Cosa c’entrano Beniamino Placido, Umberto Eco, Giuseppe Tornatore, J. K. Rowling, Dracula e Dallas? Sì, proprio Dallas, la soap opera statunitense prodotta tra il 1978 e il 1991 e che spopolò in Italia prima su Rai 1 e poi, soprattutto, su Canale 5. Apparentemente niente. O meglio, un indizio sul legame che intercorre – o potrebbe intercorrere – tra tutte queste cose è contenuto nel titolo di questo pezzo: la cultura pop. Ancora meglio, il legame originario è nel nome e nel cognome del vero protagonista di tutto il discorso, cioè Beniamino Placido.
Beniamino Placido: il piacere del raccontare
Beniamino Placido è stato tante cose: un critico letterario e televisivo, un autore e conduttore televisivo, uno studioso di letteratura americana e, più in generale, di narrazione, un intellettuale e un narratore a sua volta. Un instancabile narratore col vizio del pensiero e del dubbio. Se si escludono gli innumerevoli articoli pubblicati su Repubblica, prima come critico televisivo – è stato uno dei primi a inforcare gli occhiali della critica seria, ma non seriosa, per provare a capire con intelligenza e strumenti raffinati un fenomeno popolare come la tv, in un periodo in cui della tv e dei programmi tv, come avrebbe detto il Pippo di Pazienza, si diceva che ‘rincretineno i bimbi’ – e poi all’interno della rubrica Nautilus – di cui parlerò – Placido ha scritto pochissimo e i suoi libri si contano sulle dita di una mano: La due Schiavitù. Per un’analisi dell’immaginazione americana, La televisione con il cagnolino (che riprende, distorcendolo, il titolo di un racconto di Checov), Tre divertimenti: variazioni sul tema dei Promessi Sposi, di Pinocchio e di Orazio, La riscoperta dell’America (con Umberto Eco e Gian Paolo Ceserani), Eppur si muove (che riprende i testi e i ragionamenti del programma tv condotto da lui e da Indro Montanelli su vizi e virtù degli italiani) e una splendida presentazione della Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij, un eccezionale capitolo contenuto in I fratelli Karamazov e, a volte, pubblicato a parte. Un capitolo di cui sarebbe bellissimo parlare, magari un giorno lo farò, ma non ora.
In realtà, però, Beniamino Placido ha scritto tantissimo, proprio perché scriveva sui giornali e, in particolare, su Repubblica. Una selezione dei suoi articoli – che io attendevo con impazienza, ogni domenica, così come quelli di Gianni Clerici sul tennis, per via di quel tono e di quella invidiabile e sorniona educazione che sapeva essere illuminante, gentile oppure crudele, ma mai noiosa – è stata pubblicata qualche anno fa da Laterza in un volume intitolato Nautilus – La cultura come avventura.
Ed era proprio quello lo spirito con cui Placido ha sempre irretito me e i suoi lettori: la capacità di rendere avventurosa la conoscenza, attraverso una curiosità che si serviva di due armi implacabili (e adesso metto di nuovo i due punti, come faceva spesso Manzoni nei Promessi Sposi): l’impiego di una lingua moderna e semplice (ma non facile) e il desiderio di condurre il lettore con sé lungo un cammino, senza mai umiliarlo o ignorarlo. In altre parole, con l’inesausta passione del filosofo e del pensatore, del critico che si pone domande per il vero piacere di farlo.
E così torniamo alla domanda iniziale: cosa c’entrano Beniamino Placido, Umberto Eco, Giuseppe Tornatore, J. K. Rowling, Dracula e Dallas? C’entrano per colpa – o per merito – di un pezzo scritto da Placido nel 1990 per la rubrica Nautilus e intitolato Confessioni di un povero critico. Un pezzo che ha appena compiuto trent’anni, dunque, ma che pone una serie di domande ancora attuali e, per certi versi, incandescenti. Anzi, una domanda in particolare, che ne genere altre, a cascata.
Il ruolo del critico
Placido, prendendo spunto dalla vittoria dell’Oscar 1990 come miglior film straniero di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore – accolta da molte, moltissime critiche in Italia, dai critici e dagli intellettuali – la pose in questo modo:
“È vero che il critico è governato da una incontrollabile pulsione a premiare il prodotto raffinato (o presunto tale) e a penalizzare il prodotto cui arride per qualsiasi ragione il successo popolare?”.
Beniamino Placido fornisce subito una risposta:
“È vero. Accade puntualmente”.
Poi, passava ad argomentare.
“I casi che si possono citare rapidamente certo sono troppi ormai, perché si possa parlare soltanto di un caso. Lasciamo pure da parte il giallo, il fumetto, la fantascienza. Ma i romanzi di Jules Verne rivelano oggi a critici severissimi delle vertigini di filosofica profondità. Anche quando non si inabissano nelle viscere della Terra. Eppure, al loro tempo, chi li prendeva sul serio? I film di Totò, altro esempio ormai classico, oggi fanno parlare di surrealismo. Ma sono in grado di ricordare e di ritrovare se necessario le critiche radiofoniche Anni ' 50 di Elsa Morante, che proprio a proposito di Totò sceicco rivisto martedì sera su Raitre, parlava di film-spazzatura, o pressappoco. Di film paccottiglia. Il film nero americano degli Anni ' 40 e ' 50 è la cosa più vicina a Shakespeare che la cultura del Novecento abbia prodotto. Ma non la pensavano così certamente i critici cinematografici degli Anni ' 40 e ' 50”.
