La Vetta degli Dei, recensione: Stairway to Heaven

L'adattamento animato de La Vetta degli Dei di Jirô Taniguchi è disponibile da oggi su Netflix.

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a cura di Domenico Bottalico

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È disponibile da oggi su Netflix, La Vetta degli Dei. Si tratta dell'adattamento animato, una produzione franco-lussemburghese, dell'omonimo manga del grande Jirô Taniguchi (edito in Italia da Rizzoli Lizard, acquistate il primo volume su Amazon) pubblicato fra il 2000 e il 2003 in Giappone e a sua volta adattamento del romanzo a puntate, pubblicato fra il 1994 e il 1997, dello scrittore Baku Yumemakura.

La Vetta degli Dei, la montagna e destini che si incrociano

Nel 1924, gli inglesi George Mallory e il suo compagno di cordata Andrew Irvine si apprestano a un'impresa mai tentata prima: la scalata senza ossigeno degli 8848 metri del monte Everest. L'impresa sarà improba: i due infatti non torneranno mai più indietro non solo trovando sulle pendici della montagna il luogo del loro eterno riposo ma anche lasciando avvolto nel mistero l'esito stesso della spedizione. Sono stati loro i primi nella storia a raggiungere "La Vetta degli Dei"?

La risposta potrebbe essere nella macchina fotografica che Mallory portava sempre con sé e che riappare improvvisamente 70 anni dopo a Kathmandu davanti agli occhi del giovane fotoreporter esperto di alpinismo Fukamachi Makoto. Tuttavia non è solo la macchinetta a incuriosire il giovane ma anche l'uomo a cui pare "appartenere", un uomo senza due dita di una mano. Per Fukumachi inizia così una caccia all'uomo perché il particolare della mano risveglia in lui dei ricordi.

Investigando a ritroso, il fotoreporter riconosce nell'uomo il misterioso Habu Jôji, una volta promessa dell'alpinismo giapponese apparentemente ritiratosi dalle scalate dopo un incidente sulle Alpi. La vita e le imprese di Habu e dei suoi rivali diventano così il filo conduttore dell'investigazione di Fukumachi che entra così in un modo di uomini ossessionati dalla conquista della vetta più alta in imprese solitarie che testano i limiti del corpo e della mente.

Dopo innumerevoli sforzi riesce a rintracciare l'uomo proprio alla vigilia di una nuova, impossibile impresa: scalare in solitaria l'Everest senza ossigeno. Lo sviluppo della pellicola della macchinetta di Mallory potrebbe cambiare la storia dell'Alpinismo allo stesso modo che documentare l'impresa di Habu. L'uomo però è tutt'altro che incline al contatto sociale avendo vissuto quasi 10 anni in completo isolamento con l'unico obbiettivo di portare a compimento l'impresa che si è prefissato.

Fukumachi tuttavia riesce a convincerlo, i due così iniziano la scalata ma la montagna non perdona e proprio Fukumachi comprenderà che la scalata ancora prima che un gesto fisico ed atletico è uno stato mentale che trascende il riconoscimento pubblico e la gloria.

La Vetta degli Dei, Stairway to Heaven

La montagna come limite da superare è al centro della narrazione de La Vetta degli Dei. Un limite ancora prima che fisico, mentale. Un tema che potrebbe sembrare scontato vista l'ambientazione ma che viene riletto con un taglio coinvolgente e delicatissimo in questo adattamento animato in cui la sceneggiatura a sei mani firmata da Magali Pouzol, Patrick Imbert e Jean-Charles Ostorero lavora di sottrazione rispetto alla mole di materiale originale trovando nella componente detection l'espediente per coinvolgere lo spettatore utilizzando come ideale red herring la macchinetta fotografica di Mallory.

Ben presto però la narrazione si sdoppia e da semplice investigazione diventa indagine sulle motivazioni e sulla psicologia di Habu Jôji che ricorda molto vagamente il Capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville. La sua ossessione per la perfezione nella scalata, la sfida a distanza con il suo rivale e il suo successivo ritiro dalle scene vengono seguiti così sia in prima persona in sequenze in analessi ma anche nella ricostruzione stessa di Fukumachi.

