Dahmer, recensione: la conferma di un Evan Peters magistrale

Dahmer è la nuova serie Netflix che fa tanto parlare si sé. Con un Evan Peters straordinario, Ryan Murphy ci parla del Mostro di Milwaukee.

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a cura di Livia Soreca

Ryan Murphy decide di cavalcare l'onda della passione per il true crime per lavorare ad una serie TV biografica dal lungo titolo Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, incentrata sul noto serial killer americano. Attore protagonista è l'acclamato Evan Peters, pupillo del regista e sceneggiatore dai tempi di American Horror Story. I fan di quest'ultima, infatti, non possono non sentire il forte richiamo di questa novità Netflix prodotta dalla Murphy Productions, essendo quella di Murphy-Peters da sempre una coppia vincente.

Murphy nella mente del Mostro

La storia di Jeffrey Dahmer è ben nota: tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90, il serial killer americano compì 17 brutali omicidi, prima di essere finalmente catturato. Dahmer comincia col narrare il suo arresto, scelta che potrebbe far credere si tratti della storia del processo e della condanna. Non si è sicuri di cosa si andrà a conoscere della vita del Mostro di Milwaukee fin quando, nel primo episodio, un repentino balzo all'indietro porta lo spettatore alla primissima infanzia di Jeff. È qui che ci si rende conto che la serie sarà un lungo e intricato percorso dai primi segnali di squilibrio fino alla fine di questa terribile storia che ha segnato la società americana e, soprattutto, la vita di tantissime persone.

Ryan Murphy è quel folle genio che può passare da una serie come Glee ad American Horror Story in men che non si dica, e a rendere riconoscibile ed inimitabile la propria impronta in progetti così lontani da loro ma, al tempo stesso, con una familiarità indescrivibile. Dahmer si inserisce perfettamente nel suo panorama e nella sua filmografia; la sua mano è inconfondibile nella sceneggiatura, che firma insieme a Ian Brennan.

Da buon horror-maniaco, i racconti dei serial killer sono da sempre cari a Murphy. Nel suo più celebre progetto, molti personaggi sono spesso ispirati ad altri realmente esistiti o a leggende urbane. Si pensi al Dr. Oliver Thredson in AHS: Asylum, una citazione di Ed Gein, altro noto serial killer americano che dà lo spunto per un'ulteriore figura iconica: Hannibal Lecter. Con Dahmer, però, l'autore coglie l'occasione per far sì che un simile personaggio non sia più secondario, bensì il primo protagonista, veicolo dell'unico punto di vista della serie.

La primo elemento che si può notare, infatti, è la perpetua prospettiva di Jeffrey all'interno del racconto. Il copione di Evan Peters è, di fatto, quello più ricco di battute, riflessioni, pensieri a voce alta, insieme a numerose visioni che egli ha durante i primi anni da efferato omicida. O almeno è così che Murphy e Brennan immaginano la mente del Mostro. Sin dal primo episodio, prima ancora di osservare l'inizio di un terrificante viaggio, si è catapultati nella sua psicologia complessa, che trasmette già il lento declino di un uomo colto ormai nella sua fase più distruttiva. È per questo che il lungo salto indietro nel tempo è importante, oltre ad essere una mossa intelligente per accontentare il pubblico: cercare di capire il perché, conoscere le origini di quel declino.

Dahmer: nell'occhio del ciclone

Dahmer, composta da 10 episodi dalla durata di circa un'ora ciascuno, si rivela poco a poco un lunghissimo, quasi interminabile racconto. E in effetti non c'è fretta, la sceneggiatura prende molto tempo per illustrare un percorso graduale e mostrarlo nei minimi dettagli. Essa lo rende credibile, nonostante sia una versione chiaramente romanzata e a tratti fantasiosa della vita e dei pensieri del serial killer.

L'impressione non è certo quella di una sorta di giustificazione delle azioni di Jeffrey, ma una lineare narrazione dei fatti, con cui si cerca di saziare quella voglia di comprendere i comportamenti umani. Per alcuni sarà una mera curiosità, per altri una specie di guilty pleasure, immergersi in una storia d'orrore, basata su avvenimenti reali. È proprio questo il dilemma della passione per il true crime: come può un racconto di omicidi piacere a qualcuno, specialmente se si tratta di qualcosa di vero e tangibile?

C'è da dire che Jeffrey Dahmer è da sempre gettonato nella cultura di massa, dal romanzo di Poppy Z. Brite Cadavere Squisito (1996) al film Drahmer - Il cannibale di Milwaukee (2002) di David Jacobson, alle numerose citazioni in canzoni, serie animate, film, fumetti (My Friend Dahmer) e tanto altro ancora. Tuttavia nessuno finora aveva mai dedicato così tanto tempo ad illustrarne la mente, o a cercare di costruire una storia che fosse verosimile, specialmente a livello psicologico. Ecco, per quanto sia risaputa l'ossessione che Ryan Murphy possiede per questo genere narrativo, egli non "romanticizza" la brutalità di un uomo, né vuole suscitare pietà o compassione, nonostante sia risaputo che dietro la mente di Jeff si nasconde un passato turbolento.

