Rocky: parabola di un mito americano

Rocky Balboa, ascesa, caduta e rinascita di un mito del ring: tutta la saga è ora disponibile su Prime Video.

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a cura di Manuel Enrico

Se dovessimo chiederci come sia possibile che un film uscito nel 1976, su cui nessuno sembrava volere puntare un dollaro, sia ancora oggi uno dei cult più amati di Hollywood, dovremmo volgere lo sguardo a una statua posta in cima a una scalinata, dove un pugile alza trionfante le braccia al cielo, immaginando di sentirlo gridare tra le urla della folla esaltata il nome della sua amata Adriana. Nella parabola di Rocky Balboa si racchiude l’essenza di una storia umana, mirabilmente costruita su alcune delle grandi suggestioni dell’american way che hanno colpito non solo il pubblico statunitense, ma anche gli spettatori all’estero, che hanno visto in questo ragazzo emerso dai bassifondi un lottatore, capace di combattere non solo con la forza dei suoi pugni ma anche con il suo cuore. Difficile immaginare come sarebbe stato il cinema senza Rocky, uno dei due grandi eroi moderni che hanno trasformato un giovane attore emergente in uno dei volti più amati di Hollywood.

Non poteva esser altrimenti, considerato che il fulcro emotivo di Rocky scaturisce dal vissuto personale del suo interprete, Sylvester Stallone, che non è solamente il volto del pugile italoamericano, ma ne è stato anche il creatore. Più di una sinergia tra narratore e personaggio, il rapporto tra Stallone e Rocky trascende la finzione, affonda le sue radici nei difficili inizi di un attore che sembrava non riuscire ad andare oltre a pellicole di bassa lega, in attesa di poter finalmente trovare la sua grande occasione. Non stupisce quindi che Rocky sia una storia in cui occasioni, sacrificio ed errori si intreccino con una dinamica realistica e palpabile, perché il mito del pugile italoamericano non è semplicemente finzione, ma è una fotografica di un periodo storico preciso, raccontato tramite una figura che rappresenta, nel bene e nel male, l’ideale americano con cui abbiamo identificato gli States per un ventennio. Una passione, quella per Rocky, che possiamo ora rivivere grazie all'inserimento dei film della saga del pugile italoamericano all'interno del catalogo di Prime Video.

Rocky Balboa, ascesa, caduta e rinascita di un mito del ring

Gonna fly now: la nascita di Rocky

Non si può capire Rocky se non si comprende prima chi era Sylvester Stallone negli anni ’70. Una carriera che sembrava non decollare, che aveva portato Stallone a toccare realmente il fondo, arrivando a vivere per strada e accettare di comparire anche in un film soft porno (The Party at Kitty and Stud’s), salvo poi trovare la strada verso i palchi di off-Broadway, nella speranza di arrivare al grande schermo. Gli anni ’70 per Stallone furono un decennio di delusioni, tra occasioni mancate, come il non essere preso come comparsa ne Il Padrino, e l’accettare parti minori mentre si sbarcava il lunario con svariati lavori, dal guardino dello zoo alla maschera nei teatri. Anche in questa disperazione, tuttavia, Stallone non si arrendeva, cercava un modo di migliorare la propria figura di attore, anche impegnandosi nella scrittura, affinando la sua tecnica non immaginando quanto questa sua scelta avrebbe giovato negli anni a venire.

Ripensandoci, questo calvario di Stallone è esperibile anche nella vita di Rocky Balboa, come lo abbiamo visto nel primo film della fortunata saga. Entrambi vengono da famiglie italoamericane di umili origini, entrambi faticano ad emergere nel proprio campo e sembrano essere l’immagine perfetta dello sconfitto. Eppure, per entrambi basta un’occasione, quella svolta improvvisa che può cambiare l’esistenza.

