Il Rasoio di Barbieri: I Licantropi nordici

Il Rasoio di Barbieri: tornano in scena i licantropi, tra miti nordici, scampoli di stori folkloristica e un insolito processo

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a cura di Luca Barbieri

L’inverno rigido che stiamo vivendo mi ha portato alla mente immagini di foreste innevate e di aspri picchi montani incoronati di ghiaccio, sui quali aleggia un cupo e lamentoso ululato. Insomma, mi ha ricordato che dovevamo proseguire il discorso sui lupi mannari, iniziato diversi mesi fa.

Ma, vista la tormenta che bussa violentemente alla mia finestra in questo momento, vorrei soffermarmi su un particolare tipo di licantropi: quelli delle fredde terre del Nord, partendo proprio dalle più estreme lande settentrionali, quelle dove dimora il popolo Inuit.

Un grande freddo richiama grandi licantropi: ecco quelli del gelido Nord

I licantropi eschimesi sono conosciuti con il nome di adlet; furono generati in numero di cinque da una donna accoppiatasi con un grosso cane di pelame fulvo; abbandonarono la madre dopo aver tentato di nutrirsene (ah, questi figli ingrati!), fermati prima dell’irreparabile dal padre che pagò con la vita questo suo gesto. Possiedono diversi tratti lupeschi, come il naso allungato, gli occhi gialli, le zanne acuminate, una folta pelliccia di color rossastro (eredità del padre) e le orecchie a punta. Il loro numero è di molto cresciuto, col tempo; adesso cacciano in branco, guidati da un maschio alfa che di solito è l’esemplare più grande del gruppo, e fanno precedere il loro assalto da lunghi e insistiti ululati. La preda viene sempre ridotta a un grumo masticato di ossa e la sua morte, presumono gli Inuit, è sempre dolorosa.

L’unica cosa che gli adlet temono è il fuoco, per cui i cacciatori devono sempre tenerlo ben vivo nei loro campi; attenzione, però: non sono ammesse deroghe sotto forma di proiezioni televisive di ceppi avvolti dalle fiamme dentro camini in pietra (che tanto vanno di moda in questo periodo).

Scendiamo un po’ verso Sud e arriviamo in Scandinavia, terra di bellissime donne e di lupi mannari piuttosto amichevoli. Già ne parlava nel XVI secolo Olao Magnus, nome latinizzato di Olaf Mansson, arcivescovo di Upsala (Svezia). Secondo questo eminente prelato nonché acuto storico e umanista, i licantrop sarebbero abitatori frequenti del Nord Europa, così comune che in Scandinavia la gente nemmeno ci badava più e non rivolgeva a queste creature che blanda attenzione.

I licantropi nordici, riferì l’arcivescovo nel proprio ponderoso trattato in ventidue libri Historia de Gentibus Septentrionalibus, lavoravano nelle miniere, pulivano gli edifici e davano da mangiare al bestiame. Erano, in sostanza, delle ottime colf. Non davano alcun fastidio alle persone, a meno che non venissero disturbati. Erano per di più eccellenti navigatori, e spesso salvavano la vita di marinai meno esperti chiedendo in cambio una cosuccia da poco: la loro anima.

Molto più feroci erano quelli tedeschi e francesi, oppure quelli baltici. Una piccola nota: nel XIII secolo gli stati baltici erano stati annessi con la forza all’Ordenstaat (lo Stato Monastico fondato con la spada dai cavalieri Teutonici) e rimasero assoggettati a questo severo principato cattolico fino al 1525; la loro appartenenza all’impero russo prima e all’Unione Sovietica poi è invece storia assai più recente.

