C’è un genere con cui Robert Kirkman non si sia cimentato? Il barbuto autore americano sembra aver impostato la propria carriera autoriale come una continua sfida, basato sul confronto con i topoi classici della narrativa per arrivare a una loro nuova definizione. Gli zombie sono divenuti il suo tratto più distintivo, grazie all’incredibile successo di The Walking Dead, ma non meno importanti sono stati il suo desiderio di riscrivere il canone supereroico con Invincible o il calarsi nelle atmosfere criminali con lo spettacolare Thief of Thieves. L’estro di Kirkman non conosce limiti, e da questa sua verve è scaturito un altro fumetto, sempre pubblicato sotto l’egida di Skybound in America: Outcast.
Dopo essersi cimentato con l’orrore dei non morti con The Walking Dead, per Outcast il buon Kirkman ha deciso di rifarsi a un altro grande classico della narrativa orrorifica: la possessione. Declinata in mille possibilità, dal grande cinema con L’Esorcista alle innumerevoli proposte fumettistiche, come il nostrano Samuel Stern, Outcast fa del concetto di possessione il suo fulcro. Ma come da tradizione, Kirkman non si limita a seguire una strada già tracciata, compie solo i primi passi sul sicuro sentiero tracciato da altri, per poi avventurarsi su terreni sconosciuti. Un talento che è uno dei punti di forza dell’autore americano, che comporta un rischio non indifferente, tant’è vero che, contrariamente all’incredibile successo di Invincible e The Walking Dead, Outcast non ha goduto del medesimo splendore. Non tanto in termini narrativi, dove Kirkman ha nuovamente mostrato la sua visione precisa della caratterizzazione di personaggi e ambientazione, quanto in ricezione da parte del pubblico, che probabilmente ha patito la perdita di una verve più dinamica presa per assodata dopo la lettura di The Walking Dead.
Outcast: la possessione riscritta da Robert Kirkman
Ma questa assenza di dinamismo fisico, di corse e lotte per la sopravvivenza, lascia spazio a una diversa forma di lotta, una guerra interiore che spinge anche i lettori a interrogarsi sulla propria percezione del mondo. La tradizione dei racconti sulla possessione tendono a contrappore demoni e angeli, Inferno e Paradiso, trasformando l’esorcista nell’eroe portatore di luce e speranza laddove le tenebre hanno trovato terreno fertile. Una narrazione che vede nella Fede una presenza costante, principalmente di forza nel lottare contro il maligno, quasi un’arma sacra contro l’incedere di Satana e delle sue schiere. Kirkman si emancipa rapidamente da questo archetipo, liberandosi da una prevedibile storia di santi e demoni, preferendo indagare nei più reconditi anfratti dell’animo umano. Non è un caso che la serie tratta da Outcast si sia persa rapidamente, non tanto per la separazione dalla narrazione del fumetto, quanto per la sua incapacità di trovare una corretta impostazione scenica per mostrare al meglio la profonda interiorità della storia.
Kyle Barnes non è un eroe, non salverà il mondo per una missione divina. La sua esistenza è caratterizzata dalla sofferenza, da un male interiore che, nei primi capitoli di Outcast, lo vede protagonista di un deprecabile episodio di violenza domestica che lo ha portato a perdere la propria famiglia. Un predestinato, se vogliamo, considerati i trascorsi familiari, con un padre assente e una madre affetta da turbe psichiche che, in seguito a non meglio precisato incidente domestico, vive da anni in stato vegetativo. Per il consesso civile, Kyle è un reietto (in inglese, outcast), una figura stigmatizzata dai suoi concittadini, a tratti patetico nella sua auto-commiserazione che lo conduce verso un’inerzia autodistruttiva.
