I grandi delusi degli Oscar 2023: blockbuster, supertizi e leggende

Supertizi, blockbuster e leggende del cinema popolare: ecco i grandi delusi degli Oscar 2023

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a cura di Manuel Enrico

La strage di statuette con cui Everything Everywhere All at Once ha dominato la premiazione degli Oscar 2023 è stata strabiliante. Al netto delle opinioni personali sull’opera in sé (e chi scrive lo trova un film coraggiosamente divertente e appassionante), andando oltre alle valutazioni sul merito delle assegnazioni dei premi, il successo di questa pellicola sostanzialmente semplice, sul piano produttivo, ha mostrato un aspetto che pare venire ignorato da gran parte degli appassionati: un deciso scollamento tra critica e pubblico. Per quanto la pellicola con Michelle Yeoh vanti una schiera di entusiasti appassionati, non si può negare che gli esiti della notte hollywoodiana si siano ripercossi profondamente all’interno dell’industry, al punto che non sono mancate palesi dimostrazioni di dissenso in tempo reale ma sono le valutazioni del giorno dopo a colpire maggiormente, più forti di uno schiaffo di Will Smith. Perché dopo che i vincitori hanno avuto la loro notte di trionfo, c’è una cerimonia che, per quanto celebrata lontano da palchi scintillanti e abiti di gala, tiene banco con ancora più vivacità: la rabbia dei delusi agli Oscar 2023.

Inutile negarlo, se noi appassionati sino all’ultimo stiamo con il fiato sospeso nell’attesa di sentire proclamare vincitore il nostro candidato del cuore, per chi si siede in platea con una nomination in tasca il momento dell’apertura delle buste è come avere un infarto, sei in bilico tra la consacrazione a divinità tra i tuoi pari oppure verrai consolato da sorrisi e abbracci di circostanza, mentre devi mostrarti di essere sportivamente capace di accettare la debacle e rendere onore al tuo collega vincente. A meno che tu non sia regina del Wakanda e in quel caso rimani impassibilmente sdegnata, ci sta. Ogni premiazione vive anche di queste piccole dinamiche, con gli occhi delle telecamere che vigliaccamente cercano più la reazione sdegnata dello sconfitto che non il giubilo del vincente, ma nel caso di una vittoria così disarmante come quella di Everything Everywhere all at Once, il tutto assume un tono ancora più esplosivo.

Supertizi, blockbuster e leggende del cinema popolare: ecco i grandi delusi degli Oscar 2023

Onestamente, per quanto la pellicola di Daniel Kwan e Daniel Scheinerf (aka The Daniels) sia un prodotto ricco di fascino e di ottimi spunti, non avrei mai immaginato che potesse sbaragliare a questo livello una concorrenza di tutto rispetto. Non dimentichiamo che a contrastare questa corazzata c’erano titoli come The Whale, The Fabelmans e Gli Spiriti dell’Isola, Michelle Yeoh si contendeva la statuetta con una sempre monumentale Cate Blanchett (Tas) e una strepitosa Ana de Armas (Blonde), Jamie Lee Curtis ha lottato per il suo Oscar con agguerrite concorrenti e Key Huy-Quan ha primeggiato su un temibile concorrente come Gleeson, encomiabile in Gli spirti dell’isola.

Vittorie che non si vuole sminuire, ma che possono esser considerate come risultato più di una campagna promozionale finemente studiata, che nuovamente sembra essere più centrale del merito stilistico delle pellicole. Un meccanismo malato che, per assurdo, rischia di condannare anche gli stessi candidati.

Merito o narrativa della retorica?

Prendiamo The Whale, ad esempio. A dominare la scena è stata la magistrale interpretazione di Fraser, meritatamente premiato, ma anziché usare questa performance come volano per spingere ulteriormente il film, valorizzando le interpretazione di Sadie Sink o Hong Chau, si è puntato alla narrativa della rinascita, creando uno dei miti di quest’ultima cerimonia: la rinascita, la riscossa dei dimenticati. Se questo ha fruttato a Fraser la meritata statuetta, questa narrativa ha spinto anche Key Huan Quan, che cinicamente viene premiato secondo lo stesso parametro, andando a penalizzare altri candidati onestamente più meritevoli.

 Legittimo quindi chiedersi quale sia il parametro di giudizio dell’Academy, che sembra lasciarsi sedurre sempre più dalle sirene della retorica popolare, fortemente radicata nell’anima americana, ma che rischia creare un divario non indifferente con le sensibilità estere. Anche perché diventa facile fare una paragone tra le interpretazione di Yeoh, Williams e Blanchett e vedere nella premiazione della protagonista di Everything Everywhere All at Once un vero merito e non una scelta dettata anche dalle precedenti affermazioni dell’attrice, dove si rivendicava la statuetta perché la Blanchett ha già vinto e comunque è bianca. Si può cancellare il tweet in oggetto, ma la memoria digitale non perdona, e una così infelice uscita rimane indelebile, alimenta un sospetto che nemmeno sorrisi e ringraziamenti pro forma cancellano.

