Il 23 febbraio arriva su Disney+, nel nuovo canale dedicato ai contenuti per adulti Star, Il diritto di contare, film del 2016 diretto da Theodore Melfi che ha ricevuto tre candidature agli Oscar, tra cui al miglior film, e due ai Golden Globe, tra cui migliore colonna sonora originale. La protagonista della pellicola è Taraji P. Henson, affiancata da Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons. Il film è basato sull'omonimo romanzo di Margot Lee Shetterly e racconta la storia vera della matematica, scienziata e fisica afroamericana Katherine Johnson, che collaborò con la NASA, sfidando razzismo e sessismo per tracciare le traiettorie per il Programma Mercury e la missione Apollo 11. Ecco a voi la nostra recensione, ovviamente priva di spoiler.
Un caleidoscopio di emozioni non sempre originali
Il diritto di contare ci riporta al 1961, quando la segregazione razziale e il sessismo sul posto di lavoro erano aspetti della vita quotidiana ampiamente accettati. Inoltre la parola "computer" si riferiva a una persona, non a una macchina. Sebbene nel film compaia un gigantesco mainframe IBM, abbastanza grande da riempire una stanza e probabilmente meno potente del telefono che abbiamo in tasca, i "computer" più importanti sono tre donne afroamericane che lavorano presso la sede della NASA a Hampton, in Virginia. Il loro ruolo lavorativo si limitava unicamente all'inserimento di dati e le veniva negato qualsiasi riconoscimento o promozione, ma nonostante ciò sarebbero poi divenute fondamentali per il programma spaziale americano.
Theodore Melfi ha scritto la sceneggiatura insieme ad Allison Schroeder e i due hanno deciso di trasformare le carriere intrecciate di Katherine Goble (poi Johnson), Mary Jackson e Dorothy Vaughan in una celebrazione travolgente della meritocrazia e della perseveranza. Come molti film sul superamento del razzismo, anche Il diritto di contare offre un tardivo riconoscimento del coraggio e del talento e una resa dei conti in ritardo con i peccati del passato. Inoltre, così come avviene nella maggior parte dei film che prendono spunto da eventi realmente accaduti, anche questa pellicola si accontenta di rimanere all'interno delle convenzioni prestabilite dall'opera letteraria. La storia, quindi, potrebbe essere nuova per la maggior parte degli spettatori, ma il modo in cui viene raccontata non mostra nulla di particolarmente originale.
Ciò non è necessariamente un aspetto negativo, poiché quando la storia è ben raccontata e presenta una morale chiara e una ricompensa emotiva soddisfacente, allora un lungometraggio può comunque presentarsi come un ottimo prodotto. Melfi, il cui film precedente era lo straziante e doloroso St. Vincent con Bill Murray, sa premere i nostri pulsanti emotivi senza calcare troppo la mano. Si fida delle proprie abilità, dell'interesse intrinseco del materiale e, soprattutto, del talento e della dedizione del cast. Le scene sono decisamente telefonate, ma osservare ogni singolo dettaglio della fotografia e del cast porta lo spettatore a interessarsi unicamente della storia senza inutili supposizioni o accenni di tedio.
Una storia ambientata nel pieno dell'apartheid
Proprio la storia, infatti, inizia con la descrizione del background delle tre protagoniste, le cui lotte alla NASA si svolgono mentre l'agenzia spaziale si affretta a inviare un astronauta in orbita. Katherine Goble è la figura centrale, un prodigio matematico interpretato con perfetto carisma da Taraji P. Henson. Katherine viene prelevata dalla sala computer e assegnata a una squadra che calcolerà le coordinate di lancio e la traiettoria di un razzo Atlas. Riceve un "caloroso benvenuto", in particolare da un ingegnere belligerante, superbo e pregiudizievole di nome Paul Stafford (Jim Parsons), e non viene risparmiata dalle umiliazioni che deve affrontare una donna di colore in un posto di lavoro razzialmente segregato e stratificato per genere. L'unico bagno che le è permesso usare, ad esempio, è in un edificio lontano e fa inorridire i suoi nuovi colleghi quando si avvicina a loro semplicemente per prendere una tazza di caffè (con tanto di caffettiere diversificate in base al colore).
Anche Dorothy (Octavia Spencer) e Mary (Janelle Monáe) subiscono discriminazioni. A Dorothy, che è responsabile di diverse dozzine di computer, viene ripetutamente negata la promozione a supervisore e subisce anche delle ingiustizie dal suo capo che accetta con accondiscendenza questi soprusi di ruolo (Kirsten Dunst). L'ingegnere di origine polacca (Olek Krupa) con cui Mary lavora è più illuminato e aperto, ma la donna si imbatte nel muro di divieti imposti dalle Leggi Jim Crow quando cerca di seguire corsi di fisica di livello universitario. È una donna ed è nera, non può seguire i corsi destinati ai bianchi.
