Il finale di The Menù: la salvezza è la semplicità

Il finale di The Menù è la degna conclusione di un'accorata critica contemporanea intrecciata alla passione per la gastronomia

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a cura di Manuel Enrico

Dopo un rapido passaggio in sala, negli scorsi giorni è approdato su Disney+ The Menù, film che unisce la fascinazione per il mondo dell’alta gastronomia all’inquietante narrativa tipica dei thriller. Diretto da Mark Mylod, grazie a questa sua natura ibrida in forma di complessa struttura narrativa, The Menù, tramite la metafora culinaria, è una delle migliori critiche contemporane a una società che ingurgita contenuti senza assaporarli, alimentando un meccanismo folle in cui tutto deve essere social e omologato, uccidendo estro e identità specifica in virtù di una fittizia maschera di auto-celebrazione effimera. Film straziante nel ritrarre vite spezzate e al limite, con un pizzico di thriller e di orrore quanto basta per dare vita a una visione a cinque stelle, grazie a uno strepitoso Ralph Fiennes e a due giovani attori meravigliosi come Anya Taylor-Joy e Nicholas Hoult. Nella nostra recensione abbiamo condiviso le nostre sensazioni su questo thriller stellato, ma considerata la peculiare natura di questa cena d’alta classe ci sembra giusto soffermarci sul finale di The Menù.

La progressione della trama di The Menù coinvolge lo spettatore in modo sottile ma inesorabile, presentando degli spaccati di umanità che lentamente lasciano emergere la loro natura, che si contrappone all’apparentemente algida natura dello chef Julian Slowik (Ralph Fiennes), progressivamente svelata con l’incedere della cena. Se le prime tre portate sembrano seguire un tradizionale percorso culinario, sono le spiegazioni dello chef a lasciare interdetti i commensali, che trovano in queste presentazioni chef una sorta di manifestazione del suo estro, fino a quando la comprensione delle vere motivazioni del cuoco e della sua brigata non diventano evidenti.

Il finale di The Menù è la degna conclusione di un'accorata critica contemporanea intrecciata alla passione per la gastronomia

Il finale di The Menù riserva un momento di catarsi emotiva particolarmente forte per Julian Slowik, che nonostante questa epifania non rinuncia al suo ultimo, tragico servizio. Per comprendere al meglio le motivazioni che spingono questo uomo giunto nell’Olimpo della cucina, sono necessarie alcune considerazioni sullo sviluppo di The Menù.

Attenzione: quanto segue contiene spoiler su The Menù

Il finale di The Menù: la salvezza è la semplicità

L’importanza del menù

Come da tradizione, Slowik offre ai suoi commensali una selezione di piatti appositamente studiati, ma questo non è l’unico menù selezionato dallo chef. Andando oltre questa impostazione tradizionale della ristorazione, la divisione in portate scandisce anche lo sviluppo della trama, creando una sinergia tra le diverse pietanzee e la lenta evoluzione della trama, che dopo tre piatti prende un’inattesa piega. È interessante notare come siano proprio le introduzioni di Slowik alle prime tre portate a suggerire una della motivazioni che guidano lo chef nel dare un’identità al suo menù, considerato come dalle sue parole risulti subito evidente una certa astiosità nei confronti dei propri ospiti, banalizzando il loro approccio alla cucina (emblematica la frase ‘non mangiate’), che non apprezza la ricercatezza e il valore del lavoro dietro ogni piatto, limitandosi a ingurgitare piatti senza scoprirne la giusta valenza. Volendo, possiamo rivedere in questa piccata critica di Slowik una morale di classe, in cui si evidenzia come questa selezione di esponenti dell’upper class, sicura della propria posizione privilegiata, abbia sviluppato una sorta di apatia nei confronti dei piaceri semplici della vita, minando anche il rispetto per l’altrui lavoro.

In questo elemento, si valorizza anche il secondo menù intavolato da chef Slowik: i commensali. Potendo selezionare la ristretta cerchia di ospiti che possono accedere all’esclusiva Hawthorn, isola-ristorante gestita dallo chef, Slowik crea un menù di anime prave, con cui confrontarsi un’ultima volta nella sua straziante resa dei conti con il mondo in cui è sempre vissuto. Per quanto si possa vedere nelle gesta del cuoco e della sua brigata una crudele efferatezza, non possiamo ignorare il fatto che i veri villain siano proprio i commensali. Tra chi ha scelto di consacrare la propria esistenza a demolire ristoratori come la critica culinaria Bloom, a chi oramai vede il cenare presso il ristorante di Slovik non come un’esperienza ma come un banale diritto acquisito sino a chi, come Tyler (Nicholas Hoult) vive sentendosi parte di questo mondo mancando di avere le competenze ma illudendosi di poter esser parte di questa arte. Due menù quindi, ognuno dei quali ha un elemento alieno: un piatto inatteso e una commensale fuori posto

L’sopite inatteso

Sin dalle prime battute di The Menù la presenza di Margot (Anya Taylor-Joy) viene presentata come un elemento dissonante all’interno della trama, a partire dalle iniziali scene sul molo. In un piano accuratamente preparato, la giovane, come si scoprirà, è l’elemento di rottura.  Tra gli esponenti di una ristretta cerchia di privilegiati spicca sempre come l’outsider, ma è nel suo rapporto con il mondo dell’alta ristorazione che emerge la sua salvifica atipicità. Laddove Margot risulta sempre restia alla passiva accettazione del proprio destino, gli altri commensali, al netto di sterili pianificazioni mai concretizzate, sembrano incapaci di ribellarsi all’inquietante serata in quanto la loro presenza, a loro avviso, rimane un’attestazione di esclusiva appartenenza alla ristretta cerchia dei VIP, rimarcata dimostrazione del loro esser qualcuno, di avercela fatta. Rinunciare a questa experience culinaria significherebbe dichiararsi indegni di esser seduto a questa esclusiva tavola. E qui, si palesa la più evidente contrapposizione tra Margot e gli altri personaggi di The Menù.