Per Stallone, questo turning point ha una data: 24 marzo 1975, quando vide il match tra Muhammad Ali e Chuck Wepner. Un incontro che gli appassionati di boxe ricordano bene, vinto da Ali per KO tecnico alla quindicesima ripresa, dopo che Wepner stupì tutti resistendo per quindici riprese arrivando persino a mandare al tappeto il leggendario campione alla nona ripresa. Quello che per la storia della boxe è uno degli incontri più emozionanti, fu la scintilla ispiratrice per Stallone, che in meno di tre giorni scrisse la prima bozza di sceneggiatura di quello che sarebbe divenuto Rocky, basandosi non solo sull’emozione vissuta durante quel match, ma andando a cercare sostanza per la sua storia nelle vite di grandi nomi del ring, da Rocky Marciano (compresa la sua autobiografia Somebody Up There Likes Me) a Joe Frazier. Quest’ultimo in particolare è da considerarsi come un padre ideologico di Rocky, visto che molti dei momenti cult del film, dall’allenamento nella cella frigorifera alla celebre corsa sulla scalinata, sono state creta da aneddoti sulla vita di Frazier.

La storia scritta da Stallone era basata su un giovane pugile squattrinato, Rocky Balboa. Cresciuto a Philadelphia, Rocky ha il sogno di divenire un pugile professionista, ma sembra mancare sempre l’occasione, schiacciato da una vita ingiusta a cui sembra non sapere come porre rimedio. Una vita in cui Stallone sembra riconoscersi, in questa fase della sua carriera, arrivando a identificarsi a tal punto con la sua creatura da avere un’unica condizione per realizzare il suo film: essere lui stesso l’interprete di Rocky.

Sweetest victory: la conquista dei cinema

Il primo tentativo di realizzare Rocky venne caldeggiato da Henry Winkler. L’Arthur Fonzarelli di Happy Days, dopo esser stato compagno di set di Stallone in Happy Days – La Banda dei fiori di pesco (The Lords of Flatbush), aveva presentato la sceneggiatura di Stallone ai vertici della ABC, che videro il potenziale dell’idea, ma ne vedevano un futuro come film per la TV, riscrivendo pesantemente la sceneggiatura stessa. Spaventato da quello che la ABC avrebbe potuto fare alla sua creatura, Stallone implorò l’amico di non lasciare che il network rovinasse il suo Rocky, preghiera a cui Winkler reagì facendo pesare il proprio status di attore di punta dell’ABC per spingerli a cedere nuovamente la sceneggiatura a Stallone.

Sostenuto dalla Film Artist Management Enterprise (FAME), Stallone fu guidato da Craig T. Rumar e Larry Kubik nella ricerca di un possibile sbocco per la sua sceneggiatura, forti della convinzione che Rocky sarebbe stato un film vincente. Nonostante la loro capacità di convincere diversi studios delle potenzialità del progetto, il problema principale nel concretizzare le offerte era la resistenza di Stallone a cedere ad altri il ruolo del protagonista. Una condizione che Stallone impose nuovamente quando ad interessarsi dalla sua sceneggiatura fu la United Artist, che vedeva nella figura del pugile italoamericano l’occasione per valorizzare attori emergenti come Robert Redford o James Caan. A risolvere la questione fu un dettaglio delle procedure degli studios: se un progetto avesse richiesto un budget relativamente basso, i produttori avrebbero potuto realizzarlo senza alcuna necessaria autorizzazione dai vertici. Tramite questo escamotage, nonostante alcuni dubbi da parte degli stessi produttori, Stallone riuscì a garantirsi il diritto di interpretare il pugile che aveva ideato.

Ad affiancare Stallone in questo primo episodio della saga, furono dei volti che divennero rapidamente parte integrante del mito di Rocky. Carl Weathers ebbe il ruolo di Apollo Creed dopo avere simulato durante il provino un incontro di boxe con Stallone, lavorando poi sulla caratterizzazione del suo personaggio ispirandosi a Joe Frazier. Per il ruolo di Mickey, l’allenatore di Rocky, si erano pensati diversi attori, ma la parta alla fine andò a Meredith Burgess (il Pinguino della serie tv cult di Batman con Adam West), perché fu l’unico ad accettare di fare un provino, mentre altri attori come

