Negli anni ’80 la fantascienza al cinema era caratterizzata dalla nascita di alcuni personaggi ancora oggi profondamente amati dagli appassionati. Se il gelido carisma di Terminator è rimasto inalterato, al punto che stiamo attenendo con ansia l’uscita di Destino Oscuro, non meno amato è stato Robocop, il poliziotto cyborg che portava ordine e disciplina nelle strade della futura Detroit. Tra seguiti e remake deludenti, il mito di Alex Murphy non ha comunque perso il suo smalto, ma un interrogativo rimane vivo tra gli appassionati: come sarebbe stato il Robocop di Frank Miller?
Se l’interrogativo vi stupisce, forse è perché siete all’oscuro di uno dei segreti del cyborg di Detroit, ossia che per il secondo capitolo delle avventure dello sbirro metallico si era pensato di offrire agli spettatori il Robocop di Frank Miller. Ma come mai questa scelta?
Il Robocop di Frank Miller che non arrivò al cinema
Il primo Robocop fu un vero azzardo. Quando nel 1987 Ed Neumier e Michael Miner ebbero l’idea di creare una storia dalle tinte cyberpunk su un polizioto robot all’opera in un’America futura iperviolenta, la maggior parte delle major e dei produttori non furono particolarmente colpiti da questa proposta, al punto che il progetto sembra destinato a non prendere mai forma. Fortunatamente, lo script arrivò in mano alla moglie del regista Paul Verhoeven, che si innamorò dell’idea. Fu lui a dirigere il primo Robocop, cogliendo al meglio la sottile critica alla violenta America contemporanea, alla crescente influenza dei media e allo strapotere delle lobby, adattando alla realtà statunitense i punti essenziali della letteratura cyberpunk.
Il film, come insegna la storia, fu un gran successo. Negli anni ’80 successo faceva rima con seguito e Robocop non si sottrasse certo a questo regola. Il problema era trovare una sceneggiatura che potesse tenere testa alle attese dei fan, che avevano già assimilato lo spirito di Robocop. Nel momento di scegliere chi avrebbe dovuto realizzare lo script del secondo film con protagonista Alex Murphy, gli studios cercarono un autore che sapesse interpretare al meglio la cultura pop del momento, riconoscendo come il primo Robocop avesse risentito in modo evidente delle influenze del fumetto eroistico. E il nome che emerse fu: Frank Miller.
Difficile pensare ad un nome più adatto, Frank Miller, all’epoca, era un nome forte del fumetto americano. Dopo aver lavorato con Marvel Comics realizzando alcune ottime storie di Wolverine e avere riportato in cima al gradimento dei lettori un personaggio sino ad allora in secondo piano, Daredevil, Miller era passato alla DC Comics, dando vita ad una fumetto che cambiò radicalmente uno degli eroi della Distinta Concorrenza: Il ritorno del Cavaliere Oscuro. La storia di questo Batman invecchiato alle prese con un declino morale della società fu un vero best seller, al punto che che Miller ottenne un’ampia copertura mediatica. E a Hollywood non sfuggì tutto questo.
Il secondo film su Alex Muprhy avrebbe dovuto essere il Robocop di Frank Miller, che lavorò contemporaneamente anche ad uno script per l’eventuale Robocop 3. Miller avrebbe voluto cimentarsi anche alla regia, ma ben presto capì che non era ancora pronto, limitandosi a scrivere la sceneggiatura. La prima stesura della sceneggiatura di Miller era eccessiva, visto che lo scrittore voleva stupire Hollywood, rompendo alcuni schemi considerati intoccabili. Nonostante la violenza tipica della narrativa cinematografica del periodo, la verve creativa di Miller venne costantemente analizzata da un team di controllo che valutava ogni sua idea. E fu la fine del progetto di Miller, che dopo esser stato continuamente costretto a modificare, tagliare e edulcorare la propria sceneggiatura, venne gentilmente accompagnato alla porta.
L’intero progetto di Robocop 2 venne modificato in corsa. Verhoeven fu sostituito da Irvin Kershner, il regista de L’impero colpisce ancora, e il risultato fu decisamente poco appassionante, tanto che anche Peter Weller (Alex Murphy) e Nancy Allen (Lewis) non si dichiararono soddisfatti della trama, sostenendo che avrebbero preferito la sceneggiatura originale di Miller. Ed il buon Frank, per quanto amareggiato, rimase sul set per imparare come si viveva nel mondo del cinema. Tra l’altro, alcune delle sue idee vennero poi inserite in Robocop 3, motivo per cui Miller figura anche nei crediti come sceneggiatore. Ma anche in quel caso, non era pienamente il Robocop di Frank Miller, al punto che il fumantino autore non gradì particolarmente questo gesto di cortesia, visto che il poco di suo in Robocop 3 era ben lontano dalla sua idea complessiva per una storia su Robocop. E quindi, dopo questo sgarbo, diventò ancora più difficile vedere un Robocop di Frank Miller.
Il robocop di Frank Miller, storia di un fumetto
La sceneggiatura di Miller per Robocop 2 rimase a lungo un mito, sino a quando non venne recuperata dalla Avatar, che incaricò una vecchia conoscenza di Miller, Steven Grant, di adattare lo script per una miniserie a fumetti. Aiutato dal talentuoso Juan Jose Ryp, Grant diede vita a Frank Miller’s Robocop. Pubblicato inizialmente a fascicoli, in seguito fu raccolto in un omnibus da Boom!.
