Hustle, recensione: la vita in un palleggio

È disponibile su Netflix Hustle, un nuovo film sul basket con protagonista Adam Sandler: una storia toccante e di redenzione.

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a cura di Nicholas Mercurio

Dicono che le storie di redenzione siano le migliori. Quella di Hustle, prodotta da Happy Madison Productions e distribuita da Netflix, è ben diversa dalle altre che abbiamo vissuto recentemente. Ma sicuramente ne sarete abituati, perché avrete visto Winning Time – L’ascesa della dinastia dei Lakers e avrete fatto un tuffo nei ricordi con The Last Dance, che ci ha fatto rivivere la storia di Micheal Jordan al ritmo dei suoi palleggi.

Con Hustle tuttavia, la cinepresa si concentra su un racconto che parla del presente, ma sempre con il basket ancora una volta vero protagonista indiscusso. Nel corso degli anni diversi registi hanno avuto diversi modi diversi di narrarlo, come se la pallacanestro fosse un’allegoria della vita in ogni sua sfumatura. Hustle lo fa a modo suo, scegliendo un approccio semplice e classico, rimanendo fedele al suo messaggio dai titoli iniziali fino a quelli conclusivi.

Il passato fa paura, ma mai quanto il presente

Alla regia c’è Jeremiah Zagar, noto al grande pubblico per l’apprezzato In a Dream, che con Hustle racconta una storia di coraggio e redenzione, scegliendo un taglio divertente e ironico come è tipico del suo stile, tangibile sin dai primi momenti. Hustle, prima di essere una storia che arriva all’obiettivo con semplicità, intrattiene grazie ad Adam Sandler, che per l’occasione indossa i panni di Stanley Sugarman, un talent scout dei Philadelphia 76ers, una compagine che, a differenza dei Los Angeles Lakers e della sua dinastia, vive ogni stagione con il fiato sul collo. Come ogni talent scout che si rispetti, il povero Stanley passa più tempo sugli aerei alla ricerca di nuove promesse dell’NBA che a casa, dove ad attenderlo c’è sua moglie Teresa Sugerman, interpretata da Queen Latifah (Notte brava a Las Vegas).

Stanley attraversa la Russia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, passando per l’Italia, la Francia e la Croazia per poi ritrovarsi in Germania e, infine, nella calda, accogliente e soleggiata Spagna, terra di tori, Paella e di un giovane talentuoso che risponde al nome di Bo “The Boa” Cruz (Juan Hernangomez, cestista degli Utah Jazz), il co-protagonista di questa storia. Il ragazzo, un ventiduenne ragazzo-padre, di giorno è un operaio edile mentre di notte, quando non deve stringere mazzola e scalpello, indossa il costume del giocatore di basket nei campetti affollati di Madrid.

Non facendo spoiler che potrebbero rovinarvi la visione, sappiate soltanto che a reggere l’intera trama è la cinepresa di Jeremiah Zagar, che ha scelto un approccio più oculato, coinvolgente e interessante, umanizzando i protagonisti e accentuando ogni loro scelta. Ma a colpire realmente nel corso dell’evoluzione narrativa sono gli avvenimenti che si susseguono durante il racconto, che si incastrano in modo omogeneo e fluido nel racconto. Potremmo pensare a metà film che quella di Hustle non sia altro che una trama che preferisce raccontare lo sport attraverso i suoi dietro le quinte, infischiandosene di cosa potrebbe accadere nel suo processo evolutivo. In realtà non si tratta nient’altro di un film suddiviso a compartimenti gestiti in modo corretto e attento, con il pregio di intrattenere dall’inizio alla fine.

Ogni scena ha una sua profondità e un modo proprio di esprimersi. I suoi punti di forza, sfruttati in modo egregio all’interno del film, sono tutti concentrati sulla scrittura dei personaggi e sulle loro emozioni. E sono i loro sentimenti, ovviamente, ad avere uno spazio preponderante all’interno della produzione, non risultando mai banali o artificiosi, rappresentando il collante perfetto tra le vicende e l’evoluzione narrativa. Se da una parte abbiamo un personaggio tenace come Stanley, dall’altra Bo è spaventato dal futuro, come se la grande occasione che ha davanti come papabile stella dell’NBA sia una maledizione.

Una storia matura e intensa

Hustle inscena una grande prova di coraggio e forza attraverso Stanley Sugerman, che sogna di diventare assistant coach, abbandonando il lavoro da talent scout per stare più vicino alla sua famiglia. Mentre la regia concentra le proprie energie nel rendere il personaggio verosimile nonché reale agli occhi del grande pubblico, Adam Sandler sorprende con una delle interpretazioni più emozionanti della sua carriera, proponendo un protagonista principale con i suoi fantasmi e le sue paure. Cerca di dimostrare al proprietario dei Philadelphia 76ers Vince Merrick (Ben Foster) di essere l’uomo giusto, pur rappresentando un’incognita che potrebbe mettere in pericolo l’immagine della squadra. Vuole vincere, non importa come; vuole essere un coach.