La chiave di lettura dell’importanza di Margot è nel suo rapporto con Tyler (Nicholas Hoult), che da fanciullesco appassionato di cucina non tarda a rivelarsi come un vero e proprio villain. Non tanto per la sua cieca sudditanza alla figura di Slowik, evidentemente mal tollerata dallo chef stesso, ma nel suo costante sminuire la sua accompagnatrice, che ritiene un necessario suppellettile alla sua presenza e nulla più, in quanto incapace di apprezzare come lui la vere cucina. Gli scambi di battute tra i due proseguono su questo tenore in modo continuo, culminando con l’astiosa invidia di Tyler quando intuisce come tra Margot e Slowik si sia creata una certa affinità.

A motivare questo rapporto tra la ragazza e Slowik è la ferrea resistenza della prima nei confronti dello chef. Proprio perché estranea a questo mondo e alle sue rigide (ed ipocrite) consuetudini, Margot riesce a opporsi allo chef, rimarcando la propria visione del cibo contrapposta a questo spettacolo artificioso e incrinando anche la sicurezza dello stesso Slowik, capacità che Margot possiede in quanto, seppure in un ambito differente, svolge un’attività di servizio al cliente. Dove la soddisfazione finale del cliente è vitale per Margot, per il cuoco questa sembra esser svanita all’interno di una logorante dinamica lavorativa in cui la passione viene sacrificata in nome della fama, annullando l’anima stessa dello chef. Non è un caso che Fiennes mostri solamente sorrisi acidi e sofferenti, mentre la sua prima espressione realmente felice dietro i fornelli compaia in una vecchia foto che sarà la salvezza di Margot. Un percorso salvifico, quello di Margot, che passa dalla ribellione verso questa ristretta cerchia di privilegiati al guadagnarsi il rispetto dello chef, nel momento in cui la ragazza riesce a mostrarsi una cliente del cuoco, e palesando il suo godimento per un piatto preparato appositamente su sua richiesta: un semplice cheeseburger.

Il cheeseburger della salvezza

Nelle prime portate, veniva espressamente evitato di servire del pane, con un panegirico con cui Slovik spiega l’importanza del pane come alimento, enfatizzandone la rilevanza specie per le fasce economicamente più deboli. Nella visione quasi rituale legata alla cena imbastita da Slovik, l’assenza del pane può anche esser vista come un segno di una mancanza di salvezza, come invece viene spesso associata nella visione cattolica del rito dello spezzare del pane. In questa visione non è un caso che l’unica persona a mangiare del pane, ossia Margot, sia la sola superstite di questa ultima cena. Una visione emotivamente forte, che si appella all’anima stessa dello chef, che trova in Margot uno spirito affine.

Come viene ben evidenziato dalla foto scoperta fortuitamente da Margot, Julian ha mostrato di esser realmente felice mentre a inizio carriera cucinava hamburger in un fast food, ottenendo anche il suo primo riconoscimento professionale, il premio come migliore dipendente del mese, tradizione tipicamente americana. Questo dettaglio, unito alla sua continua manifestazione di insoddisfazione verso la cucina proposta da Slovik, ha creato i presupposti per dare vita alla scena madre del film: la richiesta di Margot di avere un cheeseburger. Una comanda semplice, l’unica che viene cucinata da Slovik in tutto il film e soprattutto unica occasione in cui vediamo lo chef sorridere sinceramente mentre prepara questo piatto fuori menù. Un momento catartico, che riaccende la passione dello chef e che vede nella palese e autentica soddisfazione di Margot non solo la felicità di un cuoco che vede riconosciuto il proprio lavoro, ma anche il sincero affetto di una persona verso il cibo, che va oltre lo scatto da condividere sui social ma prende forma con dei gesti di spontaneo godimento del panino. Nel riconoscere a Julian la perizia del proprio lavoro, Margot trova la sua salvezza, ottenendo, nella tradizione della ristorazione, la possibilità di poter finire altrove il suo panino.

The Menù: un finale amaro

Le scene finali in cui assistiamo al compimento del rito finale di Slovik mentre Margot finisce con gusto il suo cheeseburger oramai al sicuro, sono la quintessenza della pellicola di Mylod. Una critica feroce alla meccanica disumanizzante del lavoro, incarnata dalla portata Il Massacro, e all’apatico godimento delle esperienze più semplici, oramai schiave di condivisioni social continue e ritenute non un’emozione quanto una manifestazione di status symbol. La tragica cena organizzata da Juliana Slowitz è un grido di sofferente resa di un uomo che ha subito e, non neghiamolo, imposto queste leggi inumane diventando al contempo vittima e parte del meccanismo carnefice che vuole ora punire in suo ultimo atto di resa. Un messaggio che viene reso ancor più vivo proprio dalla presenza inattesa di Margot, anima affine allo chef che contrariamente all’uomo, oramai spezzato, può ancora trovare una propria salvezza allontanandosi da questa dinamica impazzita preservando la propria identità.

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