Tekken: Bloodline (Netflix), recensione: una prima stagione non convincente

Botte da orbi e un destino pieno di incognite: Tekken: Bloodline, la nuova serie Netflix ispirata all’iconico picchiaduro di Namco Bandai.

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a cura di Nicholas Mercurio

Un torneo, tante botte da orbi e un destino pieno di incognite: non potremmo descrivere in un altro modo la prima stagione di Tekken: Bloodline, la nuova serie Netflix ispirata all’iconico picchiaduro di Namco Bandai, prodotta da Katsuhiro Harada e Micheal Murray. Da qualche tempo a questa parte, infatti, la piattaforma statunitense sta accogliendo sempre più produzioni ispirate ai videogiochi nel suo catalogo come il deludente Resident Evil, attirando le ire dei fan di lunga data, ma riuscendo nell’arduo compito di mettere d’accordo per una volta sia la critica che il pubblico. Al netto di questo, però, Tekken: Bloodline si è presentata sin dal suo annuncio come una serie fedele al videogioco, mostrandoci nel primo trailer,  protagonisti iconici come Jin Kazama e Heihachi Mishima, una buona notizia per i più esigenti; per chi non li conoscesse, stiamo parlando di due grandi combattenti dell’universo videoludico di Tekken. Ma procediamo con ordine.

Tutto inizia dalla morte, tutto comincia da un duro addestramento…

“Bloodline”, in inglese, significa linea di sangue. In questo caso riguarda direttamente il giovane Jin Kazama, che abita con la madre lontano dalla città, imparando le arti marziali mentre cerca di sopravvivere alle risse contro i suoi coetanei. È un Kazama ma anche un Mishima, quindi nelle sue vene scorre il sangue nobile di antichi combattenti e saggi pensatori. È un ragazzo timido e introverso, che preferisce la solitudine rispetto alla compagnia di qualcuno, a meno che non si tratti di sua madre, l’unica a comprenderlo. Il primo episodio parla del loro rapporto, non esaltandolo nel modo corretto a causa di una durata breve.

La serie è composta da sei episodi, ognuno dei quali dura venticinque minuti, una durata troppo esigua per descrivere in maniera adeguata cosa lega Jin a Jun Kazama. Il rapporto tra madre e figlio, che ci saremmo augurati venisse approfondito e reso più naturale, si dimostra superficiale e poco accattivante. Tuttavia, sarà la morte di Jun per mano di Ogre a mettere in moto una serie di eventi che vanno fuori controllo. Spinto dalla vendetta, Jin trova in suo nonno Heihachi Mishina, un ricco uomo d’affari, nonché l’unico a poterlo addestrare secondo lo stile dei Mishina ovvero un modo di combattere offensivo che potrebbe ricordare il karate insegnato da John Kreese e Terry Silver in Cobra Kai.

In sintesi, i primi tre episodi della serie ruotano attorno all’addestramento del giovane Jin, tra gli insulti di un nonno che non lo ama e un passato pesante quanto macigno che sta imparando a sostenere per non dimostrarsi debole agli occhi del suo unico parente rimasto in vita. Il suo addestramento dura per quattro lunghi anni: in questo lasso di tempo Jin instaura rapporti d’amicizia, si addestra e affronta il nonno in ogni occasione per prepararsi a dovere al The King of Iron Fist Tournament, il torneo più importante per qualunque combattente di arti marziali.

Senza fare ulteriori spoiler, la serie corre sin dal primo momento, non approfondendo in maniera attenta i rapporti tra i protagonisti. È una mancanza grave, considerando gli elementi trattati da parte dei produttori, segnale di un evidente problema nella gestione degli episodi. Sono troppo pochi e troppo sbrigativi, e non spiegano purtroppo la crescita di Jin, presentando di conseguenza un’accozzaglia di avvenimenti che si rincorrono facendo perdere il filo, costringendo a rivedere le scene per avere una visione dell’insieme più completo e chiaro.