Per questo motivo il patrimonio culturale di questa regione europea è così affine a quello germanico, e di conseguenza, al contrario del folklore russo, abbonda di tradizioni sui lupi mannari. Olao Magnus parla specificatamente della Livonia, un territorio che si estende attorno al golfo di Riga, attualmente compreso all’interno della Lettonia. Questa stirpe di lupi mannari era solita riunirsi nel fitto delle foreste che coprivano questi territori abbandonandosi a selvaggi rituali:

Per la festività della nascita di Gesù Cristo, di notte, una moltitudine di uomini si trasformavano in lupi radunandosi in certi posti, organizzandosi fra di loro e quindi scagliandosi con estrema ferocia contro gli esseri umani e contro gli animali domestici (…) Quando un’abitazione di esseri umani veniva da loro individuata isolata nelle foreste, l’assediavano con estrema determinazione cercando di distruggerne le porte e, mentre facevano questo, divoravano qualsiasi essere, umano o animale, in cui s’imbattevano. Facevano irruzione nelle cantine dove si trovava la birra e lì vuotavano i barilotti e li impilavano uno sopra l’altro nel mezzo delle cantine, mostrando in tal modo la differenza con i veri e genuini lupi.

Palese la dissacrazione del Natale da parte di queste creature diaboliche, più sottile invece è l’accenno a uno smodato consumo di alcool, utile a stigmatizzare un altro, pericoloso vizio della gente del Nord e a sottolineare la natura di peccatori di questi uomini-lupo; non va dimenticato, infatti, che chi scrive è un arcivescovo. Uomo di Chiesa, dunque, ma affatto immune al morso fatale della superstizione, come dimostra il seguente passaggio del suo libro:

Il luogo dove hanno dormito quella notte (i lupi mannari, NdA) è ritenuto fatale dagli abitanti di Prussia, Livonia e Lituania, perché, se a qualcuno capita di imbattersi in quei paraggi e il suo carro si capovolge, e lui stesso viene coperto dalla neve, sono persuasi che sicuramente morirà entro la fine di quell’anno, come hanno avuto modo di sperimentare da molto tempo.

E prosegue con quest’altro aneddoto:

Tra la Lituania, la Samogizia e la Curonia, vi è un muro, un rudere di qualche castello diroccato, presso il quale in un certo periodo dell’anno si riuniscono circa un migliaio di licantropi, e uno alla volta sperimentano la propria agilità nel salto: coloro che non sono in grado di saltare questo muro vengono percossi dai loro capi con delle fruste. Si sostiene con fermezza che appartengono a questa schiera anche i potenti di questa regione, e i nobili.

Olao Magnus non aveva il minimo dubbio sulla realtà fisica della loro metamorfosi, e la affermava contrò l’autorità di altri, precedenti autori cristiani oppure latini come, ad esempio, Plinio. Lo dimostra questo suo passaggio:

Non molti anni fa accadde in Livonia che la moglie di un nobile discutesse con un suo schiavo (lì ve ne sono in numero maggiore che in qualsiasi altra regione cristiana) sul fatto che gli uomini non possono mutarsi in lupo; alla fine egli proruppe dicendo che gliene avrebbe dato subito una dimostrazione: (…) entrò da solo in una stanza, da dove, poco dopo, uscì sotto sembianze di lupo, e si diresse verso la foresta, inseguito dai cani. Questi gli strapparono un occhio, sebbene si fosse strenuamente difeso. Il giorno dopo ritornò dalla sua padrona con un occhio solo.

Processo a un licantropo

Passiamo al secolo successivo: nel 1692 si svolse in quelle lande un celebre processo che aveva come imputato un ottantenne, considerato dai cittadini di Jurgensburg un idolatra e, a peggiorare le cose, un lupo mannaro. Il vecchio si chiamava Thiess, e, interrogato dai giudici, confessò la sua colpa; il suo giudizio non sarebbe stato diverso dai molti che lo precedettero e lo seguirono, se non fosse stato per la pacifica serenità con la quale dichiarò che, nella sua qualità di licantropo, egli non era affatto né un pericolo per gli uomini né una rovina per il bestiame, era anzi la salvezza per entrambi.

L’anziano contadino raccontò che tre volte all’anno, e precisamente nelle notti dedicate alla memoria dei santi Lucia e Giovanni e in quella che precedeva la Pentecoste, tutti i lupi mannari di Livonia, uomini e donne, si riunivano per andare a scovare il diavolo e i suoi stregoni “all’inferno, alla fine del mare” (successivamente si corresse: “sottoterra”) e battersi contro di loro. “Siamo simili a cani, i cani di Dio”, affermò il vecchio; e come tali i licantropi rincorrevano il demonio armati di fruste di ferro, mentre gli stregoni, suoi abbietti adepti, lo difendevano con manici di scope avvolti da code di cavallo.