Una polemica che fa riflettere

Tra le mille polemiche che stanno bombardando la serie Netflix, vale la pena riflettere su un aspetto impossibile da ignorare. Come riportato recentemente, la famiglia di una delle vittime del killer critica fortemente Dahmer. Il punto è il seguente: pur dando ormai per buona questa diffusa passione per il true crime, spesso si pecca di scarso rispetto del dolore. A che pro far rivivere un trauma alle persone care alle vittime ancora una volta?

Cavalcando quest'onda controversa, forse un'opera fittizia come Only Murders in the Building non avrebbe suscitato scalpore, sempre legittimo. L'idea della Murphy Productions, però, è solamente quella di parlare di un personaggio che, ormai, fa parte della cultura di massa degli Stati Uniti, al pari del Mostro di Firenze o, se vogliamo, di un Jack lo Squartatore. Anzi, Dahmer si fa portavoce di una grandissima denuncia sociale, in difesa della comunità nera, bersaglio del killer, a sfavore della Polizia americana, chiaramente bianca, che continua ad ignorare important segnali.

Evan Peters: semplicemente perfetto

Fatte queste premesse, Dahmer resta, a livello qualitativo, un progetto impeccabile. Gran parte del merito va all'attore protagonista. Chi segue Ryan Murphy da un po', ricorderà gli esordi di Evan Peters in American Horror Story. I suoi personaggi, non sempre primari, trovano il modo di spiccare con la loro unicità grazie alla sua interpretazione, con cui egli riesce ad immedesimarsi perfettamente nei diversi ruoli. Tant'è che, prima di quest'anno, è sempre stato difficile associare un'unica figura all'attore, la cui professionalità si riversa in tutto ciò che fa. Dahmer non solo conferma un Evan Peters magistrale, ma fa sì che il ruolo di Jeffrey sia, finalmente, quell'abito iconico cucito direttamente su di lui.

Spesso la scena vede Peters come unico fulcro, indice di quell'univoco punto di vista di cui si è parlato pocanzi. Non è facile, a livello emotivo, dover rappresentare un uomo profondamente deviato, capace di crudeltà. Sul suo volto è visibile tutto ciò di cui egli si fa carico nell'entrare nei panni di Jeffrey, come se riuscisse ad assorbirne l'oscurità. Uno sguardo corroso dalla consapevolezza di star facendo del male ma anche dall'impossibilità di non smettere. Il dolore, la vergogna, ma anche l'ossessione e il trasporto emotivo, sono sentimenti che Evan Peters fa propri, e si nota. Si è di fronte ad un personaggio credibile, per niente "cinematografico" bensì reso reale, vero.

Scelte stilistiche giuste

Nonostante la brutalità del racconto, in Dahmer la violenza è edulcorata a livello visivo. Pur senza dettagli macabri, la fotografia di Jason McCormick riesce ad ammorbidire le scene più crude, che altrimenti troverebbero pieno domino in una serie già di per sé molto corposa e impegnativa. Ne è sconsigliata una visione tutta d'un fiato, non solo per la durata ma anche per poter metabolizzare al meglio tutti i passaggi essenziali per raggiungere l'epilogo con consapevolezza.

La serie è dominata da un filtro giallastro, lo stesso che talvolta si intravede nelle grandi lenti di Jeffrey, ancora una testimonianza della sua prospettiva onnipresente. Spesso la variazione delle luci suggerisce la distinzione tra un momento più tranquillo e uno più turbolento, specie quando le vicende sono ambientate nel suo appartamento, il luogo dei 17 delitti.

Priva di molte scene corali, Dahmer predilige inquadrature di una o, soprattutto, due persone, in genere Jeffrey e la sua vittima, quasi a voler creare tanti momenti intimi, dando un peso allo scambio di parole e creando una tensione maggiore. Il tutto è accompagnato da una colonna sonora mai invadente, un lieve sottofondo a ciò che si dice e si racconta, con brani che si armonizzano perfettamente, di volta in volta, ai i vari periodi illustrati, dagli anni '60 ai '90.

In conclusione, Dahmer è una serie che merita?

Dahmer fa tanto parlare di sé. Si inserisce in un filone che non può non suscitare pareri contrastanti, ma questo non impedisce di considerare la nuova serie Netflix un prodotto ben riuscito, coeso, uniforme, impegnativo. Evan Peters si riconferma un professionista, capace di azioni straordinarie, insieme alla mente brillante di Ryan Murphy che non delude mai. Dahmer non soddisfa le aspettative: le supera.

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