E potremmo aggiungere Hitchcock, che ha goduto e beneficiato della benevolenza di Truffaut e della celebre intervista divenuta un libro imprescindibile per chiunque ami il cinema e le storie in generale: anche il pover Alfred, mentre era in vita, e prima che Truffaut mostrasse al mondo di che genio si trattava, era considerato un regista commerciale, un povero intrattenitore che si barcamenava tra thriller, horror ed esperimenti psicanalitici velleitari. Non come i veri grandi registi. Non come i cineasti sperimentali e più intellettuali.
Lo stesso destino tocca ed è toccato a J.K. Rowling e alla sua strabiliante creatura: Harry Potter. Quanti grandi studiosi ci sono in giro disposti ad ammettere che si tratta di un capolavoro, di un’opera destinata a rimanere nella storia della letteratura come le opere di Shakespeare o l’Ulisse di Joyce (a parte Stephen King, lo Zio torna sempre)? Pochi. Pochissimi. Eppure, al di là del successo, dentro i sette libri della saga ci sono così tante illuminazioni, così tanto materiale mitologico, che si fa fatica a ignorarlo. Basterebbe prendere l’invenzione dei Dissennatori ne Il Prigioniero di Azkaban, una delle più strabilianti letture o riletture della depressione e della paura della morte, affrontata da Harry con un incantesimo tanto anti-intuitivo quanto geniale. Ma di questo parlerò un’altra volte, visto che ho intenzione di dedicare almeno un paio di pezzi a Harry Potter.
Come esser un buon critico?
Torniamo a Placido. Smonto il suo pezzo e ripropongo una domanda che lui pone all’inizio. Faccio entrare in gioco Eco:
“Il critico tiene naturalmente a distinguersi. E che distinzione è la sua, se gli piacciono le stesse cose che piacciono a tutti? A volte per motivi ignobili. È il caso dell' ondata di virtuosa indignazione che si è riversata sul Nome della rosa di Umberto Eco. Solo perché quel romanzo aveva incontrato un successo strepitoso. Che non era stato però né organizzato con fredda determinazione dall' autore, né propiziato dalla pubblicità. Altre volte per ragioni un po' più nobili. Il critico ci tiene a riservare un occhio di riguardo al prodotto che pudicamente, ma arditamente cerca di dire delle cose nuove. Che proprio per essere nuove, e sconcertanti, non possono incontrare un favore immediato”.
A Eco toccò – e spesso tocca ancora – il destino di essere tacciato di troppa popolarità, di troppo successo, di furbizia. Come se solo nella difficoltà, o nell’oscurità si annidasse per intero la verità. Mai nei prodotti popolari, quelli sono facili. Troppo facili.
E così arriviamo al gran finale. Alla domanda che Placido ha posto trent’anni fa e che, da allora, risuona senza stancarsi di farlo: ma i critici – oppure noi, quando giudichiamo cultura pop o di massa, e cultura colta o di elite – sono proprio sicuri di averci visto giusto?
Eccolo qui il nervo scoperto. Scrive Placido:
“Una volta pensavamo che la letteratura di massa ci consolasse. Anche troppo. Anche troppo facilmente. Mentre la cultura di élite, avanguardistica e spregiudicata, ci diceva le verità sgradevoli che solo noi, spiriti forti (il popolo no di certo) siamo in grado di affrontare. Adesso cominciamo a sospettare il contrario. Che sia la cosiddetta letteratura di élite a dirci poco o niente. Mentre le verità profonde e sgradevoli è proprio la cultura di massa a sussurrarcele. A suo modo si intende, fra volgarità e grossolanità insopportabili, ma ce le sussurra. Per esempio, il mito più grande e pervasivo della nostra cultura: il mito di Dracula, del vampiro viene fuori dai romanzoni popolari ottocenteschi di Bram Stoker; vive nei romanzoni popolari novecenteschi di Stephen King. Per esempio, l'unico luogo dove si può fare quella cosa bellissima che è giocare con le parole (e che si faceva un tempo con la Bibbia o con le Metamorfosi di Ovidio) è oggi la pubblicità. Prodotto di massa (ed anche sospetto) quanto nessun altro. Per esempio, chi ci ha avvertito per tempo che il nostro mondo, anche quello finanziario, è governato da conflitti tribali, da lotte opulente e truculente di clan contro clan, di famiglie contro famiglie? Chi ce l' ha sussurrato all' orecchio, se non Dallas o Dynasty?”.
Per sentire tutte quelle cose, percepirne il sussurro, però, bisogna prestare orecchio. Essere disposti a vedere dove riluce la grandezza. Magari in Harry Potter, oppure in un film di Htichcock, o in una serie come Stranger Things. O persino in Dallas. Forse è dove si sperimenta per il gusto di farlo, senza il desiderio di fare bella figura, ma di raccontare per il piacere del racconto, che si annida per intero la verità. Che arriva a pezzi, a frammenti, e tutti dovrebbero poterne disporre.
Come ha insegnato Beniamino Placido, col suo modo di scrivere paziente, la sua immensa cultura messa a disposizione di chi leggeva, il suo amore per il mondo e le persone che lo popolano. Che sono tante, a volte troppe, ma ci sono.
Potete scoprire l'incredibile lavoro di Beniamino Placido leggendo Nautilus: La cultura come avventura