La necessità di contenere il budget, però, costrinse la produzione a fare scelte che contenessero i costi, ma che, sul lungo periodo, si rivelarono parte integrante di quella che sarebbe divenuta la mitologia stessa di Rocky. La scena del romantico primo appuntamento tra Rocky e Adriana, sulla pista di pattinaggio, inizialmente era stata pensata durante l’orario di apertura dell’impianto, ma il costo delle comparse era talmente alto che si decise di cambiare la scena e renderla meno costosa, inscenando il tutto durante l’orario chiusura. Per la stessa ragione, le scene in cui Rocky corre per le strade di Philadelphia non sono state realizzate chiudendo le vie, ma Stallone ha corso realmente in mezzo alla gente, suscitando la curiosità dei presenti, al punto che la scena in cui vediamo un negoziante lanciargli contro un’arancia nasce da un gesto spontaneo dell’uomo.

A rendere memorabile Rocky è anche la costruzione registica del film, che riesce a cogliere la disperazione della vita di Rocky nei momenti più tesi, e la recitazione di un cast che pur essendo composto quasi interamente da giovani promesse del cinema stupisce per l’intensità della loro recitazione. Talia Shire, che era stata apprezzata come la figlia di Vito Corleone ne Il Padrino, regala un’Adriana delicata e timida, complice un’influenza che aveva colpito la Shire durante le riprese e che la spingeva a evitare il contatto con i colleghi, facendo risultare il suo personaggio schivo e timido.

Tutte queste componenti furono essenziali nel rendere Rocky il film dell’anno nel 1976, portando per la prima volta un film sullo sport a vincere l’Oscar. Il successo di questa pellicola fu un vero e proprio trampolino di lancio per la carriera di Stallone, che divenne rapidamente uno dei volti più richiesti di Hollywood, soprattutto all’interno del nascente filone degli action movie. Ironicamente, anche il suo famigerato esordio nel soft-porno con The Party at Kitty and Stud’s ebbe una seconda vita, quando venne riproposto con il titolo di Italian Stallion, giocando sul soprannome dato a Rocky nel film (lo stallone italiano), indice di come la popolarità del personaggio e del suo interprete fossero oramai in crescita costante.

Livin’ in America: Rparlare all'America

Perché Rocky ha avuto così tanto successo? Volendo fare un parallelo, la saga del pugile italoamericano è uno specchio della mentalità americana e della sua evoluzione per un decennio. Nel primo film, Rocky non ha nulla di eroico, non è un personaggio ideale, considerato che vive di espedienti e lavora come picchiatore per uno strozzino. A tutti gli effetti, un antieroe, che sembra esser vittima di una vita dura e ingiusta, calcata all’interno di una definizione della società americana bene precisa, rappresentata dalle atmosfere decadenti della periferia di Philadelfia. Rocky e il suo mondo sono lo specchio di un’America povera, dei dimenticati, quelli che attendono un’occasione per riscattarsi e ribaltare la propria condizione. La contrapposizione con Apollo Creed in tal senso è essenziale: tanto Rocky è disperato quanto Apollo è all’apice. Mentre Rocky vive in condizioni disagiate, Creed ha una vita di ricchezza, che lo rende anche sprezzante nei confronti di questo pugile dilettante.

Metaforicamente, anche nella dinamica pugilistica ritorna questa dissonanza. Creed combatte con potenza e aggressività, soprattutto dopo esser stato messo al tappeto alla prima ripresa da un sorprendente Rocky, che invece decide di far valere la resistenza e la rapidità. Idealmente, Rocky ci viene presentata come un incassatore, abituato a ricevere pugni dalla vita è in grado di sostenere anche la forza di Creed, in attesa di poter colpire a sua volta. Questa definizione di Rocky fa breccia facilmente nel cuore degli americani, da sempre pronti ad ammirare le storie di rivalsa, in cui lo sconfitto designato trova infine il modo di emergere, attraversando difficoltà apparentemente insormontabili ma che ne diventano la forza interiore. Non a caso, in Rocky compare quello che sarà il tratto distintivo della saga, una radicata dualità tra vita privata del personaggio e il suo ruolo di pugile.

