Non è una novità che tra il Marvel Cinematic Universe e l’Academy non sia mai scoccata la scintilla. Negli oltre dieci anni di vita della dimensione cinematografica degli eroi marveliani, in ben poche occasioni si sono tributati onori sottoforma di statuetta all’opera di Feige e sodali, segnando una spaccatura non solo tra il franchise disneyano e l’establishment hollywoodiano, ma anche rendendo il Marvel Cinematic Universe il parafulmine di una spietata avversione da parte di uno zoccolo duro dell’industry nei confronti del filone supereroico contemporaneo. Per praticità, infatti, si è portati a dire che l’Academy detesta cordialmente il Marvel Cinematic Universe, considerato come nell’ultimo decennio Iron Man e soci siano stati le incarnazioni per eccellenza dei cinecomics, ma le radici di questa avversione sono più ampie di quanti si immagini.
Ovviamente, in un periodo in cui i film Marvel erano campioni di incassi osannati dai fan e da parte della critica, era inevitabile che, agli occhi dell’Academy, divenissero i perfetti capri espiatori di una visione miope del cinema. Registi noti per esser stati portatori di grandi rivoluzioni nel linguaggio cinematografico come Martin Scorsese non hanno fatto mistero di avere una certa avversione per questo filone cinematografico, mentre nuove generazioni di cineasti e di attori si sono lasciati andare a commenti ben poco lusinghieri sui film dedicati ai supertizi. Commenti che spesso venivano interpretati come segni di un’invidia malcelata, una ritorsione da parte di una presunta schiera di grandi artisti che non riuscivano a considerare questi film come opere emotivamente appaganti al pari di colossi come The Irishman o Dune.
L'Academy e gli Oscar mancati del Marvel Cinematic Universe: Hollywood odia i cinecomics?
Avversione che mancando di fare breccia nel cuore del pubblico, vero motore del successo del Marvel Cinematic Universe, ha trovato una sorta di sfogo rivestito di autorevole saccenza nell’osteggiare agli Oscar i cinecomics. Si potrebbe opinare che Black Panther ha vinto l’Oscar come miglior film e che anche quest’anni il Marvel Cinematic Universe ha vinto una statuetta per i costumi di Black Panther: Wakanda Forever, una sorta di benevola dimostrazione di apertura da parte dell’Academy nei confronti dei cinecomics. Sarà veramente un segno di distensione o forse dietro c’è un ragionamento più sottile?
Al momento della vittoria del primo capitolo delle avventure della Pantera Nera marveliana, non poche voci avevano visto nell’Oscar non tanto un riconoscimento per il titanico lavoro dei Marvel Studios, quanto una sorta di esaltazione di una storia che onorasse le radici africane del personaggio, identificandole come un segno di valorizzazione della cultura afroamericana. Una premiazione venata di ipocrito moralismo (pur riconoscendo la bellezza del film diretto da Ryan Coogler), soprattutto considerando come sia ben poco credibile che un regista nato e cresciuto negli States possa concepire una visione coerente e concreta di una popolazione africana, per quanto essa sia tecnologicamente avanzata e moderna. Nel creare una sinergica identificazione tra il punto di vista di Coogler e quello che si presuppone sia una storia sull’Africa, assurdamente si crea un corto circuito in cui si annulla proprio quel senso di riconoscimento culturale che ha portato a premiare il film.
E ad accrescere questo senso di straniamento, arriva l’Oscar ai costumi vinto da Black Panther: Wakanda Forever quest’anno, battendo una concorrenza ben più solida, come Babylon. Soprattutto, in un periodo in cui la qualità del Marvel Cinematic Universe ha segnato una pericolosa flessione ,soprattutto nella Fase Quattro di cui Wakanda Forever era il finale, con debolezze sul piano narrativo e ancor più preoccupanti cali qualitativi nel comparto tecnico. Nuovamente, quindi, una scelta che sembra indicare non tanto un merito realizzativo, quanto un voler premiare una nuova apertura a un’altra minoranza, quella latino-americana, incarnata da Namor e dal suo regno subacqueo.