Proprio con un simile attrezzo “un contadino di nome Skeistan, ora morto, che era uno stregone” aveva rotto il naso a Thiess durante una colluttazione. La posta in gioco in queste mischie di lupi e diavoli era tutt’altro che scarsa: si combatteva per la fertilità dei campi e per l’abbondanza di pesce nel mare. Gli stregoni desideravano imporre carestia e miseria, i licantropi si opponevano con tutte le loro forze, e chi di loro avesse vinto avrebbe regolato la vita di tutta la comunità per la stagione seguente. No, davvero non era poca cosa la posta in palio né fu poca cosa la testimonianza di Thiess. I giudici videro rovesciare davanti ai loro esterrefatti occhi un antico stereotipo che voleva i licantropi assoggettati al demonio con un empio patto di sudditanza; il vecchio affermava, e non lo volle smentire a nessun costo, che il diavolo era invece il peggior nemico dei lupi mannari, che queste creature combattevano per la gloria di Dio, e che per i loro servigi sarebbe tutti andati direttamente in Paradiso. Non sapendo come meglio punire la sua lingua impertinente, i giudici condannarono Thiess a dieci colpi di frusta e lo lasciarono andare. In fondo si trattava solo di un vecchio pazzo, e la sua testimonianza venne giudicata un coacervo disordinato di echi di vita vissuta, propria e altrui, distorti da una memoria ormai difettosa, mescolati a frammenti di miti, superstizioni, fanfaronate e bugie.

Il processo contro Thiess è certamente un documento straordinario per la sua atipicità; ma non è l’unico nella regione, fatto che dimostra la maggior tolleranza dei magistrati baltici nei confronti dei licantropi oppure una maggiore furbizia dei loro imputati. Nel trattato Considerazione cristiana e memoria sulla magia, del 1585, l’autore, che celava il suo vero nome sotto lo pseudonimo di Augustin Lercheimer, riporta il caso di un lupo mannaro livone da lui visitato in carcere che “rideva, saltellava, come venisse da un luogo di piaceri e non da una prigione” e che mostrò un’assoluta sicurezza, intrisa di sarcasmo, con la quale tenne testa con insolenza agli interrogatori.

Si tratta di un comportamento assai diverso da quello tenuto dai condannati per licantropia nel resto d’Europa, i pochi scampati al rogo intendo. Evidentemente i lupi mannari livoni dovevano essere guardati con un diverso, e più indulgente, occhio. E’ stato infatti calcolato che in tutto il “terribile” Seicento i processi a carico di lupi mannari in Livonia siano stati appena trentuno; le accuse principali, poi, erano più quelle di aver nuociuto a bestiame e proprietà agricole che di aver aggredito esseri umani.

Secondo la tradizione della regione i lupi mannari si trasformavano una sola volta all’anno, nel periodo delle festività natalizie, per dodici giorni consecutivi, e lo facevano secondo una modalità piuttosto insolita. Un ragazzo storpio cominciava a battere le campagne il giorno di Natale per richiamare a sé tutti i licantropi e riunirli insieme: questo fiume di persone, a volte, era anche di diverse migliaia di individui. Chiunque appartenesse al branco ma rifiutasse di partecipare alla riunione, o fosse anche solo riluttante a farlo, veniva fustigato da un suo compagno con le stesse fruste di ferro menzionate da Thiess, fino a scorticargli la schiena. Quando il branco era tutto riunito, avveniva la mutazione e i lupi, a migliaia, si lanciavano per le campagne, ululando e aggredendo bestie, più raramente uomini. Nulla li fermava, nemmeno i corsi d’acqua che venivano aperti a frustate dal capobranco, evidente parodia del miracolo compiuto da Mosè.

Toccherebbe ora ai licantropi tedeschi… ma perché farlo ora, quando abbiamo la prossima rubrica in attesa di essere scritta?

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Se volete approfondire il tema dei licantropi potete leggere il voume Storia dei Licantropi
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