Stanley è un personaggio sensibile, che evolve senza fretta mentre insegna a Bo quanto sia bello vivere, smussando le sue fragilità e accettando i suoi difetti, facendolo sbattere contro le sue paure. L’evoluzione della storia non ha un ritmo serrato o esagerato come siamo abituati con altre produzioni cinematografiche, ma al messaggio del film – quello di non arrendersi mai – arriva con calma, prendendosi il tempo necessario per farsi conoscere. Questo insegnamento viene proiettato anche su Bo che, vedendosi sfuggire via l’occasione della sua vita in più occasioni, affronta un percorso che lo porta lontano dalla Spagna e dalla sua famiglia, mentre cerca di resistere alle provocazioni degli altri giocatori di basket che non aspettano altro di entrare nel draft dell’NBA, uno dei momenti più esaltanti per gli appassionati della pallacanestro.

Cresciuto nella periferie madrilena, Bo è il primo talento naturale che colpisce Stanley come non aveva mai fatto qualunque altra promessa prima del suo incontro con l'ispanico. L’interpretazione di Juan Hernangomez ci ha convinto e soddisfatto, nonostante non sia un attore: il giovane Bo è un ragazzo silenzioso che esprime le sue emozioni e la sua sensibilità attraverso dei lunghi silenzi e dei gesti inaspettati, che il cestista spagnolo ha saputo replicare calandosi nei suoi panni in maniera commovente, come se interpretasse se rivivesse l'inizio della sua carriera. Davanti a noi abbiamo conosciuto due personaggi sensibili e forti al tempo stesso, che unendo le forze hanno saputo dimostrare di essere quelli giusti per guidare il futuro della disciplina sportiva più emozionante di sempre.

Quando il basket è il protagonista

Ogni sentimento mostrato in Hustle mette in risalto come la pallacanestro sia il punto nevralgico del racconto, dandogli spazio e portandogli rispetto. Attorno alla palla c’è il mondo da cui Bo cerca di fuggire, mentre, mentre dentro di essa c’è Stanley che combatte con le unghie e con i denti per restarci. Non è soltanto una storia di persone che non si arrendono davanti a niente, non è il classico film sportivo e non è neppure una produzione motivazionale come The Blind Side.

Hustle è un pugno dritto in faccia come se fosse un’allegoria della vita, come se raccontasse che a volte è meglio prendersi cosa si desidera con la forza, non aspettando niente e nessuno. La vita è caotica, crudele e imprevedibile, brutale e decisa; ma è anche una sfida da vincere superando i propri limiti su cui si ergono, a loro volta, patemi e debolezze da disintegrare. La cinepresa si sposta dai protagonisti ai campetti, arrivando nelle palestre dove il sudore e la fatica sono i padroni indiscussi per finire nelle arene del basket in cui tutto viene deciso dal pallone e dalla mentalità dei suoi giocatori. Mentre Bo affronta le sue paure, Stanley combatte con le unghie e con i denti per il posto che merita nella lega e che sogna da quando ha lasciato il campo come playmaker.

L’intero processo evolutivo dei protagonisti, il ritmo narrativo e la storia sono convincenti perché parlano non soltanto al pubblico che ama il basket, ma anche a chi non ha mai visto una partita prima di oggi, riuscendo ad essere fruibile e di facile comprensione. Hustle è potente quanto di semplice lettura e comprensione, nonché d’impatto per i temi trattati al suo interno e per quanto viene raccontato. “Non arrendersi mai” è la regola fondamentale di Stanley, quella che impartisce a Bo, l’unica che può realmente contare molto più di un draft o di una partita. La cinepresa è infatti fissa sui sogni e le speranze di entrambi, spostandosi sui muscoli dello spagnolo e sulla ferita di Stanley, come se ogni scena fosse una lezione da apprendere.

Hustle è una storia toccante che appassiona, esortando lo spettatore a una seconda, terza o quarta visione qualora non gli bastasse la prima. Le battute di Adam Sandler, complice una sceneggiatura ben strutturata, sono sempre calzanti e azzeccate, mai noiose o banali, dando freschezza alla seriosità di un film riuscito e privo di difetti. Tutto è ben equilibrato e viene raccontato nei modi e nei tempi giusti, arrivando all’obiettivo finale con estrema semplicità, divertendo e intrattenendo, urlando al mondo che sì, la vita è in un palleggio e noi ne facciamo parte. Volente o nolente.

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