Prima che si alzino voci indignate, lasciatemi dire che ero uno dei più accesi sostenitori di Angela Bassett come vincitrice dell’Oscar come attrice non protagonista, considerata la sua sontuosa performance nei panni della regina Ramonda, culminata in un discorso di regale ma sofferto dolore proprio in Wakanda Forever. Ma concedere a un film del Marvel Cinematic Universe un simile onore sarebbe stato troppo, soprattutto se si poteva concedere questo tributo a un film che rappresenta una parodia di tutto ciò che viene odiato dall’Academy nei cinecomics: Everything Everywhere All at Once.
Film divertente e affascinante, dotato di una personalità spiccata e di un’innegabile poesia, ma che ha fatto una strage di premi e riconoscimenti che ancora oggi, per me, rimangono un mistero. La sensazione è che l’Academy abbia visto in questa lisergica avventura una sublimazione dell’anti-cinecomics, una riscrittura ironica e irriverente delle regole del film sui supereroi, ridicolizzando in parte il concetto stesso di super, esaltando l’umanità dei personaggi. Peccato che questo discorso vada contro la visione dei ‘supereroi con superproblemi’ tipica della Silver Age del fumetto supereroico, ma pare evidente che oltreoceano una certa resistenza artistica sia ancora portata a vedere nei film sui supereroi l’incarnazione di quel dispregiativo ‘fumettone’ con cui la critica appellava un tempo film ritenuti poco meritevoli.
Non solo Marvel Cinematic Universe nel mirino
Attenzione, però, a non trasformare il Marvel Cinematic Universe in un martire dell’Academy, perché non se la passano certo meglio i film della Distinta Concorrenza. Ci si potrebbe illudere che l’Oscar come miglior attore a Joaquin Phoenix per Joker (diciamolo, strameritato!) sia dimostrazione di una maggior considerazione per i cupi eroi DC Comics, ma il film di Todd Phillips non era solamente una pellicola stilisticamente lontana dai canoni dei cinecomics, ma si spingeva a omaggiare in modo più che evidente le suggestioni della New Hollywood, non ultimo Re per una notte (King of The Comedy) di Scorsese. Ironia del destino, o forse semplice beffa voluta, il cinecomics meno cinecomics visto sinora, un derivativo della visione artistica del più grande detrattore di questo filone, porta a casa una delle statuette più prestigiose. Più che una rivalsa del genere, sembra un’ulteriore, sferzante accusa dell’Academy: solo facendo il ‘nostro’ cinema, siete degni di un riconoscimento.
Spiegando come sia possibile che un film dall’alto profilo autoriale come The Batman non abbia visto un’interpretazione potente come quella di Paul Dano degna di esser competere per il titolo di miglior attore non protagonista. Il primo capitolo del Cavaliere Oscuro di Matt Reeves avrebbe meritato ad esempio la candidatura per la miglior fotografia, ma si è preferito al contrario dare un contentino inserendo il film in categorie predestinate, come effetti speciali (assegnati d’ufficio a Avatar: La Via dell’Acqua) o per il miglior trucco (davvero poteva non esser assegnato a The Whale?). Nuovamente, viene da chiedersi quanto queste nomination siano frutto di una sincera ammirazione per il titolo, e quanto un atto dovuto per porter evitare le accuse di non considerare a dovere i cinecomics.
Dire che l’Academy odia il Marvel Cinematics Universe è ingiusto. Dire che l’Academy odia i cinecomics è forse più corretto. Il futuro del genere, ora che anche DC sembra volere dare alla propria versione cinematografica una struttura più organizzata, potrebbe subire una scossa, necessaria soprattutto ora che anche il pubblico di appassionati inizia a mostrare una voglia di contenuti diversi e più curati, percependo una certa stanchezza nel genere, complice una qualità calante soprattutto nel franchise trainante, il Marvel Cinematic Universe. La complessa relazione tra cinecomics e Academy potrebbe vedere in questi nuovi stimoli una chiave di lettura differente, portando, si spera, a una diversa percezione da parte dell’establishment hollywoodiano di un genere che ha comunque mostrato di poter offrire dei grandi capitoli di storia del cinema.