Con buona pace dei fan dell'agente segreto più celebre di Sua Maestà, in questi giorni è arrivata un’altra doccia fredda: l’ennesima cancellazione dell’uscita al cinema del nuovo capitolo di James Bond. In un periodo come quello attuale, in cui l’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere il cinema e ha causato il ritardo , si potrebbe supporre che sia proprio la difficoltà di tornare in sala il motivo di questo ennesimo ritardo, ma questa volta a sconfiggere la spia britannica non è stato il virus (o la Spectre), bensì uno dei punti di forza delle ultime pellicole di James Bond: il product placement.
Sembra incredibile, ma quello che è uno dei principali, seppure poco noto, supporto alla produzione cinematografica è solo l’ennesima vittima della complessa situazione di questo ramo dell’entertainment. Nel caso specifico di Bond, i continui ritardi hanno richiesto di rigirare alcune scene in quanto i prodotti lì presenti non sono più attuali, quindi il product placement non aveva più la sua ragione di esistere.
Potrebbe sembrare un discorso incomprensibile, ma, in questi casi, il tempismo è fondamentale. Per comprendere bene questo meccanismo, che si manifesta anche in altri media come il videogioco, conviene prima fare un breve ripasso storico.
Product placement, dagli albori ai tempi moderni
Il primo caso di product placement è coevo della nascita del cinema. Quando ancora i film erano poco più che cortometraggi, spesso i registi si focalizzavano su oggetti di uso comune per realizzare i loro primi lavori, come nel caso di Sunlight, opera dei Lumière, che vedeva al centro della pellicola un sapone omonimo. All’epoca, ossia la fine dell’Ottocento, il cinema non era ancora un business, quindi la volontà di utilizzarlo come veicolo pubblicitario era totalmente inesistente.
https://youtu.be/IEAGETbKnmUPer anni i film furono forieri inconsapevoli di una pubblicità sottile ma percepibile, spesso utilizzata per trasmettere quello che era una modalità dei registi di mostrare il realismo dei loro film. Quando però l’industria cinematografica cominciò a diffondersi, la presenza di brand strategicamente inseriti per colpire l’occhio dello spettatore divenne una leva commerciale non indifferente. Una lenta, ma progressiva definizione di una funzione non solo scenica ma economica, che seguì di pari passo l’evoluzione della percezione del cinema come intrattenimento di massa, arrivando anche a contagiare anche la serialità televisiva.
Un percorso che è letteralmente esploso a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, trovando una prima connotazione moderna nel più evidente esempio di product placement: Blade Runner. Il capolavoro di Ridley Scott, infatti, è emblematico, grazie alla presenza di marchi che, all’epoca, fecero carte false per apparire nei maxischermi pubblicitari della Los Angeles del domani. Coca Cola, PanAm, Atari, tutti i grandi nomi del business americano del periodo volevano esser presenti in quello che appariva come un affresco del domani. Ironia del destino, tolta Coca Cola, tutti i marchi reclamizzati fallirono in pochi anni, dando a Blade Runner un altro dei suoi tratti peculiari, seppure scaramanticamente negativo, che lo hanno reso un cult del cinema.
Ma davvero una pubblicità all’interno di un film può cambiare la percezione del pubblico rispetto a un brand?
Product placement tra alieni e viaggi nel tempo
Un esempio su tutti: E.T. L’Extraterrestre. Quando Spielberg stava lavorando al suo film, all’interno della trama era necessario un particolare momento a dei dolciumi, e il regista pensò alle M&M, contattando l’azienda produttrice per una collaborazione, ottenendo dalla Mars un secco rifiuto. La produzione si rivolse quindi a una concorrente che produceva un prodotto simile, la Hershey, che accettò decidendo di investire un milione di dollari sul film. All’uscita del film, la scena che non aveva convinto la Mars portò la Hershey ad aumentare le vendite del proprio prodotto del 70%, una crescita che aumentò negli anni seguenti, quando i Reese’s Pieces visti in E.T. continuarono a mostrare il viso amichevole del rugoso alieno e vennero venduti in tutti i cinema americani.
E questo successo fu tale che il product placement divenne un elemento sempre più presente all’interno dell’industria cinematografica, con cifre sempre più alte, dettate dalla tipologia di copertura offerta ai brand nelle pellicole. Come accadde per Ritorno al Futuro, in cui la presenza dei marchi aveva anche la valenza di contestualizzare le diverse epoche storiche in cui si viaggiava Marty McFly, o per puri casi della vita.
Nike non pagò un centesimo perché Marty indossasse le sue scarpe. Quando Michael J. Fox sostituì Eric Stoltz, iniziò a recitare indossando delle Nike proprie, ma ben presto si rese necessario avere dei ricambi. Peccato che quel modello non fosse più in commercio, così il produttore Bob Gale contattò la Nike per acquistare eventuali fondi di magazzino, ma l’azienda inviò gratuitamente decine di paia. Mossa intelligente, considerato che a costo zero ebbero il loro marchio in vista per ben tre pellicole.