A cambiare la situazione è il reverendo Anderson, esorcista locale, che vede nei trascorsi di Kyle un qualcosa di diverso. Lo sguardo della Fede, potremmo chiamarlo, che riconosce negli episodi violenti del passato dell’uomo uno schema, un piano divino. Un aspetto tradizionale della narrativa di genere, a ben vedere, che nelle mani di Kirkman diventa l’ennesimo, affilato strumento per muovere una non troppo velata critica ad aspetti nella vita americana, dove la religione diviene sin troppo spesso una matrice emotiva foriera di preconcetti e di precetti che privano l’individuo del diritto ad autodeterminarsi, portandolo a cercare conforto in un’arrendevole sudditanza a figure carismatiche portatrici di soluzioni facili a dilemmi complessi. Una chiave di lettura particolarmente evidente nella seconda parte di Outcast, quando gli eventi messi in moto da Kirkman prendo un ritmo sincopato, travolgente al punto da annullare una ricerca di logica.
Comprensibile, visto il tema, ma nella prima parte di Outcast la costruzione emotiva della storia si basa su un confronto tra accettazione razionale e spiritualità. Non obbligatoriamente fede, considerato come la possessione non è vincolata alla presenza di demoni, quanto a entità che si muovono nella cittadina teatro della vicenda più come un cancro, una malattia dilagante che viene, incredibilmente, accolta da alcuni cittadini. L’intuizione di Kirkman è privare la possessione della sua radice di malvagità, di demoniaco, rendendola al contrario una scelta, un’accettazione di una sorta di seconda vita in risposta a insoddisfazioni personali, quasi una speranza in un mondo migliore.
Il Male siamo noi
Sotto questa luce, il ruolo di Kyle e padre Anderson diventa ambiguo. Laddove padre Merrin era il salvatore dell’anima immortale della giovane Reagan, i due esorcisti di Outcast spesso sembrano imporre una cura anche presso chi non intende guarire. Non mancano personaggi che sembrano voler riavere la propria normalità, ma è evidente anche come alcuni dei posseduti di Outcast sembrano accogliere questi spiriti volontariamente, quasi cercandoli. Chi è, dunque, la vittima? Chi è il demone, il cattivo della storia? Il punto di rottura di Outcast con la tradizione del genere è il non segnare un confine evidente, ma avvolgere il tutto in una zona d’ombra morale, dove bene e male si dissolvono, lasciando spazio a un’individualità, specchio di paure, di ansie, anche di male di vivere, che spinge ad accogliere qualunque parvenza di speranza. Che sia la Fede in un Dio assente, o la promessa di un’Ascensione, come inizio di una nuova esistenza.
Una sofferenza greve, semplice ma devastante, che trova nel tratto di Paul Azaceta un perfetto interprete. Le tavole di Azaceta sono spezzate raramente da dinamismi e scatti muscolari, anche nelle situazioni più concitate il focus rimane sulla caratterizzazione emotiva dei protagonisti. Una valorizzazione dell’interiorità che passa, sul piano fisica, nella ricerca di chiavi fisiche a rappresentanza di anime spezzate, spesso anticipate da frammenti di disegno in cui sono posti al centro del campo visivo del lettore dettagli minuti, che siano uno sguardo, un gesto o un oggetto. Azaceta interpreta la costruzione emotiva di Kirkman al meglio, se ne fa portatore con una personale violenza, basata non sulle esplosioni di forza muscolare, ma su una costruzione delle tavole che mira ad animare la lettura con una perenne, latente tensione.
saldaPress ha pubblicato Outcast in passato in volumi a colori, ma la forte connotazione delle tematiche di Kirkman trovano una maggior potenza nella recente edizione Raccolta. Due corposi volumi in formato bonellide, caratterizzati da una colorazione in scale di grigi, bianco e nero che è stata curata dallo stesso Azaceta. Una chiave cromatica perfetta per ritrarre questo complesso affresco umano, reso graffiante da una serie di dialoghi rivelatori e impietosi, pugnalate al cuore del lettore nella lucida analisi delle crepe dell’animo umano, capace all’improvviso di far trapelare un barlume di speranza. I due volumi di Outcast – Raccolta, come in passato quelli di Thief of Thieves, sono il modo migliore non solo per recuperare un ottimo fumetto, ma per assaporarne lo spirito autentico al pieno delle sue potenzialità, sino al finale in cui lo sguardo di un sospettoso Kyle ci ricorda che alla fine tutto in Outcast è riconducibile a un semplice interrogativo:
“Tu cosa faresti per le persone a cui vuoi bene? Fin dove ti spingeresti?”