Suspiria di Luca Guadagnino: grandi premesse, esiti incerti

Suspiria di Luca Guadagnino non è il remake del film di Dario Argento. Per alcuni versi è qualcosa di più, per altri molto di meno. Un film dalle ambizioni smisurate, che parte bene ma poi finisce col perdersi naufragando nella sua magniloquenza e raggiungendo solo in parte il proprio obiettivo.

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a cura di Alessandro Crea

Sin da quando, nel 2015, ho appreso dell'intenzione da parte di Luca Guadagnino di rifare Suspiria di Dario Argento mi sono interrogato sul senso e l'opportunità di questa operazione. Stasera, a tre anni di distanza, all'uscita dall'anteprima per la stampa, devo dire di non aver trovato una risposta univoca. Non so se questo sia un bene o un male.

Certamente il nuovo film non è un remake, come spiegato più volte dallo stesso regista. Non ha intenzione cioè di cancellare e riscrivere la precedente pellicola come spesso accade in tanto cinema attuale, ma parte semplicemente da uno stesso spunto per tentarne una nuova lettura alla luce di una diversa temperie storica, sociale e culturale.

Suspiria del 2018 dunque è semplicemente qualcosa di diverso dall'originale, di cui non riprende nulla se non il titolo e lo spunto di base (il punto di partenza di entrambi i film è Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey). Soprattutto Suspiria non è un horror. Guadagnino infatti disattende ritmi e topos del film di genere, proponendo non una paura viscerale, di quelle che fanno saltare sulla poltrona, ma un terrore tutto cerebrale e intellettuale, mediato e mai emotivo.

Dall'oppressione del potere all'oppressione del rimorso

Quando Dario Argento girò il suo Suspiria, nel 1977, realizzò una favola nera, potente metafora del clima dell'epoca, che stava per sprofondare definitivamente nel sangue e nel piombo, ma anche nelle stragi ammantate di mistero. Suspiria è un film cupo, claustrofobico ed angosciante, girato con i colori puri e acidi e le prospettive deformate di un cartone animato lisergico (l'ispirazione furono i colori decisi di Biancaneve, messi in scena con maestria dal grande Luciano Tovoli).

Suspiria ci racconta così di una società labirintica e misteriosa, da cui i giovani non possono uscire, condannati a soffrire, morire o diventare conniventi col Potere (la figura di Miguel Bosè), mentre questo se ne nutre per perpetrare sè stesso, in un'economia dello sfruttamento che da capitalistica diventa stregonesca. In tutto questo la magica città di Friburgo costituisce la perfetta cornice, col suo carico di mistero e le sue conturbanti architetture Liberty.

Dalla Friburgo magica alla Berlino del Muro

Guadagnino invece sposta l'azione da una città di fiaba, seppur nera e inquietante, a una concretissima Berlino, mantenendo però l'anno, il 1977. Fotografata magnificamente in toni lividi memori del miglior cinema di Fassbinder da Sayombhu Mukdeeprom, questa è una Berlino reale, di pioggia e di cemento, solcata dal Muro, attraversata dalle cronache degli avvenimenti terroristici di quegli anni e oppressa dal ricordo della recente guerra e dell'ancora più recete tensione politica USA URSS.

La cornice perfetta per un film sul rimorso e sul rimosso, nella vita dei singoli personaggi, ma anche nella Storia e nella società, ché Mater Suspiriorum è, nella descrizione che ne dà lo stesso de Quincey, la personificazione dello sconforto più totale, di chi non si ribella al proprio destino. Non contenti però Guadagnino e il suo sceneggiatore David Kajganich - apprezzatissimo autore della serie TV The Terror, una delle migliori della passata stagione –sovrappongono poi anche una riflessione sull'essere donna e l'essere madre. E qui iniziano tutti i problemi.

Grandi speranze (e grandi mezzi)

È lo stesso regista ad aver dichiarato più volte che il suo film è "un omaggio alla incredibile, potente emozione provata" quando vide per la prima volta Suspiria, a 14 anni e "il mio sogno di megalomania adolescenziale più nitido che ho".

Armato di un innegabile talento registico e di grande eleganza formale, Guadagnino mette allora in scena un lungo, lento - lentissimo – incubo di due ore e mezza, avvolgendo lo spettatore con ampi movimenti di macchina descrittivi che ci portano sempre più dentro alla storia e alla scuola di danza, fino ad affondare nelle viscere - dei personaggi, del palazzo, della Storia e delle storie.

Nel percorso fiume però Guadagnino e Kajganich mettono troppa carne al fuoco, sia da un punto di vista formale (dentro c'è di tutto, dalla video arte alle coreografie di Martha Graham) che contenutistico e il film finisce inesorabilmente per sfilacciarsi dopo una prima ora più che buona, dalle premesse ottime. Suspiria diventa così un lento naufragio del senso, procedendo per affastellamenti fino al delirante (visivamente ma anche contenutisticamente) epilogo, le cui stratificazioni di senso sono così portate all'estremo da essere solo troppo genericamente decifrabili.

La sensazione alla fine è di perplessità, dinanzi a un'opera di ottima qualità e di spessore così notevole da essere probabilmente collassata sotto il suo stesso peso. A Guadagnino va comunque riconosciuto il merito di aver scelto l'unica strada possibile - non rifare un film chiave del cinema italiano degli anni '70 -  tentando anche di rileggere una parte della Storia del '900 attraverso la lente deformante dell'horror, seppur come detto fin troppo mediato intellettualmente.

Alla pellicola avrebbe giovato una maggior compattezza in fase di montaggio (152 minuti contro i 94 dell'originale) e una scrittura più umile e meno ambiziosa, più a fuoco e più concreta, capace magari di rinunciare a costruire metafore di metafore, scambiando un'eccessiva oscurità con una più efficace chiarezza, di intenti prima ancora che di messa in scena. Il nuovo Suspiria resta comunque un film da vedere, coraggioso e al tempo stesso rispettoso nel suo approccio a un classico e anche stilisticamente bello, ma sostanzialmente irrisolto.

Suspiria di Dario Argento non può mancare nella cineteca di ogni vero appassionato di cinema, soprattutto se parliamo della superba versione restaurata, che esalta la fotografia di Luciano Tovoli.
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