Lo spettro degli spoiler
Uno spettro si aggira per internet. Lo spettro degli spoiler. Questa parola, da sola, riesce a evocare immagini di rabbia e di isteria collettiva. All’istante vengono alla mente scene catastrofiche e surreali: coraggiosi asceti che rinunziano a ogni social network finché non avranno visto tutte le stagioni di Game of Thrones, astuti programmatori intenti ad affinare filtri in grado di nascondere qualsiasi post o messaggio contenenti anticipazioni o congetture, folle inferocite pronte a punire, con torce e forconi, quegli ingenui che hanno osato dire in pubblico chi è il padre di Luke o che Rosebud è una slitta. Ma come siamo giunti a questo? Come ci siamo trovati a combattere una guerra fratricida e senza quartiere? La "colpa", oltre che delle nostre nevrosi a lungo coltivate nella valle di silicio, è, ovviamente, di Netflix.
Il colpo di scena
L’affermarsi delle serie come formato narrativo di punta ci ha abituati a vivere l’esperienza narrativa in funzione dell’attimo, del presente, della gratificazione istantanea, del piacere dato dallo shock e dalla sovversione di ogni aspettativa. Restiamo seduti pazienti, guardando per dieci puntate quello che, molto spesso, poteva essere raccontato comodamente con un film di due ore, senza bisogno di infinite diluizioni omeopatiche, aspettato il prossimo grande momento adrenalinico, aspettando lo shot di dopamina dato dal colpo di scena. In questo contesto, ovviamente, non vogliamo che il nostro piacere venga rovinato da qualche eretico che osa svelare su Twitter quale Stark morirà sta sera o con chi si accoppieranno il nostro husbando o la nostra waifu del momento. Sia chiaro. Non c’è niente di male nei colpi di scena. Non è nemmeno sbagliato usare decine e decine di puntate solo per costruire un singolo momento di stupore. Quello che c’è di sbagliato, semmai, è pensare che questo valga per tutti i tipi di narrazione e, soprattutto, per ogni tipo di medium.
La forma delle storie
La maggior parte delle storie, infatti, è abbastanza solida e forte da resistere a qualsiasi spoiler. Conoscere già quello che accadrà non distrugge il nostro piacere, anzi, molto spesso lo rafforza e lo completa. La sorpresa è solo uno dei fattori che ci fanno apprezzare le narrazioni. Quando ci mettiamo a guardare le avventure di un eroe muscoloso anni ottante che con il suo mitragliatore falcia centinaia di cattivi, sappiamo già che alla fine uscirà vincitore. Eppure questo non toglie valore alla visione. Anzi. Possiamo concentrarci su altre cose. Per esempio sull’esecuzione, sulla coreografia, sulla messa in scena, sul modo in cui questi poveri cattivi vengono ammazzati e, quando la storia lo consente, sul costruire un legame emotivo con i personaggi.
Quasi nessuna narrazione è davvero nuova o originale. Per esempio, secondo Kurt Vonnegut le storie possono avere solo sei forme. Per altri studiosi qualcuna di più o qualcuna di meno. Non è questo il punto. Il punto è che per secoli l’umanità si è raccontata e riraccontata per decine, centinaia e forse migliaia di volte la stessa storia, con poche differenze,senza per questo smettere di amarla. Del resto tutti noi abbiamo un film o un libro di conforto che conosciamo a memoria, da rileggere e riguardare ogni volta in cui ne abbiamo bisogno. Gli spoiler sono quindi un’arma in grado di rovinare solo alcuni tipi di racconto e non è corretto ergere il colpo di scena come valore fondante di tutta la produzione filmica o letteraria. Allo stesso modo è ancora più pericoloso traslare il malvagio culto degli spoiler e della sorpresa a ogni costo verso contesti di narrazione partecipata, come i giochi di ruolo.
I giochi di ruolo
Nei giochi di ruolo da tavolo, i giocatori non sono spettatori passivi della storia preparata per loro dall’amica o dall’amico a cui sono toccati gli onori e gli oneri di essere i master di una campagna. No. I giocatori sono parte attiva e integrante della narrazione, come se fossero gli attori protagonisti di un film. Con un’importante differenza: quando ci si siede intorno a un tavolo, armati di dadi e schede, non c’è nessun copione. E qui possono iniziare i problemi se, per salvaguardare la storia, per non fare nessun temuto spoiler, non c’è stata abbastanza comunicazione.
Senza un canovaccio, infatti, è molto difficile per i giocatori interpretare personaggi che sembrino parte della stessa narrazione. Senza decidere prima un genere, un’atmosfera e delle situazioni possibili, ognuno correrebbe il rischio di essere perso, di reagire in maniera individuale e stonata. Per questo non parlo solo di atmosfera e di genere, ma anche di situazioni. Ci sono limiti alle capacità di improvvisazione che possiamo chiedere ai nostri giocatori ed è giusto dare a ognuno il tempo di prepararsi. Anche quindi a rischio di svelare particolari sulla campagna che andrà a prendere forma, è sempre meglio chiarire in anticipo le scene possibili che i personaggi andranno a vivere. Si troveranno a uccidere dei re? Ad affrontare delicate situazioni di vita quotidiana? A salvare il multiverso da un orrore tentacolare nato da cartelle esattoriali mutanti?