Due filoni narrativi che viaggiano paralleli e che monopolizzano idealmente i primi due atti del film in cui il regista Patrick Imbert stabilisce il ritmo e il tono della pellicola. Il primo è costituito da una alternanza fra i momenti di relativa quiete prima delle imprese e la tensione e l'adrenalina delle stesse, il tono invece matura in una introspezione del protagonista Fukumachi che dapprima è semplicemente ossessionato dal ritrovare Habu e la macchinetta fotografica di Mallory poi rimane affascinato dalla figura e dalle vicende del suo connazionale compenetrandone psicologia e motivazioni.

È proprio negli ultimi 30/35 minuti che La Vetta degli Dei si dimostra un film superlativo. Riducendo al minimo dialoghi e musiche, la scalata di Habu con Fukumachi al seguito diventa una sfida silenziosa fra uomo e natura in cui i suoni della montagna diventano preponderanti. È in questa eterea solitudine che Fukumachi riesce finalmente a comprendere pienamente le motivazioni di Habu e cosa rappresenta la montagna per un finale spirituale e "aperto" in cui anche svelare il destino di Mallory passa in secondo piano per un'ultima inquadratura malinconica che contrappone idealmente il paesaggio cittadino visto dall'alto alle distese innevate delle montagne.

La realizzazione tecnica

L'approccio all'adattamento de La Vetta degli Dei è estremamente rispettoso verso il lavoro compiuto da Jirô Taniguchi sia stilisticamente che idealmente. È il realismo a muovere regista, sceneggiatori ed animatori. In questo senso graficamente l'approccio è ancora una volta di sottrazione: lo stile di Taniguchi viene riprese ma stilizzato optando per una suggestiva animazione 2D che ben si adatta alle atmosfere introspettive del film in cui i contorni delle figure sono netti, con linee nere spesso grezze e spesse, mentre vengono esaltate soprattutto le espressioni dei personaggi.

Dove la tecnologia, e quindi il 3D, entra in gioco è nella ricostruzione delle montagne che assumono toni vibranti e "vivi" grazie ad un fotorealismo che le allontana dal mero ruolo di sfondo pittorico trasformandole in più di una occasione in personaggi attivi e in taluni casi letali. 

Registicamente i movimenti di camera sono posati e mai nervosi. Anche nelle scene più tese, ovviamente quelle delle scalate, si predilige un approccio che esalti l'inquadratura prima del movimento di camera anche con lievi deformazioni dell'angolo atte a mostrare la maestosità della natura o la pericolosità delle manovre in atto. Gli effetti speciali sono ridotti al minimo evitando di abbandonarsi ad un "realismo magico" che avrebbe tradito il realismo dell'opera, da segnalare qualche lievissimo calo dei framerate nell'animazione ma solo in alcune sequenze iniziali.

Due note a margine. Consigliata la visione in lingua originale, cioè in francese con sottotitoli eventualmente, è infatti molto buono il lavoro dei doppiatori transalpini. Nota di merito anche alle musiche mai invadenti e sempre puntuali. Si passa da un rock/funky anni '60/70 a brani in cui a prevalere sono gli archi fino a brevi cenni di synthwave che sfumano nel terzo atto, come descritto poco sopra, per lasciare spazio ai suoi ambientali.

Conclusioni

La Vetta degli Dei è un film di animazione eccezionale, forse uno dei migliori adattamenti animati di sempre e sicuramente uno dei migliori contenuti in assoluto disponibili su Netflix. Stiamo parlando di un lavoro maturo, poetico e riflessivo il cui target è sicuramente quello adulto ma potrebbe affascinare anche qualche spettatore più giovane. Pur concedendo, inevitabilmente, qualcosa rispetto all'opera originale di Jirô Taniguchi, la visione è ovviamente consigliata anche ai fan del sensei che non rimarranno delusi.

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