbiamo fare i conti con il volto allo specchio. Charlie è un uomo che ha reso l’errore principale della sua vita la crepa della sua anima, divenendo al contempo vittima e carnefice del suo mondo, interiore ed esteriore. L’ultimo gesto di umana disperazione di Charlie è un sottile, flebile sussurro di una vita che pur conscia dei propri errori, pur essendo disperatamente rassegnata e arrendevole, cerca un’ultima occasione per trovare una scintilla di umana richiesta di perdono. Un percorso arduo, fatto di gesti di straziante semplicità contrapposti a espressioni arcigne e sguardi rabbiosamente supplicanti, costruendo un affresco emotivo travolgente.
Per quanto si sia universalmente acclamata la performance di Fraser, non c’è modo di arrivare preparati alla sua interpretazione, sin dal primo momento in cui appare in scena invadendola con la sua mole ne veniamo rapiti. Racchiuso all’interno di una figura massiccia e sofferente, Fraser riesce a dare vita a un personaggio strepitoso, fatto di sguardi e voce più che di recitazione fisica. Inevitabile chiedersi quanto del traumatico passato di questo attore troppo a lungo punito per essersi opposto al sistema sia arrivato nella tragicità di Charlie, quanto Fraser abbia visto in questo trionfale ritorno un’occasione di urlare una rabbia interiore a lungo repressa. Che sia una percezione personale o meno, Charlie vibra intensamente nell’anima degli spettatori grazie alla magnifica interpretazione di Fraser, racchiuso visivamente e metaforicamente dalla visione di Arofnosky, che indugia con maestria nei momenti più toccanti e toccanti sullo sguardo di Fraser, due occhi che ti scavano nel cuore con una disperazione che diviene l’urlo devastante di una storia che non può che riecheggiare a lungo nell’anima degli spettatori
Che Arofnosky abbia una particolare predilezione per le storie di straziante dolore non è certo una novità (The Fountain o The Wrestler ne sono ottimi esempi), ma con The Whale sembra percepire in modo più epidermico la drammaticità di Charlie. Preservando l’impostazione teatrale dell’opera, nata inizialmente come piece teatrale scritta da Samuel Hunter, il regista non forza una diversa meccanica narrativa per adattare la storia, ma sembra muoversi in direzione opposta, asservendo tecniche e stilemi al cuore della storia. La staticità del personaggio diviene quindi un elemento tanto narrativo quanto realizzativo, le riprese sono finalizzate a porre questa sofferente inamovibilità sempre al centro, anche nei momenti in cui Charlie cerca di riappropriarsi della propria umanità. La delicatezza di Arofnosky nel girare le scene in cui Charlie affronta la dura sfida dei gesti quotidiani a lungo dimenticati non è una sublimazione velenosa dello sdegno per la condizione di Charlie, ma diviene voce della sua disperata determinazione, ne costruisce ogni lacrima non vista, è eco di tutte le grida di sofferenza non udite. I rari momenti di alleggerimento esaltano personalità in cerca di una ragione di vita, tra chi la insegue come ultimo atto d'amore, e chi invece vorrebbe comprendere il proprio posto nel mondo, rispondendo a domande che ne avvelenano l'anima. Dalla sofferente volontà di Charlie di conoscere realmente Ellie e farsi conoscere da lei, passando alla ricerca di risposte ancora impercettibile da parte di questa giovane donna.
Fraser, Sink e Arofnosky, un trio eccellente per un dramma umano imperdibile
Due voci sofferenti, più legate di quanto immaginino, dove la rabbia distaccata di Ellie (Sadie Sink, la Max di Stranger Things), figlia di Charlie che viene privata della facile retorica dell’amore salvifico, per mostrarci una giovane donna sofferente e che preferisce comprendere, faticosamente. la contrapposizione tra Ellie e Charlie è il motore di questa traversia umana, attraversata da pochi personaggi, non tutti memorabili, che proprio sulla creazione di una dialettica della comprensione, più che del perdono, fonda la propria esistenza. Un rapporto appassionante, sofferto e sofferente, che culmina nell’ultimo desiderio di Charlie, metaforica accettazione di un destino che sembra assurgere ad atto d’amore verso la figlia.
Rifacendosi alla radice teatrale della storia, Charlie viene ripreso all’interno della sua stanza, luogo chiuso allegoria della sua separazione dal mondo, con una ripresa in formato 4:3 che contribuisce a dare ulteriore drammaticità al sofferente protagonista, quasi un punto di vista che riprende il modo stesso con cui Charlie vede il resto dell’umanità, i suoi studenti, nelle loro finestrelle durante le sue lezioni online. Un’impostazione scenica compressa, opprimente come la vita del personaggio, ulteriormente aggravata da una fotografia che preferisce i toni freddi, scuri. Non ci sono guizzi, movimenti improvvisi o vivacità, lo sguardo di Arofonsky è pesante, lento, echeggia la mole del protagonista indugiando sui dettagli anziché affidarsi a prospettive generose, concedendo poco in termini di retorica patetica, focalizzandosi sulla profonda e spiazzante umanità dei personaggi e valorizzata da dialoghi graffianti.
Difficile sedersi in sala per vedere The Whale, assistere impassibili alla proiezione e alzarsi dalla poltroncina senza avvertire la sensazione di avere vissuto un'esperienza umana devastante e indimenticabile. Certe pellicole non si limitano a venire proiettate, ma penetrano nella più profonda intimità dello spettatore e lì esplodono, con tutta la loro devastante potenza. Ecco la sensazione che vivrete nel momento in cui entrerete in sala per partecipare al travolgente e straziante racconto di The Whale. La pellicola di Arofnosky è un colpo al cuore, devasta gli spettatori con un una gravitas impagabile, regalando un dolore salvifico alla platea, rendendo una figura tragica come Charlie un meraviglioso ritratto di autentica umanità