Diverso, sempre in Ritorno al Futuro, fu la presenza della Pepsi. In questo caso ci fu un accordo sin dall’inizio tra produzione e azienda, che si concretizzò nella fornitura da parte di Pepsi di materiale promozionale storico, da utilizzare soprattutto per le scene ambientate negli anni ’50. Niente fondi in cambio di materiale di scena, un product placement che consentì al film di avere materiale e alla Pepsi di avere una bella pubblicità.
Come realizzare il product placement
Teniamo presente, però, che non sempre la presenza di un determinato prodotto in scena è legato al product placement. Non sono rari i casi in cui la citazione di brand sia una scelta autoriale legata a particolari necessità narrative, complice il fatto che alcuni prodotti sono diventati parte integrante della nostra quotidianità, e vederli in scena può aumentare il coinvolgimento dello spettatore. Come accaduto per Stranger Things, serie divenuta un fenomeno culturale per la sua maniacale ricostruzione degli anni ’80, ottenuto anche citando Coca Cola, o gli Eggo, che non hanno pagato la produzione della serie dei fratelli Duffer, ma hanno beneficiato di pubblicità gratuita grazie alla necessità degli sceneggiatori di voler contestualizzare la loro storia anche tramite la presenza di prodotti noti e di uso comune.
Il product placement ha diversi modi di manifestarsi. Si può decidere di mettere un determinato prodotto in primo piano in scena (screen placement), renderlo un elemento centrale della trama (plot placement) oppure far si che un personaggio citi il prodotto o un brand (script placement). Una simile pratica ha assunto sempre più importanza, tanto che il product placement ha richiesto la nascita di figure professionali e dipartimenti preposti che se ne facciano carico.
Ma questa pratica del product placement che effetto ha avuto sull’industria cinematografica?
Decisamente si, considerato come il product placement, visto l’immane giro di affari che anima, ha richiesto una regolamentazione precisa, che non poteva che nascere nella nazione in cui il cinema ha la sua massima espressione: gli Stati Uniti. Pur non essendo sancito da una normativa stringente, il product placement negli States è controllato dalla FCC (Federal Communication Commission, l’ente di controllo delle telecomunicazioni), che ha sancito in tempi relativamente recenti l’obbligo di esplicitare questa prassi segnalandola nei titoli di coda (quelli che raramente guardiamo, curiosamente). Spetta invece alla FTC (Federal Trade Commission, ossia l’ente di tutela dei consumatori) vigilare sulle pubblicità esplicite, tramite un regolamento che non viene osservato per il product placement, ma che sancisce dei paletti operativi entro cui bisogna muoversi per evitare di finire soggetti alla censura della FTC.
Diversa è la gestione del product placement nel nostro cinema. In Italia questa prassi è stata regolamentata solo nel 2004, tramite un decreto abrogato una decina di anni dopo, ma le cui linee guide sono state riconfermate successivamente dal Legislatore attraverso un nuovo decreto del Ministero dei Beni Culturali. I punti fermi perché si parli di product placement sono due: che sia esplicitato nei titoli di coda la presenza di prodotti e brand e che tale presenza “deve integrarsi nello sviluppo dell’azione, senza costituire interruzione del contesto narrativo”. Limitazioni non da poco, che hanno portato alla nascita di una serie di agenzie di servizi specializzate nella gestione del product placement.
Ma tutto questo impegno ha un ritorno economico?
L'impatto del product placement
Apparentemente sì, considerato come, a partire dalla concezione moderna del product placement dei primi anni ’80, l’investimento nei brand nel product placement ha seguito una crescita constante, con un picco di incremento impressionante nel decennio 2005-2015, quando si è passati da 2 miliardi di dollari di investimenti a 10 miliardi, con un rateo di crescita costante, almeno sino al 2019. Lo scoppio della pandemia, infatti, con le conseguenti limitazioni che hanno colpito l’industria dell’entertainment, ha segnato una flessione di questa crescita, che ha comunque mantenuto un trend positivo.
È quindi comprensibile che anche il product placement rientri nelle logiche di pianificazione delle attività legate a un film, dall’uscita alle campagne marketing. Ecco spiegato quindi come mai No time to die abbia dovuto rimandare la sua uscita: era necessario rispettare accordi commerciali legati al product placement. Le aziende che hanno legato il proprio nome alla spia inglese hanno dovuto comunque far uscire i prodotti il cui lancio era legato alla missione di Bond, ma i ritardi dell’uscita in sala rischiavano di far saltare onerosi accordi commerciali. Motivo per cui si è ulteriormente rimandato No time to die dal 2 aprile 2021 sino al prossimo autunno.
Questo dimostra non solo l’impatto che il product placement ha sul mondo del cinema, ma anche come un contesto diverso, come quello seriale, potrebbe esser visto dagli investitori, specie in questo periodo, come un affare più sicuro e redditizio, contando che attualmente gli investimenti in questo ramo sono più abbordabili e la serialità sta diventando sempre più diffusa. Scenari in evoluzione, comunque, che per ora ci lasciano la certezza che 007 ha rimandato nuovamente la sua uscita in sala, questa volta per esser al servizio segreto, ma non troppo, del product placement.
Potete rivivere la saga di James Bond acquistando il cofanetto James Bond Collection