La parabola di Rocky all’interno del primo film potrebbe esser considerata come una storia autoconclusiva, resa ancora più epica dal fatto che il rookie viene sconfitto dal campione, dopo una lunga battaglia sul ring. Una vittoria morale, se vogliamo, che trova nella perentoria affermazione di Creed che non ci sarebbe stata una rivincita il segno che il campione riconosce il valore del suo sfidante. Sotto questo aspetto, Rocky è appassiona perché consacra Balboa come un antieroe, lo rende un personaggio non pienamente positivo ma al contempo desideroso di un riscatto, che pur non culminando nella sperata vittoria, arriva comunque tramite l’acclamazione popolare. Un tratto di vicinanza all’americano medio che diventa la cifra stilistica delle pellicole successive.

Non si può mancare di notare come la saga di Rocky sia caratterizzata da ascese all’olimpo dello sport e rovinose cadute che minano la stabilità della famiglia Balboa. Più Rocky ottiene onori, più sembra che la vita presenti conti salati al pugile, che si ritrova spesso a dover ripartire dal basso, che si tratti della sua incapacità di gestire l’improvviso successo, come in Rocky II, o il dover far fronte ad errori altrui, come accade in Rocky V. Quale che sia la causa, Balboa si trova a dover gestire una vita di alti e bassi, alimentando una mitologia del combattente che trascende la figura dello sportivo, toccando corde emotive che gli spettatori possono percepire come reali. Merito certamente di un’ispirata scrittura, che Stallone ha gestito cercando di mantenere una linearità nell’evoluzione del personaggio, privilegiando l’aspetto emotivo della vicenda umana rispetto alla componente sportiva, creando un equilibrio concreto in grado di mutare secondo le esigenze della narrazione.

The Eye of the Tiger: la saga di Rocky Balboa

Il successo di Rocky, primo film sportivo a fare incetta di Oscar, non poteva che dare vita a una saga che consacrasse ulteriormente Rocky Balboa Sr. come simbolo del cinema degli anni ’80. Dopo gli eventi del primo film, Stallone aveva immaginato di proseguire il suo rapporto con il pugile italoamericano.

Fedele alla sua volontà di ritrarre una figura realistica, Stallone per Rocky II (1979) abbandonò l’idea di rendere Balboa un uomo di successo (aveva addirittura immaginato di renderlo senatore), preferendo mostrare infine il lato pericoloso del successo improvviso. Il Rocky che ritroviamo ha scialacquato il denaro guadagnato con l’incontro con Creed, da cui uscito con un grave danno all’occhio che non gli consente di combattere ancora. In tutto questo, con un figlio in arrivo, Rocky non riesce a trovare una nuova strada, sino a quando Creed non inizia a stuzzicarlo pubblicamente per la rivincita, spinto dalle voci che vedono il campione aver truccato l’incontro con Balboa. Dopo un’iniziale ritrosia, Rocky accetta infine di affrontare Creed dopo la nascita del figlio e lo sprone emotivo di Adriana, che lo portano a salire sul ring e battere Creed.

Vittoria che porta Rocky a valutare seriamente l’abbandono del ring, come viene annunciato dal pugile all’inizio di Rocky III (1982). La notizia viene rovinata dalla veemente sfida di Clubber Lang (Lawrence Tureaud, il Mr. T di A-Team) che accusa Rocky di non volerlo sfidare per paura di esser sconfitto, accusa che spinge Rocky ad accettare lo scontro, nonostante l’opposizione di Mickey. L’allenatore infatti vede un Balboa oramai compiaciuto e non all’altezza di affrontare l’affamato Lang. Poco prima dell’incontro, Lang aggredisce Rocky e il suo entourage, colpendo Mickey che, colpito da infarto, muore proprio mentre Rocky viene sconfitto sul ring. Dopo aver assistito a questo dramma, Apollo Creed offre a Rocky un’occasione unica: allenarsi assieme a Los Angeles per ritrovare la grinta, o come lo definisce lui ‘occhi della tigre’. Allenandosi assieme, i due sviluppano una forte amicizia, che culmina, dopo la vittoria di Rocky contro Lang, in una rivincita a porte chiuse del loro storico duello.