Le tre figure femminili superano costantemente i loro colleghi di alto rango (di solito bianchi, maschi), imparando un nuovo linguaggio di programmazione, risolvendo problemi negli esperimenti nella galleria del vento o calcolando finestre di lancio strette per le missioni spaziali. Ognuna è straordinariamente consapevole della posta in gioco più ampia del loro successo perché sarebbe stato un modo per aiutare le altre donne, ma anche uno stimolo per tutti i neri e per l'America in generale. Questa consapevolezza è tanto un'ispirazione quanto un peso molto gravoso da portare sulle spalle.
Anche se la maggior parte del loro tempo e delle loro energie sono dedicate alla carriera, le donne de Il diritto di contare non danno per scontato il loro rapporto reciproco e quello con gli amici e con le loro famiglie. Se una rimane bloccata al lavoro per ore, le altre due aspettano nel parcheggio finché non possono tornare a casa. Nei fine settimana, vanno in chiesa e ai barbecue del quartiere e trascorrono del tempo con i loro figli. Non hanno tutto a disposizione, ma lottano per l'equilibrio.
Una falsa normalità impreziosita da un'ottima interpretazione
Il diritto di contare trasmette efficacemente la velenosa normalità della supremazia bianca, la determinazione dei personaggi principali a perseguire le loro ambizioni e la ricerca di vivere vite normali pur restando nell'ombra. Il razzismo che affrontano non dipende dalla cattiveria o dalla virtù dei singoli bianchi, e per la maggior parte i personaggi bianchi non sono trattati come eroi per aver deciso, finalmente, di comportarsi in modo decente. Due di loro, tuttavia, sono stati elogiati: John Glenn, interpretato da Glen Powell, visto come un democratico genuino e senza tempo che si batte contro le gerarchie razziali e Al Harrison, il capo del gruppo di Katherine, per il quale il successo della missione è più importante del colore della pelle di chi consente di raggiungerlo.
Della delicata situazione sociale quindi appaiono solo dei duri accenni, primo fra tutti un telegiornale recante la notizia di un’aggressione e un breve intervento di Martin Luther King, il tutto all’insegna di una leggerezza ‘didattico-riflessiva’ e di una velata ironia tragicomica. Gli eventi si snodano in una diversa piega grazie all’impegno della protagonista e delle sue due amiche e colleghe, ma soprattutto a causa della particolare congiuntura storico-scientifica e dell’eroe-mentore Al Harrison, il quale, dopo lo sfogo di Katherine Johnson, risolve la situazione segregativa in nome del suo unico obiettivo finale di raggiungere lo Spazio.
Kevin Costner, che interpreta Al, è l'attore più navigato all'interno del cast (oltre a essere uno dei grandi masticatori di gomme del cinema americano). Questo conferisce al suo personaggio un'aura di realismo senza tempo, anche durante le vicende più enfatiche. A volte è un po' esagerato, ma Costner è famoso per esaltare il classico personaggio bianco e americano. Il film, dopotutto, glielo permette anche perché parla della conquista dello Spazio, ma va oltre i soliti eroi, ripristinando un po' l'idealismo e la grandezza celati dietro di essa. Incorpora anche parti di vita quotidiana così da comprendere meglio la storia personale dietro ogni personaggio.
Dagli spettacoli televisivi ai movimenti per i diritti civili e dalla chiesa alla famiglia, ogni elemento è sapientemente descritto e inserito in maniera incredibilmente coerente al contesto narrativo. La sottotrama più dolce, ad esempio, riguarda la storia d'amore tra Katherine, una vedova con tre figlie, e un bell'ufficiale militare interpretato da Mahershala Ali.
Conclusioni
Il diritto di contare non cerca di spingersi oltre i classici confini artistici, e questo è dovuto anche a una narrazione soddisfacente della storia. Il film evita anche i più clamorosi passi falsi delle pellicole storiche che trattano di razzismo come l'idea che il problema sia stato risolto e che personaggi bianchi esistono solo all'interno di un universo narrativo vecchio e superato. Infatti anche oggi le barriere rimangono, tanto che uno studio del 2015 ha evidenziato come il 100% delle donne nere che operano all'interno delle organizzazioni statali americane ha riferito di aver subito pregiudizi di genere sul lavoro proprio a causa del loro colore della loro pelle. Alcune di loro hanno anche riferito di essere state scambiate per donne delle pulizie, scena che compare anche in questo film.
https://youtu.be/LrM27IHgrpIIn conclusione, Il diritto di contare è una pellicola adatta a tutti grazie al suo potere educativo e alla grande potenza narrativa. La storia è ottimamente interpretata dal cast e si dipana tra la carriera delle protagoniste e la loro vita privata. Una storia di genialità mai egoistica o avida che si rafforza grazie alla collaborazione di un trio di donne fortissime, che ha combattuto contro le disuguaglianze di genere e di razza in un periodo in cui erano quasi la normalità. Non tutto è perfetto, la mancanza di originalità, la troppa leggerezza nel trattare alcuni argomenti e l'eccessiva prevedibilità degli eventi potrebbero infastidire gli spettatori più attenti o più abituati al genere. In ogni caso è indubbia la qualità generale della pellicola che non possiamo fare altro che consigliare di vedere (o rivedere).
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