In Nome del Cielo, recensione: il fanatismo religioso nel cuore dell'America

In nome del cielo è la nuova serie true crime di Disney Plus con Andrew Garfield ambientata nel mondo delle sette religiose.

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a cura di Manuel Enrico

La fede è una componente essenziale della mentalità americana, una presenza diviene sempre più forte man mano che ci si allontana dai grandi centri e ci si addentra nella dimensione rurale degli States, fatta di luoghi remoti in cui questo tratto assume valenze sociali importanti, tali da sovrastare persino le leggi federali e assurgere al rango di vera e propria fonte di vita per intere comunità. Può sembrare un’antitesi per una società che appare spesso lontana dai precetti più noti della religione, ma oltreoceano il ‘credere’ ha un modo differente di palesarsi, come scopriremo in In nome del cielo (Under the Banner of Haven) miniserie in arrivo su Disney Plus che ha fede e Stato al centro della propria storia.

In nome del cielo si inserisce in una tradizione contemporanea di crime story ispirati a fatti reali, un filone narrativo che, romanzando per il gusto dello spettatore eventi spesso assurti alla popolarità, consente di avere un ritratto più onesto dell’american way. Sembra che l’indagine su crimini efferati sia il modo migliore per guardare oltre la patina di ipocrita perfezione con cui spesso ci sono stati presentati gli States, come se l’emergere del lato oscuro dell’animo umano diventi la lente tramite cui scoprire le pecche di una società spesso idealizzata, ma capace di rivelarsi profondamente contradditoria e crepata da separazioni e odi intestini pronti a deflagrare in modo strepitoso.

In nome del cielo, quando la fede diventa fanatismo

Non è un caso che la fonte ispiratrice di In nome del Cielo sia un libro di Jon Krakauer, Under the Banner of Haven: A Story of Violent Faith (2003). Krakauer è noto come un valido giornalista investigativo, autore di reportage che indagano su crimini efferati cercandone una radice che non sia limitata al singolo evento, ma risalga a più profonde implicazioni. Con Under the Banner of Haven, partendo da un omicidio esecrabile, Krakauer ha deciso di ricostruire il culto mormone della Chiesa di Gesù Cristo Santo degli ultimi giorni, svelandone la storia e cercando di individuare un punto di rottura con la società americana ‘tradizionale’. Un intento che è alla base di In nome del cielo, che ha trovato in Dustin Lance Black (premio Oscar per Milk) un perfetto tramite per la serialità.

Lo Utah viene sconvolto dall’efferato delitto di Brenda Lafferty (Daisy Edgar-Jones) e della piccola Erica, brutalmente assassinate nella loro abitazione. Quando la polizia arriva sul luogo del delitto, guidata del detective Jeb Pyre (Andrew Garfield), dopo una rapida perquisizione trovano nel giardino antistante l’abitazione Allen Lafferty (Billy Howle), ricoperto di sangue e in evidente stato confusionale. Tratto in arresto, Allen rivela di essersi allontanato per cercare aiuto, dopo aver trovato la propria famiglia brutalmente assassinata, dando vita a un racconto che unisce una dinamica familiare complessa e una sorta di delirio persecutorio.

A complicare l’indagine è il nome delle vittime, Lafferty. Nello Utah questa famiglia guidata dal patriarca Ammon (Christopher Heyerdahl) è una sorta di istituzione, un clan di matrice religiosa che è divenuto il simbolo stesso della chiesa mormone. I figli di Ammon Lafferty sono riusciti a ritagliarsi, forti di questa influenza, un posto di prestigio nella società dello stato, come il maggiore, Ron (Sam Worthington), divenuto un affermato impresario edile, e Dan (Wyat Russell) che segue le orme paterne. Questo loro potere e la forte pressione che la chiesa mormone esercitava all’epoca nello Utah, capitale di questo culto, rendono l’indagine di Pyre del collega Bill Taba (Gil Birmingham) complessa e legata alla tutela di interessi messi pericolosamente in gioco dal restroscena di questo delitto.