Un’amicizia che viene spezzata dalla morte di Apollo in Rocky IV (1985), avvenuta durante lo scontro sul ring con il pugile sovietico Ivan Drago (Dolph Lundgren), dopo che Credd ha accettato la sfida lanciata dai russi a Rocky, che aveva invece declinato. La voglia di Apollo di tornare sul ring dopo cinque anni di inattività viene pagata a caro prezzo, spingendo Rocky a tornare in attività per vendicare l’amico. Uno scontro non solo fisico ma anche ideologico, che trova una concretezza nella diversità di allenamento dei due pugili, freddo e ipertecnologico per Drago, vecchia scuola e più fisico per Rocky. Una rivalità che arriva sul ring la notte di Natale, quando dopo una lunga sequenza di ganci e affondi Rocky riesce a mettere al tappeto il russo, tra le ovazioni del pubblico e concedendosi un discorso finale che auspica la fine della Guerra Fredda.

Una vittoria che avrà un caro prezzo per il pugile americano, come scopriamo in Rocky V (1990). Dopo l’incontro con Drago, Balboa ha subito gravi danni cerebrali, e tornato in America scopre di aver perso tutto per via di un’incauta mossa del cognato Paulie, ritrovandosi improvvisamente costretto a dover vendere il poco rimasto per coprire i debiti. Impossibilitato a tornare sul ring, Rocky trova lavoro come allenatore nella vecchia palestra di Mickey, mentre Adriana torna a lavorare nel negozio di animali in cui Rocky la aveva conosciuta. Un momento duro per Rocky, che si sente incapace di provvedere alla famiglia e incolpa sé stesso della situazione, sino a quando non vede nel giovane Tommy Morrison una promessa della boxe da crescere. Una sorta di riscatto personale che porta Rocky a focalizzarsi sul giovane pugile, trascurando la famiglia, sino a quando Tommy non viene sedotto dalle lusinghe dell’avido procuratore George Washington Duke, che lo allontana da Rocky per renderlo il nuovo campione del mondo. Ottenuto il titolo, Morrison non viene osannato come vorrebbe, ma il pubblico lo condanna per avere abbandonato Rocky, spingendo il giovane a un confronto in strada con il suo vecchio allenatore, che infine lo atterra, venendo sostenuto dalla famiglia.

Rocky aveva però un ultimo incontro da affrontare, che lo attendeva in Rocky Balboa (2006). Dopo la morte della moglie Adriana, Rocky gestisce un piccolo ristorante dove intrattiene i clienti raccontando aneddoti del suo passato. La voglia di tornare sul ring è forte per Rocky, che sente di avere ancora forza per combattere, e quando una simulazione di uno show televisivo mostra che Balboa potrebbe tenere testa a Mason Dixon, nuovo campione del mondo, Rocky decide di tornare sul ring, nonostante l’opposizione del figlio Robert e del cognato Paulie. Un match duro e combattuto, che viene infine vito ai punti da Dixon, chiudendo idealmente il cerchio della carriera di Rocky Balboa, inserito in un film in cui viene presentato uno dei migliori dialoghi dell’intera saga, quando Stallone spiega al figlio Robert (Milo Ventimiglia) cosa sia il carattere:

Ora ti dirò una cosa scontata, guarda che il mondo non è tutto rosa e fiori è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Nè io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita perciò andando avanti non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti… così sei un vincente e se credi di essere forte lo devi dimostrare che sei forte, perché un uomo vince solo se sa resistere non se ne va in giro a puntare il dito contro chi non c’entra accusando prima questo e poi quell'altro di quanto sbaglia. I vigliacchi fanno cosi e tu non lo sei, tu non lo sei affatto, ma comunque ti vorrò sempre bene Robert non può essere altrimenti, tu sei mio figlio sei il mio sangue sei la cosa migliore che ho al mondo ma finché non avrai fiducia in te stesso la tua non sarà vita.. E passa a salutare tua madre...
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