Devo ammetterlo, sono andato a vedere Terminator: Destino Oscuro non dico con dei pregiudizi perché cerco il più possibile di mantenere un approccio imparziale, ma con scarse aspettative, dettate in parte dalle delusioni precedenti, in parte dal trailer fracassone e dal sapore datato, con quell'entrata in scena troppo eclatante e, mi era parso, inutilmente autocelebrativa. E invece no, mi sono dovuto ricredere. Dopo più di due ore di visione posso dire che il nuovo film del franchise Terminator, diretto da Tim Miller (Deadpool, L'Era Glaciale, episodio di Love, Death & Robots) è un bel film d'azione, tradizionale ma solido grazie anche al ritorno di James Cameron come produttore e autore del soggetto assieme a Charles Eglee, Josh Friedman, David S. Goyer e Justin Rhodes.
Adrenalinico e ipercinetico, il film offre alcune sequenze pregevoli e due o tre spunti interessanti. Certo non è e non può essere un cult come il primo (qui il link per l'acquisto su Amazon), né si propone di innovare il genere e, a dirla tutta, non è nemmeno un film strettamente necessario, perché dopo il primo nessuno degli altri capitoli ha aggiunto qualcosa di davvero importante al discorso d'insieme. Anzi forse potrebbe persino essere considerato un film fuori tempo massimo, così apertamente "nineties" nel suo sciorinare un'azione che punta ancora molto su "boom, bang & crash".
Terminator: Destino Oscuro
Ma il punto è che a Terminator: Destino Oscuro non interessa davvero essere niente di diverso da tutto questo, perché in realtà è un film che parla d'altro, del confine sempre più sottile tra uomo e macchina, ma anche del tempo e della differenza tra libertà e predestinazione. Certo, nel farlo resta comunque un film di genere che pone l'accento soprattutto sull'azione che riempie lo schermo per gran parte del tempo, ma quei cinque o sei brevi intermezzi di riflessione che lo attraversano sanno essere laconicamente ficcanti.
"Avrete anche cambiato il futuro, ma non avete cambiato il nostro destino". A pensarci bene Terminator: Destino Oscuro è tutto, o quasi, in questa frase chiave. Riconnettendosi direttamente ai fatti narrati in Terminator – Il Giorno del Giudizio (qui il link Amazon), il film mette infatti in campo una soluzione ingegnosa –che non vi dirò, tranquilli –per giustificare che, nonostante quegli avvenimenti, il futuro dell'umanità sia ancora minacciato dalle Macchine.
Nonostante tutti gli sforzi, l'impegno e i sacrifici dei protagonisti e degli esseri umani come specie, sembra proprio che la minaccia di estinzione continui a gravare sul nostro capo e che non ci siano azioni in grado, nel presente, di cambiare le sorti del nostro futuro. Il nostro dunque è un ineluttabile destino di estinzione a opera di macchine che noi stessi abbiamo creato? Il senso ultimo del film sta tutto non nella risposta che possiamo dare noi come spettatori, ma nella scelta che a un certo punto farà la nuova protagonista. Per rompere un cerchio infinito di futuri fallibili (e falliti) è infatti necessario scegliere e agire e farlo nel presente e per il presente, riprendendo in mano le redini delle nostre vite con un atto di volontà totale, che ricomprende in sé stesso anche la morte, come gesto estremo in grado di dare senso e direzione a vite altrimenti anonime.
Esseri umani sempre più simili a macchine
Del resto in un mondo in cui gli esseri umani sono sempre più simili a macchine (gli operai sostituiti da robot nella fabbrica di automobili, ma anche Grace, essere umano che per combattere più efficacemente le macchine diventa in parte macchina lei stessa) cosa distingue davvero gli uni dalle altre? Forse la capacità di amare o di provare empatia, seppur in maniera imperfetta e comunque lontana e diversa dalla nostra. Sicuramente la capacità di scegliere e di decidere liberamente. È questa che renderà la protagonista ciò che sarà nel futuro e che alla fine avvicinerà la macchina all'uomo.
La sceneggiatura di David S. Goyer, Justin Rhodes e Billy Ray gioca dunque coi luoghi comuni e gli stereotipi sull'eroina (a proposito, Linda Hamilton si merita decisamente un posto nell'olimpo delle "dure" al femminile, al fianco di Jamie Lee Curtis e Sigourney Weaver) e sulla contrapposizione binaria tra uomo e macchina, tipica di tanta sci-fi occidentale - col primo Terminator come capofila più rappresentativo - divertendosi a smontarli uno per uno, in modo sottile ma significativo, con una battuta, con un gesto fatto o mancato, più spesso col ruolo svolto nel film stesso, riuscendo a sorprendere piacevolmente lo spettatore più attento.
Conclusioni
In conclusione Terminator: Destino Oscuro non aggiunge nulla di sostanziale a quanto già detto dai primi due capitoli, ma è comunque un buon film di genere, che si lascia guardare e scorre via fluido e veloce nonostante la lunga durata. Pur restando sostanzialmente un prodotto d'intrattenimento non particolarmente innovativo, si inserisce nella saga in modo assai più convincente di quanto fatto dai capitoli apocrifi, quelli che appunto Cameron rinnega e salta a piè pari, ricollegandosi direttamente al secondo episodio. La consapevolezza nel ribaltare alcuni stereotipi e l'accenno di un approccio diverso al solito tema della minaccia tecnologica - che altrimenti saprebbe un po' di frusto luddismo ottocentesco - costituiscono poi altrettante aggiunte gradite, capaci di conferire a Terminator: Destino Oscuro uno spessore inatteso, pur non trasformandola certamente in un capolavoro assoluto.
Se vi piace il genere, dovete assolutamente riscoprire un piccolo cult dimenticato, Hardware -Metallo Letale