Everything Everywhere All at Once ha tutti gli elementi per essere un vincitore dichiarato, non solo sul piano del merito, ma soprattutto come incarnazione di una felice crasi tra la radice emotiva americana più autentica (il piccolo che arriva a dominare i grandi) e l’apertura alle nuove esigenze di un establishment in cerca di una nuova facciata di rispettabilità, dopo anni di scandali e ipocrisie infrante. E qui, andrebbe fatta una doverosa precisazione: gli Oscar non premiano l’opera come prodotto di fruizione popolare.

Le parole di un maestro come Hitchock possono essere utili in quest’ottica:

Il cinema è il "come", non il "cosa"

Quel ‘come’ si traduce in storia produttiva, in come cavalcare con una certa furbizia le suggestioni sociali più vivaci. Il che non impedisce di realizzare un’opera che sia autentico specchio di una società e al contempo esser meritevole di vincere il massimo riconoscimento hollywoodiano, come accaduto a Nomadland, ma la tendenza sembra essere sempre più mirata a incensare prodotti che siano interpreti di sfumature sociali percepibili come ‘forti’, che premino una mentalità forzosamente aperta e contemporanea. Un intento che rischia di penalizzare opere di forte spessore, come Gli Spiriti dell’Isola, o che porti a una spettacolare ingratitudine verso film che questa industria la amano apertamente e, in alcuni casi, la tengono ancora in piedi. E sono queste pellicole i veri delusi degli Oscar.

I veri delusi degli Oscar 2023

L’idea che gli Oscar premino quindi solamente il ‘bel cinema’ possiamo relegarla a visione utopica. Premessa la suprema dignità del gusto personale, la kermesse hollywoodiana dovrebbe tenere comunque conto anche dell’impatto che i candidati hanno all’interno della totalità dell’industry. Non dimentichiamo che le pellicole autoriali sono un patrimonio inestimabile, ma a tenere vivo il carrozzone sfavillante sono i film che riempiono le sale, che celebrano il cinema come rapporto tra storia e spettatore. Nell’annata 2022 due pellicole in particolare hanno rinsaldato questo tacito ma inossidabile rapporto: Top Gun: Maverick e Avatar: La via dell’Aqua. Tom Cruise e James Cameron. Ossia i due grandi assenti della cerimonia, un messaggio decisamente forte.

A riconoscere il valore delle due pellicole non siamo solo noi spettatori, ma anche figure leggendarie del cinema hollywoodiano. Impossibile guardare il video in cui Spielberg si congratula con Cruise per Maverick sostenendo che con il suo film ha salvato questa industria, e detto da un regista storico come il buon Steve, figlio di quella rivoluzione chiamata New Hollywood e in lizza agli Oscar con un piccolo gioiellino come The Fabelmans, questo non è un semplice complimento ma un’aperta consacrazione. Che per l’Academy poteva valere al massimo un premio nel comparto audio, come se Maverick non avesse null’altro da offrire. Come a voler nuovamente segnare una netta separazione tra il giudizio del conclave hollywoodiano e il pubblico.

Maverick e La via dell’acqua sembrano esser stati quasi penalizzati dall’essere prodotti amati dal pubblico di massa, come se questo fosse un demerito, screditandone l’apporto qualitativo o culturale, contrariamente a un film come Everything Everywhere All at Once che all’Academy potrebbe esser garbato particolarmente perché nasconde un tratto specifico: parodiare i film sui supereroi. Quei film che i grandi nomi di Hollywood non mancano mai di denigrare e considerare opere inferiori, odiandoli ancora più degli odiati blockbuster. Non a caso, tolto l’Oscar al primo Black Panther, da sempre viziato da una sensazione di sgradevole retorica moraleggiante, e l’inevitabile premio come miglior attore a Joaquin Phoenix per Joker,  i premi riservati a questo filone cinematografico sono sempre discubili.

L'Academy odia i cinecomics

Preso nella sua essenza, Everything Everywhere All at Once contiene diversi elementi di divertente e mai banale critica alla narrativa tipica dei film tratti da fumetti, utilizzando persino il multiverso meglio del Marvel Cinematic Universe. Messo in mano a un pool di esperti che non manca mai di banalizzare e sminuire l’apporto culturale e stilistico dei cinecomics, il film dei The Daniels era predestinato ad essere elevato a esempio di una cinematografica esemplare, contrapposta ai supertizi che riempiono le sale senza esser vero cinema. E se da un certo punto di vista si può concordare considerate alcune delle ultime proposte del Marvel Cinematic Universe, la presenza quest’anno di un film autoriale come The Batman avrebbe meritato una maggior considerazione, rendendo Bruce Wayne uno dei grandi delusi degli Oscar 2023.

Eppure, il primo capitolo del Cavaliere Oscuro di Matt Reeves non è stato considerato minimamente per categoria in cui questo film ha stupefatto il pubblico. Dalla sceneggiatura non originale al sonoro, dal montaggio ai costumi, il Crociato di Gotham è rimasto silenziosamente ad applaudire altri, vedendo persino Wakanda Forever avere un contentino vincendo la statuetta per i migliori costumi, vittoria immeritata considerata la presenza di un concorrente assai più meritevole come Babylon. Premio che sembra più un atto di cortesia verso un genere amato dal pubblico ma detestato dall’Academy, un modo garbato per dire che questo non è un palco per cinecomics.

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