Per quanto l'interpretazione e l'improvvisazione possano essere divertenti, infatti, hanno sempre bisogno di un contesto in cui essere costruite, per non diventare esercizi sterili e, a volte, solipsistici. La vita, del resto, non è completamente imprevedibile, abbiamo tempo per adattarci a una gamma di scenari possibili in cui potremmo trovarci. Ma ancora più della vita, sono le storie a non essere imprevedibili, a dover sempre seguire un ritmo e una coerenza interni. E, nei giochi di ruolo quasi mai stiamo simulando la vita reale, quasi mai ci lanciamo in uno sforzo verista o neorealista. Di solito tentiamo di portare sul tavolo storie e narrazioni.
Archi narrativi
Raramente ci approcciamo a una narrazione senza sapere nulla. Guardiamo il trailer di un film prima di entrare al cinema e leggiamo la retrocopertina di un romanzo prima di iniziare a leggerlo. Questo ci dà un contesto. Ci dà dei paletti entro cui calibrare le nostre aspettative. Ovviamente, l’accordo e la comunicazione sui contenuti e gli sviluppi di una storia non sono responsabilità solo del master. Anche i giocatori devono stabilire tra loro confini e patti, perché la narrazione possa svilupparsi. L’esempio migliore di questo sono gli archi narrativi. Non tutti gli archetipi sono infatti sotto ai riflettori nello stesso momento, né tutti devono andare incontro allo stesso destino. Chi gioca il malvagio signore dei lich sa che verrà sconfitto nell’ultima puntata, mentre il giovane scudiero, segretamente figlio di un re, avrà la responsabilità di impugnare la spada magica. Il saggio consigliere dovrà farsi da parte negli ultimi episodi e lasciare che il suo protetto scelga di testa sua, mentre la guardia onorevole sa di essere il bersaglio prediletto per il dardo avvelenato.
Sono tutti elementi su cui è indispensabile accordarsi prima dell’inizio di un’avventura e che, se messi in chiaro, non minano il divertimento ma, anzi, danno più possibilità di interazione narrativa e di interpretazione. Ovviamente tutto questo va verso un approccio collaborativo e non individualista al gioco di ruolo, in cui l’obiettivo non diventa “fare quello che si vuole” ma “creare una bella storia insieme”.
Giocare alle storie
Ma quando si decidono ruoli, archi narrativi e archetipi, da dove arriva il divertimento del giocatore? Da dove arrivano gli imprevisti e l’imprevedibilità che danno fascino al gioco di ruolo? Dalle interazioni, ovviamente. Riprendiamo l’esempio del saggio mentore e dello scudiero a lui affidato. Il mentore sa benissimo che spetterà allo scudiero prendere la decisione finale, in grado di salvare o di distruggere il mondo, ma non per questo il suo gioco è meno profondo. Anzi. Il suo gioco o, meglio, il suo personaggio, si sviluppano intorno al rapporto con lo scudiero. Riuscirà a insegnargli la differenza tra bene e male? Riuscirà a fargli prendere la decisione giusta? Tutto questo, intorno a un tavolo, diventa ancora più interessante se i mentori sono due, ognuno con un concetto diverso di “scelta giusta”.
Gli esempi potrebbero essere infiniti ed è inutile dilungarsi oltre. Del resto, che preservare la sorpresa a ogni costo non sia molto utile nel gioco di ruolo, che il culto degli spoiler non ha terreno fertile tra dadi e schede, potevamo scoprirlo anche solo analizzando il più vecchio trucco di ogni master: far capitare eventi casuali e incomprensibili e poi scegliere come vera una delle spiegazioni che i giocatori si sono dati, facendoli anche sentire gratificati quando crederanno di aver svelato il mistero.
LARP e segreti
Quanto detto vale per i gdr cartacei. Per i larp, in cui, molto spesso, patti iniziali e controllo da parte dei master sono impossibili, la gestione di eventuali sorprese narrative diventa ancora più complicata. Talmente complicata che, secondo alcune tradizioni nordiche, i segreti e i colpi di scena andrebbero completamente eliminati, in favore di un approccio totalmente “in chiaro” teso a favorire le interazioni tra giocatori. Una soluzione del genere è sicuramente estrema e applicabile solo a pochissime esperienze di nicchia, ma può dare l’idea di quanto il problema sia sentito.
Senza arrivare a certi eccessi, anche in Italia abbiamo fatto diversi esperimenti su questo argomento. Fino a che punto è possibile avvertire prima i giocatori di quanto accadrà e fino a che punto questo sarà un vantaggio per la loro esperienza, prima di diventare un problema? Ne Il Crepuscolo degli Dèi, larp per più di cento giocatori messo in scena nel 2018, abbiamo provato un approccio radicale: tutti i partecipanti sapevano fino dall’inizio che, alla fine dei tre giorni di gioco, il loro personaggio sarebbe morto. Non era quindi la destinazione il centro dell’esperienza, quanto il viaggio. Come sarebbero arrivati alla fine della loro vita? Come avrebbero agito nelle ultime ore prima della fine? Si sarebbero meritati un aldilà glorioso o un infamante oblio?
Come in tutti gli esperimenti, molte cose hanno funzionato bene mentre altre si sono rivelate sbagliate. Una cosa però è certa: forse per la prima volta abbiamo visto come tutti i cento giocatori stessero vivendo la stessa storia. E forse è proprio questo il vantaggio della trasparenza: la possibilità di creare un’esperienza il più possibile condivisa.