Jin cresce, picchia innumerevoli avversari di cui non conosciamo alcunché e stringe amicizie con persone che non capiamo dove incontra e come: tutto questo non viene raccontato, ed è un grande peccato perché non approfondisce adeguatamente il personaggio e le sue relazioni. Sotto questo aspetto si poteva fare di più, magari aggiungendo due o tre episodi, invece di limitarsi alle sole botte e all'addestramento, realizzati ottimamente.

Se da una parte la scrittura arranca e non stupisce, i combattimenti sono ben implementati, riuscendo a intrattenere e a divertire. Facendo un paragone con altre serie ispirate ai videogiochi, Tekken: Bloodline almeno è fedele al videogioco, pur non stupendo là dove dovrebbe mostrare tutto il suo potenziale. Insomma, almeno non è Resident Evil o Monster Hunter, perché porta su schermo i protagonisti principali del picchiaduro di Namco Bandai in maniera fedele, replicando le dinamiche di quei combattimenti. Non ci sono solo Jin o Heihachi Mishina, ma pure King, Nina Williams e il fortissimo Paul Phoenix.

All’appello non manca neppure Ling Xiaoyu, la migliore amica del nostro Jin. Tutti questi personaggi compaiono dal terzo al sesto episodio: Paul è un combattente vivace, mentre Ling è una ragazza forte e indomita. Nina Williams, è la più antipatica tra gli avversari, ma il più serioso è King, che indossa una maschera e una coda di giaguaro. La loro presenza, oltre a essere gradita, è essenziale soprattutto nel corso della narrazione che, senza fare spoiler, offre spunti interessanti che riguardano direttamente Jin e suo nonno.

Dal terzo al sesto episodio assistiamo al torneo, il momento che funziona meglio della prima stagione della serie. A salvarla sono proprio i combattimenti, le lotte e le strategie apportate dai vari protagonisti delle vicende. Essendo un anime, in Tekken: Bloodline ogni scontro è enfatizzato e portato all’estremo dagli stessi protagonisti con mosse, balzi e tecniche speciali da togliere il fiato, come siamo stati abituati in passato con Dragon Ball, Naruto e One Piece, con la sola differenza che Tekken: Bloodline non ha la stessa profondità.

Al momento risulta complesso trovare una collocazione a Tekken: Bloodline nella line up di Netflix. Si tratta di una serie deludente, priva di mordente e del guizzo necessario per proporsi in maniera completa e definita. Cerca di mostrare una sua personalità ma, a causa della fretta, perde fin troppi pezzi a causa di una narrazione confusionaria.

Cosa aspettarsi dal futuro di Tekken: Bloodline?

Una seconda stagione sembra inevitabile, considerando il finale aperto e le tante domande rimaste senza risposta. La prima stagione di Tekken: Bloodline non riesce a prendersi il tempo necessario per arrivare al suo scopo. Diverte e intrattiene con i combattimenti e qualche dialogo, ma creando fin troppa confusione là dove invece tanti altri anime vincono a mani basse. La prima stagione poteva avere un occhio di riguardo verso la caratterizzazione dei personaggi e dei protagonisti principali, dando loro uno scopo, facendoli uscire dal tatami.

Non c’è stata l’empatia che ci saremmo augurati di provare: non accade neanche con Jin, che è mosso dalla vendetta e da uno scopo nobile, ma lo conosciamo solo per questo. Di cosa vive, al di fuori degli scontri, non è dato saperlo. Va a scuola? Lavora? Come si mantiene? Il nonno, alla fine, lo accudisce e se ne prende cura? Sono tutte domande senza risposta.

Forse diluire meglio gli eventi e realizzare qualche episodio in più potrebbe essere la soluzione migliore nella prossima stagione, così da proporre una serie con un’anima e dei personaggi meglio approfonditi. Al momento siamo davanti alla classica occasione mancata, ed è un peccato perché, a differenza di tante trasposizioni ispirate ai videogiochi, Tekken: Bloodline ha tutte le carte in regola per fare meglio in futuro. Serve una struttura più solida, degli avvenimenti meglio diluiti e una personalizzazione dei protagonisti che non li renda soltanto delle macchine da guerra privi di sentimenti. C’è un contesto, là fuori, che non conosciamo affatto e speriamo possa essere approfondito in futuro in maniera più attenta.

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