La serie a fumetti è, a tutti gli effetti, il Robocop di Frank Miller. L’intento dell’artista era quello di interpretare i malumori e le criticità della società americana del periodo, filtrata attraverso la narrativa cyberpunk di Robocop. Esistono diversi Miller, dall’epico di 300 all’eroistico di Daredevil: Rinato, ma l’estro creativo di Miller con Robocop si spinge verso una visione fantascientifica mista alla critica sociale che può essere ritrovata solo in un altro lavoro di Miller, Hard Boiled.
Il Robocop di Frank Miller si contraddistingue per il suo essere non solo un’opera acida, violenta e adrenalinica, ma perché sa prendersi anche i giusti spazi per un’ironia e un sarcasmo particolarmente in linea con l’ambientazione. I personaggi affrontano le situazioni esagerata orchestrate da Miller con battute precise, volgari e decisamente politicamente scorrette. Una tendenza che viene trasmesse ai disegni anche nel modo n cui viene esagerata la violenza e la mutilazione dei corpi, a cui si associa un utilizzo della nudità femminile sregolato e volutamente forzato, da fumetto pulp più che da fantascienza. A creare una linearità tra il primo film di Robocop e l’immaginazione di Miller è il saper ritrarre al meglio la società di Detroit, cogliendo al meglio le basi dell’atmosfera orchestrata da Verhoeven, in cui la cittadinanza non ricorda il buono fatto dalla polizia, ma partecipa al continuo declino della città. L’innocenza è bandita da Detroit, persino l’adolescenza e l’infanzia sono ricondotte ad uno stato di violenza e visti come un altro modo di sfruttare le debolezze umano in nome del guadagno della OCP.
Il Robocop di Frank Miller è, proprio per questo, una diretta emanazione di quanto visto nel primo film. LA situazione a Delta City è degenerata ultimamente, con la polizia che sciopera ad oltranza contro le politiche della OCP. In questo marasma urbano, Robocop continua a seguire la sua missione di tutela dei cittadini, dovendosi scontrare anche con un nuovo nemico: l’informazione di massa. Mentre i cittadini della Vecchia Detroit affrontano un degrado dilagante, la OCP si preoccupa di creare un’alternativa ai poliziotti, utilizzando prima una milizia privata, in attesa di portare a compimento il progetto del nuovo super robot poliziotto. Ad occuparsi di questo progetto, è la dottoressa Margaret Love, assunta dalla OCP per riprogrammare Robocop.
L’unicità di Robocop, l’aver mantenuto lo spirito umano di Alex Murphy all’interno del carapace metallico del poliziotto robot, diventa una minaccia per la volontà dell’OCP di creare una società amalgamata e priva di individualità. Miller ha inserito una critica a questa volontà tipica del periodo di ridurre l’individuo ad uno strumento del consumismo pilotato, che Miller riduce ad una nuova forma di fascismo, sia nell’atteggiamento che nelle mire. La dottoressa Love è il simbolo di questa volontà corporativa, predica buoni sentimenti ma non esita a utilizzare metodi violenti e sadici pur di ottenere il raggiungimento degli obiettivi della COP.
La nascita di un arco narrativo
Nell’idea di Miller, tutte queste linee dovevano convergere per dipingere un impietoso ritratto della società americana dell’epoca reganiana. Il vero nemico, però, viene identificato da Miller nel politicamente corretto, che viene presentato in modo ironico e sarcastico all’interno del primo arco narrativo, Robocop. A difendere l’idea di un’umanità minacciata, ferale ed inquieta, sarebbe dovuto esser idealmente il personaggio la cui umanità era dubbia. Unire la difesa delle proprie umanità al suo ruolo di protettore della cittadinanza debole di Detroit è il modo migliore per Robocop di continuare a seguire la sua missione.
Dopo aver dato vita a questa prima visione del Robocop di Frank Miller, venne creato un altro arco narrativo, Robocop: Last Stand. Anche in questo caso si parte da uno script cinematografico di Miller pensato per un film, e si nota il legame tra le due storie. Con Last Stand, Miller avrebbe voluto mostrare un Robocop costretto alla latitanza, nemico di un ordine corporativo deciso sempre più a rendere Delta City una landa desolata su cui riscostruire in base alle proprie aspirazione. Miller in questo frangente è ancora più violento, nelle situazioni quanto nella critica, mostrando una Detroit acida e perduta, in cui il continuo lottare di Robocop per rimanere vivo, anche dopo la perdita dell’amica Lewis, diventa fonte stessa di una ribellione che dai bassifondi si prefigge di abbattere il potere corporativo della OCP.
Rispetto al primo arco narrativo, Miller abbandona il suo tono esagerato anche nell’ostentazione del corpo femminile, che in precedenza era reso in modo più esplicito e volutamente forzato. La storia ne giova apparendo meno pulp e più inquadrata nella linea fantascientifica.
Pur non avendo raggiunto il mondo del cinema, il Robocop di Frank Miller ha comunque il merito di esser approdato infine in un media, come il fumetto, che ne ha saputo incarnare al meglio lo spirito. Idealmente, sembra anche corretto, visto il rapporto così stretto tra Frank Miller e il mondo delle nuvole parlante.
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