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Black non manca di tributare al lavoro di Krakauer il giusto primato, affidandosi alla sua ricostruzione del delitto, con i precisi riferimenti al culto mormone, per delineare una situazione sociale opprimente. Intrecciando flashback che raccontano la storia del culto, nato nel ‘700 con Joseph Smith, con la deriva fanatica incarnata dalla famiglia Lafferty, specialmente dal Dan di un perfetto Wyat Russell, Black presenta allo spettatore un ritratto acido e graffiante dei pericoli della deriva fanatica, non mancando di evidenziare quel latente senso di sfiducia nel potere di Washington che aleggia spesso nelle comunità remote dell’America. La ribellione verso leggi considerate ingiuste viene ammantata di una luce di sacra rivoluzione, divenendo a metà della serie uno dei motori dell’incombente tragedia.

Un'America fanatica lontana dal nostro immaginario

Ad esser particolarmente emozionante è la presenza di due personaggi creati appositamente per In nome del cielo, Pyre e Taba. La tradizionale coppia di poliziotti, profondamente diversi e spesso in antitesi, ma comunque uniti da un profondo senso di giustizia, anche quando questo lede i propri principi o li spinge a doversi porre contro una comunità che mal tollera il diverso.

Il Pyre di Garfield è delicato, umano, mostra un’anima che si ritrova a doversi dividere tra la propria fede e il proprio compito, dovendo sottostare a delle imposizioni che nascono da un tentativo di preservare uno status quo che ha il gusto amaro di una dittatura morale. Garfield si muove in questa indagine devastante con la sua consueta recitazione fatta di emotività e sincerità espressiva, presentandosi come il nostro alter ego emotivo per vivere questa sanguinosa vicenda. Poliziotto integerrimo, padre affettuoso e figlio preoccupato per le cagionevoli condizioni di salute della madre, Pyre viene ritratto da Black e Garfield con una spiazzante onestà, ne viviamo tutte le difficoltà grazie all’espressività autentica di Garfield. Una vena di autenticità, giocata su una recitazione per sottrazione e sempre molto contenuta, enfatizzata dal contrasto inziale con il più anziano collega Bill Taba, che Birmingham rende in prima battuta quasi astioso, ma risolvendo rapidamente quello che sembra un contrato con Pyre in una sincera amicizia, in cui l’esperienza del collega più maturo e il suo esser un outsider della comunità gli consentono di esser più libero nei giudizi rispetto a Pyre, bloccato in alcuni momenti dalla sua fede.

Garfield e Bimingham divorano letteralmente la scena, lasciando poco spazio ad altri attori di grande talento, in primis Worthington (già al fianco di Garfield in Hacksaw Ridge) e Heyendall, caratterista dalla lunga carriera che interpreta la meglio il ruolo del patriarca Ammon Lafferty, con il giusto mix di fanatismo e profetica percezione del proprio ruolo. La presenza di un parterre di attori, emergenti e noti, così nutrito viene gestito con oculatezza, non mancando di privare alcuni personaggi del giusto spazio. Fortunatamente, In nome del cielo ha trovato nella serialità la sua giusta natura, nonostante in principio si fosse ipotizzata una sua dimensione cinematografica, che viene però preservata in alcune scelte stilistiche, specie nei primi due episodi, che preservano un taglio rapido, creando la giusta suggestione nello spettatore.

In Nome del cielo rientra nel novero delle serie crime story moderne, come True Detective, in cui ispirazioni di fatti realmente accaduti assumono il connotato di sguardo freddo e disincantato nell’anima oscura e meno nobile di un’America ignota, segnata da venatura di fanatismo che difficilmente vengono associato alla tradizione dell’american way, ignorando quanto questi tratti siano alla base stessa del vero spirito americano.

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